Cosa sanno gli animali della morte?
È difficile dire fino a che punto ne siano consapevoli sulla base delle loro reazioni, oggetto di studio della tanatologia comparata
Le termiti sono tra gli insetti sociali più conosciuti e studiati al mondo, e tra gli animali presenti sul pianeta da più tempo. Vivono in colonie labirintiche che si estendono per decine di metri sottoterra, in complesse strutture sociali composte in alcuni casi da milioni di individui. Sebbene trascorrano gran parte della loro vita nascoste alla nostra vista, sappiamo molto delle termiti: anche cosa fanno quando incontrano una termite morta.
Le reazioni delle termiti variano a seconda delle condizioni del loro conspecifico: se è morto da due o tre giorni, lo divorano; se è morto da più tempo, lo seppelliscono. Le termiti morte secernono acido oleico, un acido grasso che funge da segnale per gli altri individui e determina la sepoltura, o altri comportamenti nel caso di altri insetti sociali. Negli anni Cinquanta il famoso biologo ed entomologo statunitense Edward Osborne Wilson studiò il ruolo dell’acido oleico nelle formiche, che di solito trasportano i cadaveri fuori dalla colonia. Scoprì che avevano quel comportamento anche con individui vivi, da lui tamponati con acido oleico: venivano sollevati e, continuando a muoversi e ad agitarsi, venivano trasportati dalle altre formiche fuori dalla colonia (prima di poter rientrare dovevano ripulirsi accuratamente).
Il caso delle termiti, oggetto di uno studio del 2021 sulla gestione dei cadaveri tra le termiti operaie della specie Reticulitermes flavipes (la più comune nel Nord America), è un esempio della complessità e variabilità delle reazioni degli animali non umani alla morte. Una delle autrici, Qian Sun, entomologa della Louisiana State University, era tra le relatrici che a giugno parteciparono a un convegno sulla tanatologia comparata organizzato all’università di Kyoto, in Giappone.
La tanatologia comparata è un campo di ricerca relativamente recente, con molte più domande che risposte: studia i comportamenti degli animali non umani di fronte alla morte dei loro conspecifici. La parte più complicata è comprendere se quei comportamenti siano oppure no il segno di una consapevolezza della morte paragonabile a quella che negli esseri umani è alla base del lutto. È complicata prima di tutto per limiti di accesso alle percezioni e alle emozioni degli animali: «Chi può dire che cosa provino le mucche, quando circondano e osservano una compagna moribonda o morta?», scrisse Charles Darwin nel 1871 nel libro L’origine dell’uomo e la selezione sessuale.
Inoltre i segni fisiologici che possono indicare una variazione emotiva in alcune specie animali non sono inequivocabili, e ammettono anche spiegazioni che non implicano necessariamente la consapevolezza della morte. In uno studio sui babbuini neri, per esempio, la morte di un individuo portò tra le parenti femmine del suo gruppo a un cambiamento dei livelli di cortisolo, un ormone responsabile di varie attività del metabolismo. Una variazione di quel tipo poteva però essere innescata anche da altri fattori di stress diversi dalla morte del parente.
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Nonostante i limiti noti e in parte irriducibili nell’interpretazione dei dati, molte osservazioni in etologia hanno permesso in anni recenti di accrescere la quantità di informazioni sul riconoscimento della morte nel regno animale e, di conseguenza, di sostenere la legittimità scientifica della tanatologia comparata come campo autonomo di ricerca. Chi ci lavora ritiene che, indipendentemente dalle interpretazioni, lo studio dei comportamenti osservati in altri animali possa migliorare anche le conoscenze dei processi evolutivi e delle condizioni che permettono la comprensione umana della morte.
Tra le relatrici presenti al convegno a Kyoto c’era l’antropologa statunitense Barbara King, professoressa del dipartimento di antropologia del William & Mary College, a Williamsburg, ed esperta di studi sul dolore nel regno animale. In uno dei suoi libri più citati, How Animals Grieve, King scrive che la variabilità delle reazioni alla morte tra gli animali dipende dalle caratteristiche peculiari di ciascuna specie, come longevità, capacità cognitive e struttura sociale. Ma dipende anche dalle caratteristiche individuali, dalle circostanze della morte e da altre variabili del contesto.
Dalle osservazioni del comportamento degli animali non umani, secondo King, è possibile concludere quantomeno che reazioni di smarrimento o di turbamento dopo la morte di un parente o di un conspecifico siano un tratto condiviso con gli umani. Nel caso degli insetti ipotizzare che le reazioni siano guidate da un qualche concetto di morte, magari mediato da specifici dati percettivi (l’acido oleico, appunto), è più difficile che nel caso dei mammiferi, le cui relazioni con la morte presentano invece maggiori affinità apparenti con quelle umane.
Uno dei problemi principali nella tanatologia comparata è che le reazioni ritenute più interessanti per le implicazioni sociali sono di specie e ordini di animali molto longevi, come gli elefanti, i primati non umani e i cetacei. La raccolta dei dati tende a procedere piuttosto lentamente, perché la morte degli individui nelle comunità in cattività non è un evento così frequente, e in natura non è facile da osservare.
Nel 2018 si parlò a lungo sui media di un’orca – un individuo femmina nominata Tahlequah – che aveva percorso 1.600 chilometri tenendo a galla per 17 giorni un suo cucciolo nato morto. Nel 2003 invece la biologa keniana Shivani Bhalla aveva osservato e descritto la morte di una femmina anziana di elefante – una “matriarca” – di nome Eleanor. Dopo che era collassata a terra una prima volta, Eleanor era stata aiutata a risollevarsi dalla matriarca di un altro gruppo sociale, che era poi rimasta al suo fianco per almeno un’ora, dopo un secondo e ultimo collasso dell’elefante morente. Nella settimana successiva cinque diverse mandrie di elefanti passarono a far visita alla carcassa, incluse famiglie con cui Eleanor non aveva avuto contatti in vita.
Secondo la ricercatrice spagnola Susana Monsó, studiosa di filosofia della mente e di comportamento degli animali, e autrice del libro L’opossum di Schrödinger. Come vivono e percepiscono la morte gli animali, storie come quelle dell’elefante Eleanor e dell’orca Tahlequah ci appassionano non soltanto perché sono sorprendenti, ma perché ci risultano comprensibili. «Abbiamo creduto di capire perfettamente che cosa stesse provando il cetaceo; abbiamo visto rispecchiate nel comportamento di questa madre le nostre stesse esperienze di dolore alla perdita di una persona a noi cara», scrive Monsó.
Niente permette però di escludere che l’orca si portasse appresso il suo cucciolo perché lo credeva ancora vivo. In casi del genere è molto facile, secondo Monsó, proiettare sugli animali i nostri vissuti e il nostro modo di vedere il mondo, con il rischio di cadere nell’antropomorfismo, una fonte di grandi preoccupazioni nella psicologia comparata e in etologia. È la ragione per cui gli studiosi fanno attenzione a non attribuire agli animali più dello stretto necessario per spiegarne il comportamento, e niente che non sia sostenuto da prove empiriche. «Invece di parlare della morale degli animali, si parla della loro prosocialità; invece di attribuire loro un linguaggio, gli si attribuisce una comunicazione; invece di amicizia, si prospettano relazioni affiliative».
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D’altra parte, per quanto ingenuo in molte sue declinazioni comuni e rischioso nella ricerca scientifica, l’antropomorfismo è ormai da diversi anni un approccio considerato non necessariamente dannoso, perché può essere utile a comprendere alcuni processi evolutivi condivisi tra animali umani e non umani.
Come sostenuto da diversi studiosi presenti al convegno, tra cui André Gonçalves, ricercatore del Centro per le origini evolutive del comportamento umano dell’Università di Kyoto, il riconoscimento della morte – non solo tra gli animali, ma tra gli organismi viventi in generale – dipende da processi complessi e più o meno antichi, relativi sia all’evoluzione della specie (filogenesi) che allo sviluppo individuale (ontogenesi). I processi sono indispensabili agli individui per la selezione del comportamento più utile da tenere per favorire l’adattamento della specie nell’ambiente.
Gli esseri umani cominciano a considerare la morte, cioè a concepirne la condizione di irreversibilità, intorno ai 4-7 anni. A volte la scoprono e comprendono anche prima, nel caso della morte di un parente o di un animale domestico. Secondo diversi studi di antropologia evolutiva, psicologia dello sviluppo e scienze cognitive, uno dei primi modi di concepire la morte per i bambini è in termini di perdita permanente della capacità di agire da parte di un agente.
Il concetto di perdita della capacità d’azione è centrale nelle ricerche della psicologa statunitense Susan Carey, anche lei presente a Kyoto. Se per morte intendiamo «il concetto religioso umano di morte e il concetto biologico umano di morte», allora è improbabile che questo concetto sia condiviso con altri animali, scrive Carey. Ma sia i bambini, prima di imparare a parlare, che gli animali «hanno senza dubbio rappresentazioni mentali con contenuto concettuale astratto», chiamati nelle scienze cognitive dello sviluppo sistemi di cognizione di base.
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Tra questi sistemi cognitivi fondamentali, che sono evolutivamente molto antichi e sono attestati nelle prime fasi dell’infanzia umana in tutte le culture studiate, c’è il concetto di «azione intenzionale e causale», cioè una rappresentazione che pone un agente al centro di un’azione. L’ipotesi sostenuta da molti gruppi di ricerca che si occupano di tanatologia comparata è che il concetto di morte condiviso nel regno animale, primitivo rispetto a qualsiasi altra rappresentazione umana o non umana della morte, sia la cessazione dell’azione.
La consapevolezza dell’azione è fondamentale nel mondo naturale, scrive Monsó in L’opossum di Schrödinger, perché la sopravvivenza stessa dipende dalla capacità di distinguere le entità animate da quelle inanimate, e di elaborare per esempio che «soltanto le prime si muovono in modo autopropulsivo e manifestano comportamenti orientati a un fine». L’osservazione del comportamento di alcune specie animali suggerisce che siano in grado di concepire la possibilità che altri individui e altri animali perdano per sempre la capacità di agire: cioè il concetto minimo di morte in tanatologia comparata. Il dubbio, secondo Monsó, è se quei comportamenti derivino da un concetto del genere – comunque attestato in modo molto variabile tra culture, specie e individui – o se siano semplicemente istinti.
I mammiferi e i primati non umani sono i gruppi in cui è più frequente osservare reazioni alla morte che per alcuni aspetti assomigliano a quelle umane. Gli animali di diverse specie tendono a riunirsi attorno a un individuo della comunità quando è morto da poco: a volte lo sfiorano, spesso lo proteggono a lungo dai predatori di carcasse. E i raduni tendono a diradarsi secondo uno schema: gli individui che erano più vicini a quello morto si allontanano più lentamente.
Questi comportamenti sono anche i più facilmente esposti al rischio di interpretazioni sbagliate, ha detto Gonçalves all’Atlantic. Per esempio, il recente ritrovamento di cinque elefanti ricoperti di rami e terra in un fosso in India, secondo modalità da alcuni interpretate come una forma di sepoltura, potrebbe suggerire che gli elefanti fossero caduti nel fosso. E la terra e i rami potrebbero essersi accumulati mentre altri individui cercavano di tirarli fuori.
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Secondo Gonçalves anche l’ipotesi diffusa che le specie carnivore abbiano un concetto di morte derivato da una loro presunta capacità di distinguere ciò che è vivo da ciò che non lo è – e non dalla semplice comprensione della capacità altrui di agire – è discutibile. Molti animali ne mangiano altri ancora vivi, e in quei casi non è facile capire se stiano cercando di provocarne la morte, se la concepiscano come una diversa condizione dell’essere. È possibile che siano semplicemente guidati dall’istinto di cercare una fonte di cibo in movimento, come le rane che catturano per riflesso tutto ciò che somiglia a una falena.
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Tra gli scimpanzé le relazioni con la morte sono ancora più complicate e ambigue, ha scritto l’Atlantic. È una specie in cui è possibile osservare atti di violenza feroci e uccisioni tra conspecifici, a volte in attacchi di gruppo coordinati ai danni di un gruppo rivale. In alcuni casi gli individui continuano a colpirne un altro anche se mostra segni di sottomissione, e non smettono finché quello non smette di respirare.
Secondo il primatologo James Anderson, uno dei più conosciuti studiosi di tanatologia comparata, ciò che certamente manca anche agli scimpanzé, e probabilmente a ogni altro animale non umano, è la consapevolezza della propria stessa mortalità. In migliaia e migliaia di ore di osservazione, sia in natura che in cattività, nessuno ne ha mai visto uno tentare il suicidio: un comportamento che secondo Anderson è possibile soltanto da parte di un animale che sa di poter morire.
La tanatologia comparata può migliorare la nostra conoscenza della relazione che gli animali hanno con la morte, e suggerire appunto che quella degli scimpanzé è probabilmente più complessa rispetto a quella delle termiti. Ma molte domande sono e probabilmente resteranno per sempre prive di risposta, ha scritto l’Atlantic, citando infine un caso significativo osservato tempo fa dall’ecologa comportamentale tedesca Zoë Goldsborough, del Max Planck Institute of Animal Behavior, in uno zoo nei Paesi Bassi che ospitava 14 scimpanzé (il Royal Burgers’ Zoo, ad Arnhem).
Una femmina di scimpanzé dello zoo, Moni, tenne con sé un suo cucciolo nato morto, respingendo per due giorni i tentativi dei custodi dello zoo di separarla dalla carcassa. Durante un successivo scontro con i custodi perse dalle braccia la carcassa, che fu subito raccolta da un’altra femmina che le girava intorno da un po’: Tushi, peraltro nota per aver abbattuto qualche anno prima un drone utilizzato da alcuni operatori per girare un documentario.
In precedenza Tushi aveva avuto un aborto spontaneo: è possibile che la vista di Moni e del suo cucciolo «le abbia riportato alla mente quel ricordo, o anche solo i suoi contorni emotivi», ha scritto l’Atlantic. Ma per Goldsborough non è possibile sapere con certezza né se il comportamento di Moni fosse guidato da un ostinato attaccamento materno, né se il comportamento di Tushi fosse il riverbero di un sentimento da lei provato in passato. Non è nemmeno chiaro se gli scimpanzé avessero capito cosa fosse successo al cucciolo, o se pensassero che sarebbe potuto tornare in vita.
Dopo che anche Tushi si rifiutò di separarsi dalla carcassa, o di restituirla a Moni, che nel frattempo si era molto agitata, i custodi la trasferirono in una camera separata. Moni bussò alla porta della camera più volte, ma poi si allontanò. Tornata nel gruppo, mostrò per tutto il giorno successivo una capacità di relazionarsi con gli altri individui che non aveva mai mostrato prima. Quando poi Tushi fu liberata e si riunì al gruppo, Moni tentò di aggredirla e la schiaffeggiò, ma Tushi non reagì.
Per tutto il mese successivo Moni mantenne grande centralità nel gruppo e ricevette attenzioni, abbracci e baci sul corpo, anche da parte di Tushi, più di qualsiasi altro individuo. Dopodiché le relazioni tra tutti tornarono più o meno alla normalità, tranne quella tra Moni e Tushi, che continuarono a trascorrere molto tempo insieme.
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