L’epoca d’oro delle sigle italiane dei cartoni giapponesi

Tra voci robotiche, sintetizzatori, riferimenti alla fantascienza e giri di basso memorabili, tra gli anni '70 e '80 diversi gruppi le sfruttarono per sperimentare nuovi suoni

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Nel marzo del 1978 il tastierista Vince Tempera e il paroliere Luigi Albertelli avrebbero dovuto incontrare il cantautore Renato Pareti negli studi dell’etichetta discografica Fonit Cetra, a Milano, per lavorare sugli arrangiamenti di alcune canzoni. «La giornata non era partita benissimo: Pareti era in ritardo di due ore, ed eravamo abbastanza scocciati. E invece quella mattina cambiò le nostre carriere», racconta Tempera.

Mentre aspettavano, ricevettero infatti una chiamata da Roma. Era la Rai: «ci chiesero di andare agli studi di Corso Sempione, a Milano, per guardare un episodio di un cartone animato giapponese di cui avevano acquistato i diritti, e che sarebbe andato in onda da lì a un mese». Era un episodio di Atlas Ufo Robot, il titolo con cui divenne famosa in Italia UFO Robot Grendizer, serie animata tratta da un fumetto di enorme culto scritto e disegnato da Go Nagai, uno dei mangaka giapponesi più influenti di sempre.

Fu il primo cartone rappresentativo del genere a essere trasmesso sulla Rai, e quello che importò in Italia una diffusissima fascinazione per il mecha, un filone di fantascienza caratterizzato dalla presenza di robot giganti pilotati dall’interno da esseri umani. «La Rai considerava la sigla originale poco fruibile per il pubblico italiano, e così ci propose di farne una nuova», racconta Tempera.

Guardarono quell’episodio «in lingua giapponese e in cattivissima risoluzione, dato che gli studi di Corso Sempione non avevano le macchine adatte per riprodurlo». Tuttavia, intuirono fin da subito che aveva a che fare con la fantascienza (un genere di cui lo stesso Tempera era molto appassionato), e che di conseguenza la sigla avrebbe dovuto avere a che fare «con lo spazio, con il futuro, con la tecnologia e con la lotta manichea tra bene e male. Cose così».

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Per la realizzazione della sigla, la Rai mise a disposizione di Tempera la band jazz che suonava dal vivo nella maggior parte delle trasmissioni dell’emittente, a cui si aggiunsero altri musicisti, come l’ex bassista degli Area Ares Tavolazzi, il batterista Ellade Bandini, il chitarrista Massimo Luca e i cantanti Dominique Regazzoni, Michel Tadini e Fabio Concato, che si occuparono dei cori. Il testo invece fu scritto da Albertelli, che ai tempi lavorava come pubblicitario e che sfruttò le sue competenze per realizzare «un qualcosa di leggero e molto pop, ma in grado di evocare un immaginario futuristico».

Il risultato fu una delle sigle italiane più famose in assoluto, caratterizzata da una parte strumentale di fiati riconoscibilissima, un ritmo incalzante e ballabile, dei cori didascalici («Ufo robot, Ufo robot») e quindi facilissimi da ricordare. L’altro elemento distintivo fu un testo dotato di riferimenti fantascientifici piuttosto inusuali per i tempi, come i «libri di cibernetica» e le «insalate di matematica».

La sigla di Atlas Ufo Robot ottenne una popolarità enorme e istantanea: cominciò sin da subito a essere passata in radio, e si rivelò un efficace tormentone da far partire durante le feste. «Per dare l’idea, in meno di due anni vendemmo cinque milioni di quarantacinque giri. Senza rendercene conto, avevamo creato un mercato tutto italiano», dice Tempera.

Grazie al successo di Atlas Ufo Robot, diversi musicisti intuirono che le sigle potevano essere un affare molto redditizio. Da un lato infatti i cartoni animati giapponesi, e in particolare quelli incentrati sui cosiddetti “robottoni” (il termine con cui in Italia vengono solitamente indicati i mecha), furono molto apprezzati dal pubblico italiano, che mostrò un grande interesse nei confronti del fenomeno fin dalla prima messa in onda di Atlas Ufo Robot. La moda dei “robottoni” funzionò al punto che la Rai e diverse emittenti locali cominciarono a importare decine di serie animate, come Daitarn III, Il Grande MazingaGolion e Gundam, solo per citarne alcune.

Realizzare una sigla efficace significava raggiungere un pubblico vasto e trasversale, dato che nella maggior parte dei casi queste canzoni si prestavano non soltanto a generare curiosità attorno a un nuovo cartone, ma anche a essere suonate in eventi pubblici o in discoteca. Oltre agli Actarus (la band che Tempera fondò insieme a Tavolazzi, Bandini e gli altri autori della sigla di Atlas Ufo Robot, e che rimase in attività per un paio d’anni), tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta furono fondati diversi gruppi specializzati in questo tipo di attività.

Uno dei più famosi furono i Superobots, del musicista inglese Douglas Meakin, che era arrivato in Italia negli anni Sessanta sfruttando il successo della musica beat e ottenendo un discreto riscontro con la sua band, i Motowns. Negli anni successivi collaborò con diversi compositori, e in particolare con Ennio Morricone, e realizzando le colonne sonore di diversi programmi televisivi. A partire dal 1979, con il progetto dei Superobots, Meakin si distinse come uno dei più apprezzati compositori di sigle di cartoni animati. La band non ebbe mai una formazione fissa: i componenti cambiavano continuamente, con Meakin che assumeva di volta in volta i musicisti di cui aveva bisogno.

Nel decennio successivo Meakin compose le sigle di cartoni giapponesi estremamente popolari come Il Grande Mazinger, Ken Falco, Daltanious, Supercar Gattiger, Ufo Diapolon e Super Robot 28. Un altro esempio celebre di gruppo specializzato in sigle fu quello dei Cavalieri del Re, fondati vicino a Gorizia nel 1981 e noti per aver composto le sigle di Yattaman, Ransie la strega, e soprattutto L’Uomo Tigre.

Oltre a rappresentare un’ottima occasione per ottenere notorietà e guadagni, realizzare le sigle dei cartoni era anche un modo per sperimentare. «Potevamo contare su una libertà creativa pressoché totale, anche perché questa musica non interessava troppo alle grandi case discografiche», spiega Tempera. «Questa anarchia ci dava la possibilità di sbizzarrirci, e di comporre musica partendo dai nostri tic compositivi e dai nostri gusti personali», che comprendevano la disco music, il funky, il rock progressive italiano e la musica elettronica, il krautrock e il synth pop.

L’elemento tecnologico ebbe in effetti un ruolo centrale: tutte le sigle degli anni Settanta e Ottanta furono caratterizzate da un abbondante utilizzo di strumenti elettronici che erano stati introdotti da pochi anni, e che in un certo senso erano coerenti con i temi e le storie su cui erano incentrati i cartoni. «Parlavano di robotica e futuri possibili, e quindi a livello di estetica e immaginario erano perfetti per un’epoca in cui cominciavano a essere sdoganati i suoni sintetizzati», spiega Tempera.

Dato che Atlas Ufo Robot fu la sigla che diede inizio al fenomeno, diversi gruppi provarono a imitarne le caratteristiche, come per esempio la componente orchestrale. Ma non tutti potevano permettersi di ingaggiare tanti musicisti, e così la soluzione più immediata fu puntare sui sintetizzatori (strumenti che erano stati introdotti da pochi anni), che consentivano di imitare archi, fiati e altri strumenti in modi che allora sembravano estremamente realistici.

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Inoltre, dato che la maggior parte dei cartoni più seguiti avevano per protagonisti dei robot, divenne piuttosto comune impiegare un vocoder, l’apparecchio digitale spesso usato per rendere “elettronica” la voce dei cantanti. Un esempio tra i tanti è quello della sigla di Supercar Gattiger, realizzata dai Superobots nel 1981.

Tempera racconta che ogni band aveva un segreto per rendere il proprio suono riconoscibile. Lui per esempio amava utilizzare un piano Fender in combinazione con un Arp Odyssey, un sintetizzatore prodotto dall’azienda britannica Arp, che agli inizi degli anni Settanta provò a sfidare il dominio della statunitense Moog in questo settore. «A differenza del Minimoog, il sintetizzatore che andava per la maggiore in quegli anni, l’Odissey era un apparecchio duofonico, e quindi capace di suonare due note contemporaneamente: questa caratteristica consentiva di dare una certa profondità agli accordi».

Oltre a favorire l’impiego di strumenti elettronici, l’assenza di un vero e proprio controllo creativo consentiva ai musicisti di divertirsi e sbizzarrirsi con i virtuosismi. Per esempio, un elemento tipico delle sigle di quel periodo era la centralità del giro di basso, che in quasi tutti i casi era intricato e di difficile esecuzione. Il caso più celebre è quello della linea di basso che Tavolazzi suonò in “Shooting Star”, la sigla finale di Atlas Ufo Robot. «Era un giro formidabile, forse il migliore di quegli anni, anche se ne furono realizzati tantissimi», dice Tempera. Altre linee di basso memorabili furono quelle delle sigle di Judo Boy, Gaiking, Fantaman, Capitan Harlock e L’Uomo Tigre, solo per citarne alcuni.

Oltre ad aver fornito opportunità di visibilità a decine di musicisti, secondo Tempera la «stagione d’oro» delle sigle italiane dimostrò che anche le canzoni destinate a un pubblico di bambini potevano essere realizzate in modo attento e sofisticato. «Negli Stati Uniti questo concetto era già passato da una trentina d’anni, e per rendersene conto basta ascoltare le musiche dei primissimi classici Disney, come per esempio Fantasia». In Italia invece la musica per bambini «era poco interessante: non si andava oltre lo Zecchino d’Oro. Anche il pubblico più giovane meritava di entusiasmarsi con la musica. Il nostro contributo è stato soprattutto questo».

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