Anche quest’anno per la sanità ci sono pochi soldi
Il governo non sembra intenzionato a stanziare le risorse chieste dal ministero della Salute, il che rende proibitivo affrontare il problema delle liste d'attesa
Nelle scorse settimane il ministro della Salute Orazio Schillaci ha segnalato in vario modo l’urgenza di ottenere nuovi e più consistenti finanziamenti per il suo ministero. Lo ha fatto pubblicamente, durante un evento di Fratelli d’Italia ad Ascoli Piceno, intervenendo nel dibattito intorno alla nuova legge di bilancio con cui il governo dovrà stabilire come utilizzare i soldi pubblici nel prossimo anno; e lo ha fatto anche in maniera riservata, discutendone direttamente col ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. I collaboratori di Schillaci hanno poi spiegato che il confronto è ancora in corso: al momento, a fronte di una richiesta di almeno 5 miliardi da parte del ministro della Salute, Giorgetti ha lasciato intendere che sarà difficile stanziarne più di due.
Il contesto finanziario non è ottimale per l’Italia: il governo ha poche risorse da gestire e deve rispettare rigidi parametri europei che impongono di ridurre la spesa pubblica e il disavanzo nel bilancio. In questo margine di manovra molto ristretto le priorità d’intervento indicate da Giorgetti stesso e dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni sono la conferma del taglio alle tasse per i lavoratori dipendenti (il cosiddetto cuneo fiscale), e delle misure a sostegno delle famiglie numerose e in favore della natalità. Appare difficile, dunque, che Schillaci possa davvero ottenere le risorse che chiede, anche se al momento non ci sono certezze e non si sa bene che scelte farà il governo. È chiaro, invece, che l’effettivo finanziamento della sanità risulta nel complesso al di sotto di quello che lo stesso governo riterrebbe necessario, e si nota la distanza tra l’enfasi che la maggioranza di destra pone sulla necessità di sostenere il sistema sanitario e le risorse che concretamente riesce a metterci per farlo.
Che un ministro lamenti il mancato finanziamento per il suo ministero non è affatto una rarità: è anzi ricorrente che nelle negoziazioni di governo un po’ tutti chiedano più di quello che ottengono, e che il ministro dell’Economia obblighi i colleghi a fare delle rinunce, per far quadrare i conti e salvaguardare la sostenibilità del bilancio dello Stato. Schillaci già l’anno scorso aveva richiesto di potenziare il Fondo sanitario nazionale, una sorta di cassa statale con cui viene finanziata gran parte del sistema sanitario nazionale, con almeno 4 miliardi. Ne furono stanziati 3, alla fine, e Schillaci si ritenne comunque soddisfatto. Un anno dopo siamo nella stessa situazione, con la differenza che nel frattempo il governo ha deciso di investire mediaticamente molto sul tema della sanità, senza che però agli annunci siano seguiti atti concreti.
Meloni ha più volte rivendicato una cosa che ritiene un successo del suo governo, cioè aver portato la dotazione del Fondo sanitario nazionale al massimo storico. In effetti nel 2024 la spesa pubblica per la sanità, anche grazie ai 3 miliardi in più stanziati dalla legge di bilancio del 2023, è arrivata quasi a 136 miliardi di euro, una cifra mai vista prima.
È tuttavia abbastanza fisiologico che la spesa aumenti in termini assoluti, per almeno tre ragioni: perché l’inflazione impone di aumentare le spese per il funzionamento generale del sistema sanitario; per la necessità di rinnovare i contratti del personale; e perché l’innalzamento costante dell’età media della popolazione e il prolungamento della vita media rendono necessarie risorse sempre maggiori. Anche per questo, a livello internazionale si tende a valutare la spesa dei vari paesi nella sanità non in termini assoluti (quanti miliardi si spendono, in sanità?) ma in rapporto al PIL, cioè il prodotto intorno lordo (cioè, quanta parte della ricchezza che quel paese produce in un anno viene utilizzata per finanziare la sanità?).
Da questo punto di vista la sanità italiana è da molti anni in cronica sofferenza, sottofinanziata rispetto alle sue esigenze e rispetto agli altri europei. L’OCSE, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo che monitora tra l’altro le economie dei paesi occidentali, nel novembre del 2023 ha pubblicato il suo report annuale nel quale si mostrava come l’Italia nel 2022 avesse speso in sanità il 6,8 per cento del suo PIL (una cifra pari a 2.208 euro per abitante, in media), a fronte del 10,3 per cento del PIL della Francia (3.996 euro per abitante), del 10,9 per cento della Germania (5.085 euro per abitante), del 9,3 per cento del Regno Unito (3.409 euro per abitante), del 7,3 per cento della Spagna (2.041 euro per abitante). È un problema che si trascina da prima che l’attuale governo entrasse in carica.
Le risorse che Meloni ha deciso di stanziare sulla sanità, però, rischiano di peggiorare questi dati. La legge di bilancio del 2023 ha infatti previsto un aumento in termini assoluti della spesa in sanità (3 miliardi in più nel 2024, 4 miliardi in più nel 2025 e 4,2 miliardi in più nel 2026) che nel 2026 raggiungerà, se le misure previste verranno confermate, i 143,1 miliardi di euro. Questi soldi però non basteranno a garantire un aumento della spesa in rapporto al PIL, che dal 6,6 per cento del 2023 scenderà al 6,4 tra 2024 e 2025, e poi ancora al 6,3 nel 2026. Questo è il quadro a disposizione prima dell’approvazione della prossima legge di bilancio, che avverrà entro dicembre, ma è poco probabile che la situazione cambi in maniera rilevante e che ci sia un’inversione di tendenza. L’aumento delle spese per la sanità previsto tra il 2024 e il 2026 produrrà un effetto di maggiore indebitamento per lo Stato stimato in 7,5 miliardi.
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La difficoltà nel trovare risorse utili per potenziare il sistema sanitario nazionale si riflette ovviamente su tutti gli aspetti della sanità pubblica, e lo stesso governo ha annunciato in più occasioni di voler intervenire su quella che ritiene l’emergenza più importante, la lunghezza delle liste d’attesa negli ospedali per visite ed esami: sempre, però, trovandosi a fare i conti con la scarsità degli investimenti previsti per intervenire. La gran parte dell’aumento della spesa (2,4 miliardi all’anno dal 2024 al 2026) serve infatti a finanziare il rinnovo del personale (adeguamento dei contratti, nuove assunzioni, remunerazione aggiuntiva per le prestazioni aggiuntive fatte da medici e infermieri), che solo in parte ha come obiettivo quello di ridurre le liste d’attesa.
A questa specifica finalità l’ultima legge di bilancio destinava 520 milioni nel 2024, e 280 milioni all’anno per il 2025 e il 2026. A fronte di questa carenza di risorse, il governo già nel 2023 si era affidato a norme straordinarie estemporanee e di scarso impatto. La principale, inserita in un decreto del marzo 2023 pensato per fronteggiare la crisi energetica, aveva l’obiettivo di incentivare medici e infermieri a fare maggiori straordinari per smaltire le liste d’attesa, incrementando le tariffe orarie previste per queste prestazioni aggiuntive. Come notò lo scorso novembre l’Ufficio parlamentare di Bilancio, cioè un organismo indipendente che vigila sulla finanza pubblica, queste misure emergenziali «non si sono rivelate adeguate a risolvere il problema in modo strutturale».
Un anno dopo il governo è stato costretto ad approvare un nuovo provvedimento sempre con lo stesso obiettivo, dal grande valore propagandistico ma inefficace: Meloni voleva un intervento prima delle elezioni europee dell’8 e del 9 giugno, che è stato infatti approvato dall’ultimo Consiglio dei ministri prima del voto, il 4 giugno.
Il ministro Schillaci, che da tempo diceva di star lavorando a un progetto ambizioso per smaltire le liste d’attesa, si è trovato a dover agire in fretta per rispettare questa scadenza elettorale, trovandosi però sempre a dover fare i conti con la mancanza di risorse, e con il rifiuto di Giorgetti di metterci abbastanza soldi. Per questo, alla fine, il governo ha scelto una strana soluzione, approvando due provvedimenti dedicati alla stessa materia: un decreto-legge, che è stato dunque convertito dal parlamento in meno di sessanta giorni (il 24 luglio), e un disegno di legge, che invece seguirà un percorso ordinario in parlamento e che dunque impiegherà ancora molto tempo prima di essere definitivamente approvato.
Questa trovata ha consentito al governo di inserire le misure più ambiziose nel disegno di legge, su cui però c’è l’incognita dei finanziamenti che il ministero dell’Economia dovrà garantire, e che al momento non sono ancora stati definiti. Nel decreto-legge, invece, sono finite le misure da adottare in tempi rapidi, ma tutte inconcludenti proprio perché non potevano contenere spese troppo onerose per la finanza pubblica. Alla fine, a fronte degli annunci che hanno accompagnato l’approvazione dei due provvedimenti, l’unica misura approvata nel decreto-legge con un minimo di efficacia era la parziale detassazione degli straordinari dei medici che accettano di lavorare oltre l’orario stabilito, un intervento che costerà al massimo 250 milioni di euro.
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