La statistica falsa sull’80% della biodiversità protetta dagli indigeni
Nel tempo è finita ovunque, dalle pubblicazioni scientifiche ai rapporti istituzionali, ma non è fondata (e non ha nemmeno molto senso)
Chi si interessa di ambiente potrebbe aver sentito dire che l’80 per cento della biodiversità del pianeta si trova nelle terre abitate dalle popolazioni indigene, che secondo le stime più diffuse comprendono oltre 370 milioni di persone in circa 70 paesi. Negli ultimi vent’anni questa statistica è circolata sia su pubblicazioni autorevoli che tra i gruppi ambientalisti e sui media, ma in base a uno studio pubblicato a inizio settembre sulla rivista Nature è sbagliata. Per quanto sia sicuro che le popolazioni indigene abbiano un ruolo essenziale nella tutela degli ecosistemi naturali, non ci sono prove scientifiche che sostengono quella statistica, che peraltro è di per sé problematica: la biodiversità infatti non è qualcosa che si possa quantificare con precisione.
Lo studio è stato realizzato da tredici scienziati provenienti principalmente dall’Università autonoma di Barcellona e dall’Università australiana Charles Darwin, tre dei quali si identificano come persone indigene. Il gruppo ha usato le piattaforme Google Scholar e Web of Science per individuare i testi in cui comparivano le parole “indigeni”, “80 per cento” e “biodiversità”, oppure loro variazioni, come “ottanta per cento” o “diversità biologica”: ha così trovato 384 risultati che hanno formulazioni leggermente diverse dello stesso concetto, tra cui 186 articoli scientifici rivisti da altri esperti con la cosiddetta peer review e pubblicati anche su riviste molto prestigiose, come The Lancet e la stessa Nature.
Il primo riferimento riscontrato dai ricercatori risale al 2002, quando la Commissione dell’ONU per lo sviluppo sostenibile diceva che le popolazioni indigene «si prendevano cura dell’80 per cento della biodiversità del mondo nelle terre e nei territori ancestrali». Da allora la statistica è stata usata in moltissime occasioni per sottolineare il ruolo delle popolazioni indigene nella conservazione dell’ambiente e come potrebbe essere preso a modello, per esempio in un rapporto del 2009 della FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura. È circolata così tanto e su fonti così autorevoli che nel 2020 la piattaforma online di fact checking Gigafact l’ha “dichiarata” vera; nel 2022 l’ha citata anche il noto regista James Cameron per pubblicizzare Avatar – La via dell’acqua, che come il primo film del 2009 parla di una civiltà di umanoidi blu in perfetta simbiosi con la natura.
Stephen Garnett e Álvaro Fernández-Llamazares, due degli autori, hanno spiegato in un articolo pubblicato su The Conversation che la statistica sembra derivare da interpretazioni errate di studi precedenti, oppure ancora da sintesi affrettate. In base alle analisi dei ricercatori l’affermazione cominciò a diffondersi in particolare dopo la pubblicazione di un rapporto della Banca Mondiale nel 2008. Il fatto è che la fonte citata dalla Banca Mondiale è una pubblicazione del 2005 di un’organizzazione non profit di Washington DC (World Resources Institute), in cui però si parlava di sette popolazioni indigene delle Filippine che «gestivano oltre l’80 per cento della biodiversità originale» di una foresta.
La fonte del rapporto della FAO invece non è chiara, ma sempre secondo lo studio potrebbe arrivare dall’edizione del 2001 dell’Enciclopedia della Biodiversità, dove comunque si diceva una cosa diversa: cioè che «quasi l’80 per cento delle regioni naturali terrestri è abitato da una o più popolazioni indigene», e non che «circa l’80 per cento della biodiversità restante sul pianeta si trova nei territori delle popolazioni indigene», come detto dalla FAO. In ogni caso quando la statistica comparve per la prima volta la superficie delle terre e delle acque di pertinenza delle popolazioni indigene non era ancora stata mappata, e per questo non sarebbe stato possibile determinare nemmeno quale percentuale di biodiversità contenesse.
Per gli scienziati dire che l’80 per cento della biodiversità si trova nei territori delle popolazioni indigene non ha comunque basi scientifiche perché si parte da due presupposti sbagliati, ovvero che la biodiversità si possa suddividere in singole unità misurabili e che queste unità si possano mappare con precisione. Nessuna delle due cose però si può definire in maniera accurata.
Intanto la Convenzione sulla diversità biologica – cioè il trattato per lo sviluppo di strategie per la tutela dell’ambiente firmato da quasi 200 paesi nel 1992 – definisce la biodiversità come le diversità nell’ambito delle specie, tra le specie e tra gli ecosistemi, quindi è difficile da descrivere con criteri univoci. In più anche i tentativi di definire la biodiversità in base alla quantità di specie presenti e di loro individui sono per necessità delle approssimazioni.
Come ha spiegato al Guardian Erle Ellis, scienziato ambientale all’Università del Maryland, i modelli statistici impiegati per descrivere un fenomeno in biologia sono utili ma non affidabili, soprattutto su ampia scala. Gli autori dello studio di Nature ricordano inoltre che le informazioni sulla quantità e sulla distribuzione geografica delle specie sono necessariamente incomplete, visto che moltissime non sono ancora state studiate e descritte: quelle relative ai territori abitati dalle popolazioni indigene, remoti se non inesplorati, lo sono a maggior ragione.
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Lo studio ha richiesto cinque anni di lavoro ed è stato svolto anche attraverso discussioni negli eventi dedicati al tema e ricerche sul campo. I leader di alcune popolazioni indigene sentiti dai ricercatori hanno confermato di non avere prove a sostegno di questa statistica, mentre altri ne hanno preso le distanze. Solo due dei testi esaminati la mettevano in dubbio, dicono i ricercatori: uno di questi era una pubblicazione del Consorzio ICCA, un’organizzazione internazionale che promuove il riconoscimento dei territori delle popolazioni indigene e delle comunità locali.
Secondo Garnett e Fernández-Llamazares ci sono «ampie prove per dire che le popolazioni indigene e i loro territori sono essenziali per la biodiversità del mondo», ma «la reale portata del loro contributo non può essere quantificata in un solo numero». A detta dei ricercatori l’affermazione sull’80 per cento rischia non solo di vanificare la solidità degli studi scientifici, ma anche di danneggiare l’obiettivo per cui viene citata, ovvero comprendere e sostenere le conoscenze dei popoli indigeni sul tema della conservazione della biodiversità e tutelare i loro diritti.
Per valutare l’impatto delle popolazioni indigene nella tutela della biodiversità in un certo ecosistema o in una certa regione, serve anche e soprattutto prendere in considerazione le relazioni culturali, storiche e sociali stabilite tra i popoli indigeni e l’ambiente circostante, dicono i ricercatori: e questo può avvenire solo riconoscendo i loro territori e le loro comunità, coinvolgendoli nei processi decisionali e finanziando prima di tutto le loro iniziative.
Sempre a detta di Garnett e Fernández-Llamazares citare una statistica sbagliata, al contrario, può implicare il rischio di snobbare gli appelli delle popolazioni indigene in tema di ambiente e lasciar sottendere che la conoscenza sui loro territori sia completa ed esaustiva, quando non lo è. Inoltre, come è successo a un evento internazionale a cui hanno partecipato i ricercatori, le espone a critiche sulla qualità della loro gestione da parte di chi collega il fatto che tutelerebbero una percentuale elevatissima di biodiversità al declino di molte specie.
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