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  • Sabato 14 settembre 2024

Un patteggiamento è un’ammissione di colpevolezza?

Diversamente da come avviene nella maggior parte degli altri paesi, in Italia non è così

Giovanni Toti intervistato da Bruno Vespa durante la trasmissione televisiva Cinque Minuti in onda su Rai 1, Roma, 13 settembre 2024. 
(ANSA/FABIO FRUSTACI)
Giovanni Toti intervistato da Bruno Vespa durante la trasmissione televisiva Cinque Minuti in onda su Rai 1, Roma, 13 settembre 2024. (ANSA/FABIO FRUSTACI)
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Venerdì l’ex presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, che è da alcuni mesi al centro di una grossa inchiesta della procura di Genova, ha fatto inaspettatamente un accordo per patteggiare una pena di due anni e un mese, e una confisca di 84.100 euro. Pur avendo deciso di patteggiare, Toti non ha pubblicamente mai detto di essere colpevole, e anzi anche ieri è tornato a sostenere di essere innocente e ha commentato la sua decisione dicendo di avere sentimenti contrastanti per «l’amarezza di non perseguire fino in fondo le nostre ragioni di innocenza». In un’intervista al Corriere ha specificato che «fare un accordo non vuol dire necessariamente riconoscere le proprie colpe».

In Italia infatti il patteggiamento non presuppone un’ammissione di colpa, come avviene nella maggior parte dei paesi che prevedono qualcosa di simile. «È effettivamente una peculiarità del nostro sistema», dice Gian Luigi Gatta, professore ordinario di Diritto penale all’Università degli Studi di Milano: «mi è capitato di dover spiegare questo concetto all’estero e di far fatica a farmi capire».

La giustizia cosiddetta “negoziata” si è affermata nei paesi anglosassoni ma si sta diffondendo molto in tutta Europa, e quasi sempre richiede un’ammissione esplicita di colpa. In Italia per ragioni storiche non è così, ma sul significato e la natura della richiesta di patteggiamento c’è un dibattito accademico che va avanti da anni (cioè da quando il patteggiamento è stato introdotto col codice Vassalli). Da un lato infatti non è necessario che l’imputato confessi, ma dall’altro, scegliendo il patteggiamento, accetta di fatto di essere condannato come colpevole. Nel codice di procedura penale (articolo 445) la sentenza di patteggiamento è infatti equiparata a una sentenza di condanna.

Secondo Mitja Gialuz, professore ordinario di Diritto processuale penale nell’Università di Genova, «c’è un’ambiguità di fondo: il nostro legislatore non prevede un’ammissione, ma il patteggiamento non si spiega senza un’ammissione almeno implicita. Ci sono sentenze della Cassazione recenti che dicono che la richiesta di applicazione della pena deve essere considerata come ammissione del fatto». Il valore dell’aggettivo “implicito” – usato tra ieri e oggi anche da molti avversari politici di Toti e da alcuni commentatori sui giornali – è però piuttosto sfuggente: è un modo di sostenere che esista di fatto una cosa che non esiste palesemente.

Il patteggiamento rientra nei cosiddetti riti processuali “alternativi”, che prevedono delle attenuazioni di pena poiché fanno risparmiare allo Stato il tempo e i costi di un processo ordinario. Nel caso del patteggiamento lo sconto è fino a un terzo della pena, ma solo nei casi in cui la pena dopo la riduzione non sia superiore ai cinque anni. Funziona così: il pubblico ministero e l’imputato si accordano sulla pena e poi il giudice decide se accettarla (nel caso di Toti il giudice non si è ancora espresso). Di fatto quindi una valutazione del giudice sulla responsabilità dell’imputato c’è: se il giudice stabilisce, sulla base degli atti, che il fatto non sussiste o che ci sono motivi per ritenere che la persona non sia colpevole, il patteggiamento viene rigettato. Il giudice può anche esprimersi sulla pena, e stabilire che non è congrua, perché non sufficiente o perché eccessiva.

Questa è naturalmente una forma di tutela per l’imputato, ma significa anche che se il patteggiamento viene accettato è perché il giudice non ha avuto motivo di pensare che l’imputato fosse innocente. È diverso da quello che farebbe in un processo, perché non deve accertare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, ma deve comunque fare una valutazione.

Allo stesso tempo ci sono motivi che potrebbero ipoteticamente spingere anche una persona non colpevole a patteggiare. Potrebbe farlo perché ritiene di non poter provare la propria innocenza, o per evitare un processo ordinario, che è pubblico e spesso lungo e costoso. Il patteggiamento prevede poi, oltre allo sconto della pena, anche altri “premi” pensati appunto per incentivare le persone a patteggiare: uno di questi è che la sentenza non ha effetto fuori dall’ambito penale (per esempio per un eventuale giudizio disciplinare nei confronti di un dipendente pubblico si dovrà accertare la sua responsabilità, e non ci si potrà basare sulla sentenza di patteggiamento per sostenerla).

Il fatto di non dover ammettere necessariamente la propria colpevolezza è un ulteriore incentivo per chi patteggia, ed è quindi nell’interesse dello stato garantire questa possibilità.

Nel patteggiamento Toti ha chiesto di sostituire la pena detentiva di due anni e un mese con 1.500 ore di lavori di pubblica utilità: una pena sostitutiva della detenzione che dovrà cominciare a scontare subito dopo la sentenza.«È una decisione insolita perché se avesse patteggiato una pena detentiva poi avrebbe potuto comunque chiedere l’affidamento in prova ai servizi sociali», spiega Gatta, «i tempi sarebbero stati più lunghi, ma sarebbe stata molto probabilmente una pena meno impegnativa. Si può ipotizzare quindi che lo scopo di Toti fosse quello di chiudere la vicenda il più in fretta possibile, evitando il processo e scontando subito la pena».