Che conseguenze ha sul governo un cambio di ministri?
È una questione che potrebbe affrontare Giorgia Meloni nelle prossime settimane, anche se il rischio di una crisi o di un “rimpasto” è molto basso
Il clamore suscitato dal caso di Maria Rosaria Boccia ha portato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni a sostituire Gennaro Sangiuliano, il 6 settembre scorso. Il suo posto di ministro della Cultura è stato preso da Alessandro Giuli. Con ogni probabilità, nelle prossime settimane Meloni sarà costretta ad altre ridefinizioni di incarichi all’interno del governo. Tra ottobre e novembre importanti deleghe gestite da Raffaele Fitto – Affari europei, Sud, Politiche di coesione e PNRR – andranno riassegnate, dopo che il ministro verrà nominato commissario europeo. E altri importanti esponenti del governo, come la ministra del Turismo Daniela Santanché o il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, sono coinvolti in questioni giudiziarie delicate, le cui evoluzioni potrebbero eventualmente indurre Meloni a valutare di rimpiazzarli.
In ogni caso, è molto probabile che eventuali altre sostituzioni avvengano in maniera tutto sommato indolore per Meloni, perché nella prassi politica e istituzionale possono avvenire secondo varie gradazioni, per così dire, a seconda dei casi: si va dal semplice cambiamento di uno o più ministri, al cosiddetto rimpasto, fino alla formazione a tutti gli effetti di un nuovo governo guidato dallo stesso presidente del Consiglio (nel caso di Meloni, sarebbe un “Meloni-bis”, cioè un secondo governo Meloni). Non ci sono discrimini chiari e parametri codificati dalla Costituzione, per stabilire come comportarsi: la valutazione è politica, e dipende essenzialmente dalle volontà del presidente del Consiglio stesso e del presidente della Repubblica.
Il livello più basilare, in questo processo di ridefinizione degli assetti di un governo, è appunto la semplice sostituzione. Quando l’avvicendamento riguarda un ministro, o anche più d’uno, di quelli che vengono comunemente considerati secondari (Cultura, Famiglia, Affari regionali) specie se “senza portafoglio”, cioè quei ministri non dotati di risorse finanziarie proprie a cui poter attingere, quasi sempre la procedura prevede una sostituzione in corsa che non produce scombussolamenti nel governo: il presidente del Consiglio ne discute col presidente della Repubblica, spiega le ragioni del cambio, propone il nuovo ministro e il presidente della Repubblica, se non ha nulla in contrario, provvede a formalizzare la nuova nomina, proprio com’è accaduto nel caso di Giuli.
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Secondo una legge in vigore dal 1999, il numero massimo dei componenti del governo a qualunque titolo – comprendendo dunque ministri, viceministri e sottosegretari – è di 65 (in passato sono state tollerate alcune violazioni a questo limite, che invece in tempi più recenti è stato considerato più rigido). Per garantirsi un margine di manovra nel caso di una revisione della squadra, capita che i presidenti del Consiglio non utilizzino tutti i posti a disposizione. Meloni aveva invece formato un governo che li occupava già tutti, 26 ministri e 39 sottosegretari.
Tuttavia nel febbraio 2023 Augusta Montaruli, sottosegretaria all’Università di Fratelli d’Italia, si dimise dopo essere stata condannata in via definitiva per peculato; nel febbraio del 2024, fu Vittorio Sgarbi a dimettersi da sottosegretario alla Cultura, al termine di un lungo bisticcio proprio con Sangiuliano. In nessuno dei due casi Meloni ha indicato un sostituto: in parte proprio per tenersi una riserva.
Se adesso, per esempio, per distribuire le numerose e impegnative deleghe gestite da Fitto dovesse rendersi necessario nominare più di un ministro, potrebbe farlo. O se, sempre in via ipotetica, la Lega di Matteo Salvini o Forza Italia di Antonio Tajani volessero rivendicare maggiore spazio, Meloni avrebbe due possibili incarichi da assegnare senza rischi per la tenuta della maggioranza.
Più complicato è invece il caso del rimpasto, che è il termine – mutuato dall’inglese reshuffle – con cui già all’inizio del Novecento si indicava la modifica della composizione del governo. Il rimpasto presuppone però un rimaneggiamento più consistente, che magari interessi un buon numero di ministri tra cui anche quelli più rilevanti (Economia, Giustizia, Interno, Esteri). Nei casi di rimpasti più consistenti, il presidente della Repubblica può ritenere che sia necessario chiedere di nuovo la fiducia in parlamento, anche se queste considerazioni sono spesso oggetto di polemiche politiche.
Nel maggio del 2011, per esempio, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, alle prese con una crisi politica che aveva già richiesto singoli avvicendamenti nel governo, decise di nominare nove nuovi sottosegretari, sostanzialmente per ricompensare una nuova componente di parlamentari centristi, i cosiddetti “Responsabili”, che nel gennaio precedente avevano deciso di sostenere il suo governo, certificando così il loro ingresso in maggioranza. Contestualmente Berlusconi annunciò l’intenzione di nominare a breve altri dieci sottosegretari.
L’iniziativa non fu molto gradita al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che da tempo aveva un rapporto burrascoso con Berlusconi. Così Napolitano, un po’ a sorpresa, diffuse un comunicato per dire che a suo avviso la nuova conformazione del governo prefigurava un nuovo assetto della maggioranza e per questo chiedeva ai presidenti delle camere di «investire il parlamento delle novità intervenute», cioè che si votasse alla Camera e al Senato per rinnovare la fiducia al governo. Dopo varie polemiche tra Napolitano e il partito di Berlusconi, alla fine non si votò soprattutto per via dell’opposizione del presidente del Senato Renato Schifani.
Alla fine di gennaio del 2016, invece, fu l’allora segretario del PD Matteo Renzi a fare un rimpasto, nominando un nuovo ministro per gli Affari regionali, Enrico Costa, e sette nuovi sottosegretari. Portò il governo da 56 a 64 componenti, e di fatto allargò la maggioranza con le forze moderate di centro e di centrodestra. Sergio Mattarella approvò questa operazione, e in quel caso si ritenne inutile procedere a una verifica parlamentare. Un po’ perché la maggioranza si allargava, un po’ perché il governo di Renzi aveva appena affrontato, uscendone ampiamente vincitore, una mozione di sfiducia al Senato chiesta dalle opposizioni.
Come dicevamo, però, c’è anche l’eventualità che si formi un nuovo governo a tutti gli effetti, pur se guidato dallo stesso presidente del Consiglio, secondo le norme previste dalla Costituzione. Di solito succede quando le tensioni politiche generano una effettiva crisi, e il presidente del Consiglio per andare avanti ha bisogno di certificare di avere ancora la fiducia del parlamento. In questo caso, la prassi prevede che il capo del governo rimetta il suo mandato al presidente della Repubblica, che provvede poi a incaricarlo di formare una nuova squadra di ministri e sottosegretari: si procede così a un nuovo giuramento, e a quel punto il governo che si insedia deve sottoporsi al voto di fiducia del parlamento entro dieci giorni.
Accadde nell’aprile del 2005. Il secondo governo di Berlusconi, che era in carica da quasi quattro anni dopo la vittoria elettorale del centrodestra nel giugno del 2001, uscì fortemente indebolito dalle elezioni regionali che si svolsero in 13 regioni all’inizio del mese (in 11 di queste vinsero i candidati del centrosinistra). La maggioranza entrò in crisi, e alcune componenti annunciarono che avrebbero tolto il proprio sostegno al governo. Preso atto della situazione, Berlusconi concordò col presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi il percorso che lo portò nel giro di pochi giorni ad annunciare formalmente una crisi di governo, durante un discorso al Senato, il 20 aprile, per poi ottenere da Ciampi un nuovo mandato da presidente del Consiglio. Le consultazioni con le varie forze politiche furono estremamente rapide, e il 23 aprile il nuovo governo, il Berlusconi III che era in larga parte simile al Berlusconi II, giurò al Quirinale ed entrò in carica, ottenendo poi la fiducia della Camera e del Senato il 27 e il 28 aprile.
In quel caso l’esito della crisi fu, come si dice in gergo, pilotato, nel senso che fin dall’inizio era stato tracciato e concordato da Ciampi e Berlusconi. In altri casi, lo sviluppo di queste crisi è assai meno scontato, e proprio intorno all’ipotesi di aprire formalmente la crisi di governo oppure no i leader politici si accaniscono.
Nel gennaio del 2021, dopo che Italia Viva di Matteo Renzi aveva fatto venir meno la maggioranza parlamentare di centrosinistra che sosteneva il secondo governo di Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio cercò in ogni modo di radunare senatori di vari partiti e di diversi orientamenti politici disposti a sostenere il governo, neutralizzando così la mossa di Renzi. Dopo vari tentativi abbastanza inconcludenti, alla fine il 26 gennaio Conte fu costretto a dare le dimissioni a Mattarella. La sua speranza era di ottenere subito un nuovo incarico, ma in quei giorni il conflitto tra i partiti che fino a quel punto lo avevano sostenuto – PD, Movimento 5 Stelle, Italia Viva, Liberi e Uguali – si esacerbò al punto che non trovarono un accordo per formare un nuovo governo sempre guidato da Conte ma con una diversa composizione, e Mattarella affidò a Mario Draghi l’incarico di formarne uno nuovo con una maggioranza diversa e molto più larga.