In Giappone l’uguaglianza di genere nel lavoro è ancora lontana
Per esempio, le donne a capo delle aziende quotate in borsa sono meno dell'1 per cento
Martedì l’agenzia di stampa giapponese Kyodo News ha pubblicato i risultati di un sondaggio da cui emerge che nel 2023 delle 1.643 aziende giapponesi quotate nella Borsa di Tokyo solo 13 erano guidate da donne: lo 0,8 per cento. La percentuale sale all’8,3 per cento se si prendevano in considerazione tutte le aziende giapponesi, comprese quelle non quotate, secondo uno studio della società di consulenza Teikoku Databank pubblicato a novembre 2022. Lo stesso studio comunque faceva notare che più della metà di loro ricopriva questa posizione perché aveva ereditato un’azienda a conduzione famigliare.
È un numero abbastanza impressionante, che conferma come, nonostante il Giappone sia uno dei paesi più industrializzati al mondo e culturalmente considerato estremamente moderno, sia ancora indietro molto per quanto riguarda la parità di genere in ambito lavorativo, e non solo. Negli ultimi anni il governo giapponese ha cercato di rimediare a questo problema, con qualche effetto positivo, dato anche dall’inevitabile ricambio generazionale nel mondo del lavoro. È però per ora ben lontano dal raggiungere gli obiettivi che si era prefissato.
Nel 2023 il Giappone era al 125esimo posto di 146 paesi nel Global Gender Gap, il report annuale del World Economic Forum che misura la disparità fra uomini e donne in un paese sulla base di quattro aree: opportunità e possibilità di partecipare all’economia del paese, istruzione, salute e aspettativa di vita e rappresentatività politica. È una posizione bassissima se si considera che fra gli altri membri del G7 il secondo peggior paese è l’Italia, al 79esimo posto, mentre gli altri cinque stati sono tutti fra i primi 45.
Fino al 1986, anno in cui fu approvata la Legge sulle pari opportunità di lavoro, le donne venivano principalmente assunte nelle aziende come ochakumi, cioè per servire il tè alla fine delle riunioni.
Negli anni successivi il tasso di occupazione femminile crebbe un poco per poi scendere di nuovo e risalire molto velocemente a partire dal 2013: quell’anno l’allora primo ministro Shinzō Abe fece un discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in cui disse di considerare le donne il più grande potenziale per la crescita dell’economia giapponese e di voler «creare una società in cui le donne risplendono».
Da qualche anno infatti c’era bisogno che le donne entrassero a far parte della forza lavoro per via della grave mancanza di manodopera data dalla diminuzione costante del tasso di natalità, unito a un crescente numero di persone pensionate (il Giappone è lo stato più anziano al mondo, seguito dall’Italia).
Oggi in Giappone lavora l’80 per cento delle donne fra i 25 e i 54 anni, ma moltissime hanno impieghi part time: le donne rappresentano infatti solo il 25 per cento dei lavoratori a tempo pieno e con contratto a tempo indeterminato. Questo distacco si nota particolarmente ai livelli più alti e specialmente nel settore privato: un dato fra tutti è appunto quello delle donne che ricoprono il ruolo di amministratrice delegata in un’azienda (il direttore del Japan Research Institute, Ryusuke Ishii, ha detto a Kyodo News che questo dipende anche parzialmente dal fatto che in queste aziende è comune assumere come nuovo amministratore delegato una persona esterna, piuttosto che favorire la promozione di qualche interno: cosa che va a favore degli uomini).
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Negli ultimi anni comunque sono stati fatti dei passi avanti in questo campo: nel 2019 solo 1.502 posti nei consigli di amministrazione delle aziende quotate in borsa erano occupati da donne, e nel 2023 erano diventati 3.052, ossia il 16,2 per cento. Nel 2023 il primo ministro giapponese Fumio Kishida disse di voler portare questo dato al 30 per cento entro il 2030.
La volontà di agire sul problema della disparità di genere sembrava però, nonostante i parziali progressi, ancora molto teorica: quando Kishida fece quell’annuncio diversi giornali gli fecero notare che dei 19 membri che componevano il suo governo solo 2 erano donne e persino il ministero per l’Uguaglianza di genere era affidato a un uomo.
Qualche mese dopo però, a settembre del 2023, in seguito a un rimpasto di governo, le ministre diventarono cinque, fra cui Ayuko Kato al ministero per l’Uguaglianza di genere, e, soprattutto, Yoko Kamikawa, la seconda donna di sempre a ricoprire il ruolo di ministra degli Esteri (la prima era stata Yoriko Kawaguchi dal 2002 al 2004).
Tetsu Yamaguchi, direttore delle risorse umane globali di Fast Retailing, la multinazionale giapponese che possiede anche Uniqlo, ha detto al New York Times che le donne giapponesi raggiungono meno spesso posizioni di dirigenza perché «non sono così ambiziose come le altre donne nel mercato globale» e perché «la loro priorità è prendersi cura dei figli piuttosto che fare carriera».
Moltissimi studi dimostrano però che l’ambizione, o meglio la mancanza di ambizione (data molto anche dal contesto culturale in cui una donna cresce e gli obiettivi che le viene insegnato siano raggiungibili), sia solo uno dei fattori che incidono sulla carriera delle donne. L’idea che le donne giapponesi abbiano ancora come priorità quella di prendersi cura dei loro figli non si allinea inoltre molto con il fatto che il tasso di natalità nel paese sia bassissimo e in costante diminuzione.
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La questione dei figli è in realtà uno dei principali problemi per le donne in questo ambito, ma per altri motivi. Al di là del fatto che mettere in pausa il proprio lavoro per via di una gravidanza e del successivo congedo di maternità influisce negativamente sulla velocità di carriera delle donne rispetto agli uomini, le donne lavoratrici svolgono ancora la gran parte dei lavori di cura e domestici.
In Giappone la separazione dei compiti in base al genere è ancora molto rigida e secondo le più aggiornate statistiche governative, pubblicate nel 2021, le donne si fanno ancora carico di oltre tre quarti dei lavori domestici e di cura. Nonostante questo stia parzialmente cambiando, gli uomini fanno ancora molto poco, specialmente nel momento in cui ce n’è più bisogno, ossia quando il figlio è molto piccolo, ma questo non dipende solo da loro.
Nell’ottica di diminuire la quantità di ore che le donne sono costrette a dedicare alla cura dei figli e alla pulizia della casa, il parlamento giapponese approvò nel 2021 la creazione di un congedo di paternità, anche se piuttosto esiguo: i padri possono prendere fino a quattro settimane di congedo nelle otto settimane successive alla nascita (comunque più dell’Italia, dove è obbligatorio ma dura solo 10 giorni), ma quasi nessuno ne approfitta. Inoltre nei mesi successivi le donne si fanno comunque più carico del figlio e questo le penalizza in ambito lavorativo.
A questo si aggiunge la cultura lavorativa del Giappone, che incentiva moltissimo a lavorare oltre la fine dell’orario lavorativo e a partecipare agli eventi di dopo-lavoro organizzati dalle aziende. Secondo un’indagine condotta dall’agenzia interinale giapponese Doda nel 2023, i dipendenti giapponesi lavorano in media 22 ore di straordinari al mese. In alcuni settori questo dato viene ampiamente superato, cosa che ha portato il governo a varare una legge che ha messo un limite ufficiale a 45 ore al mese. Anche andare a bere con i colleghi e partecipare agli eventi serali organizzati dall’azienda è considerato praticamente obbligatorio se si vuole essere promossi.
Le donne con figli spesso non si possono permettere di fare straordinari, che sono però considerati un modo per provare la propria dedizione e lealtà all’azienda, né partecipare a questo tipo di eventi, con il risultato che sono escluse da contesti in cui è anche più facile farsi conoscere dai propri superiori e discutere della propria posizione lavorativa in un contesto più rilassato.
Alcune grandi aziende hanno cercato di cambiare questa cultura, diminuendo il numero degli eventi di dopo-lavoro programmati e mettendo anche dei limiti di orario. Itochu, una delle più grandi aziende di commercio e banche di investimento giapponesi (chiamate sōgō shōsha), è una di queste: una sua dipendente di 24 anni che lavora nella sede centrale di Tokyo ha detto al New York Times di aver partecipato in media a questi eventi tre volte a settimana e che «in passato erano molti di più». L’azienda ha inoltre imposto che queste feste finiscano alle 22. Nonostante gli sforzi però questi orari rimangono inconciliabili per le madri con figli piccoli.
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