Da quando lo abbiamo scoperto per caso usiamo il Teflon ovunque
Come la ricerca di frigoriferi che non saltassero in aria portò alla sintesi di una sostanza che oggi è nelle padelle e nelle capsule spaziali, con qualche sospetto
Nella notte di venerdì 6 settembre una capsula spaziale è tornata sulla Terra vuota, dopo che la NASA non si era fidata a utilizzarla per portare indietro dall’orbita due astronauti, ora costretti a rimanere sulla Stazione Spaziale Internazionale fino al prossimo anno. La navicella, che si chiama Starliner ed è stata realizzata da Boeing, aveva mostrato di avere problemi ad alcuni propulsori necessari per manovrarla, forse a causa di un malfunzionamento delle loro valvole rivestite di Teflon, il materiale conosciuto principalmente per essere usato anche nei rivestimenti antiaderenti delle padelle.
Che sia impiegato in orbita o in cucina, o ancora per sviluppare gli arsenali atomici, il Teflon accompagna le nostre esistenze nel bene e nel male da quasi 90 anni. Il suo uso intensivo, seguito a una scoperta del tutto casuale, ha avuto un ruolo in importanti progressi tecnologici, ma ha anche generato un importante problema ambientale e fatto sollevare dubbi sulla sua sicurezza per la nostra salute.
Il politetrafluoroetilene, la lunga catena di molecole (polimero) che dopo la sua scoperta sarebbe stata chiamata con il più semplice nome commerciale Teflon (ci sono anche altri marchi, meno noti), probabilmente non esisterebbe se non fossero stati inventati i frigoriferi. Alla fine degli anni Venti, negli Stati Uniti la nascente refrigerazione domestica aveva un problema non da poco: le frequenti esplosioni. Per fare funzionare questi elettrodomestici venivano utilizzati gas refrigeranti che potevano infatti facilmente esplodere, oppure che in caso di perdite potevano intossicare le abitazioni in cui erano installati.
La scarsa affidabilità dei gas refrigeranti utilizzati all’epoca rischiava di compromettere la crescita del settore e di conseguenza i produttori si misero alla ricerca di alternative migliori. Occorreva un gas refrigerante che funzionasse bene alle temperature degli ambienti domestici e a una pressione non troppo alta; il gas non doveva essere tossico e nemmeno altamente infiammabile. Un ricercatore incaricato dalla società Frigidaire valutò vari elementi della tavola periodica e concluse che il candidato ideale come punto di partenza potesse essere il fluoro, che forma un legame chimico molto forte con il carbonio. Questa caratteristica permetteva di sviluppare una sostanza che fosse stabile e poco reattiva, di conseguenza anche con bassa tossicità, come era stato dimostrato in precedenza in alcuni esperimenti.
Fu da quella intuizione che nacque una famiglia di composti chimici cui ci si riferisce generalmente col nome commerciale “Freon”. Era il primo passo nello sviluppo di altri composti, i clorofluorocarburi, che regnarono indisturbati all’interno dei sistemi refrigeranti dei frigoriferi e non solo per circa mezzo secolo, fino agli anni Ottanta quando fu scoperto il loro ruolo nel causare una diminuzione dello strato di ozono, il famoso “buco nell’ozono”. Grazie a una convenzione internazionale, il loro impiego fu abbandonato e sostituito con altri composti, rendendo possibile il ripristino di buona parte dell’ozono.
Negli anni Trenta nessuno aveva idea che quei gas potessero causare qualche danno, si sapeva soltanto che il loro impiego era ideale per costruire frigoriferi più sicuri e affidabili. Per Frigidaire, che deteneva la proprietà del Freon, c’erano grandi opportunità commerciali, ma non per la concorrenza ancora ferma ai refrigeranti precedenti. Alcuni produttori si rivolsero quindi a DuPont, grande e potente marchio dell’industria chimica statunitense, chiedendo se fosse possibile trovare un nuovo refrigerante altrettanto competitivo. I tecnici della società si misero al lavoro e orientarono le loro ricerche sui composti del fluoro, proprio come aveva fatto Frigidaire.
Come racconta un articolo dello Smithsonian Magazine, i primi tentativi furono fallimentari, ma portarono all’imprevista scoperta di qualcosa di nuovo:
Il 6 aprile del 1938 un gruppo di chimici di DuPont si radunò intorno all’oggetto del loro ultimo esperimento: un semplice cilindro di metallo. Avrebbe dovuto contenere del tetrafluoroetilene, un gas inodore e incolore. Ma quando i chimici aprirono la valvola, non uscì alcun tipo di gas. Qualcosa era andato storto. Rimasero per un po’ perplessi. Il cilindro pesava comunque di più di quanto pesasse da vuoto, ma sembrava proprio che non ci fosse nulla al suo interno. Alla fine, qualcuno suggerì di tagliare il cilindro per aprirlo e vedere che cosa fosse successo. Trovarono che il suo interno era ricoperto da una polvere bianca scivolosa.
I chimici di DuPont erano alla ricerca di un gas refrigerante, quindi non diedero molto peso all’accidentale produzione di quella polvere e proseguirono con i loro esperimenti. Qualche anno dopo, per motivi che in parte sfuggono ancora a causa dei documenti tenuti segreti dagli Stati Uniti, quella strana sostanza che oggi chiamiamo Teflon ebbe un ruolo importante nello sviluppo della prima bomba atomica nell’ambito del Progetto Manhattan.
Per le attività di ricerca e sviluppo del programma atomico statunitense erano necessarie importanti quantità di plutonio e uranio, ma la loro produzione non era semplice. Per ottenere uranio arricchito il processo richiedeva l’impiego di chilometri di tubature in cui far fluire un gas – l’esafluoruro di uranio – altamente corrosivo che degradava rapidamente le valvole e le guarnizioni degli impianti. Alcuni dipendenti di DuPont che lavoravano a un altro progetto spiegarono probabilmente ai responsabili dell’impianto di avere scoperto in passato una sostanza che poteva a fare al caso loro vista la sua composizione chimica e quella dell’esafluoruro di uranio: il Teflon.
Il rivestimento fu sperimentato e si rivelò effettivamente ideale per proteggere le tubature dell’impianto, rendendo possibili i progressi nella produzione di uranio per il Progetto Manhattan. Il sistema sarebbe stato impiegato anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale per le successive iniziative legate alle tecnologie nucleari negli Stati Uniti.
Quelle prime esperienze avevano permesso a DuPont di comprendere meglio le caratteristiche del Teflon e la sua resistenza a molti composti e alle alte temperature. Fu però necessario attendere i primi anni Cinquanta perché venissero proposti i primi utilizzi del Teflon in cucina per realizzare prodotti antiaderenti. Una decina di anni dopo, iniziarono a essere messe in commercio le prime padelle rivestite di Teflon sia negli Stati Uniti sia in Europa, con la promessa di ridurre il rischio di far attaccare il cibo alle superfici di cottura e di semplificarne la pulizia. Quando si sviluppò una maggiore sensibilità sul mangiare “sano” e con pochi grassi, padelle e pentole antiaderenti furono promosse come l’occasione per cucinare utilizzando meno condimenti visto che il cibo non si attaccava al rivestimento di Teflon.
Ma il Teflon non rimase relegato alle cucine, anzi. Oltre ai numerosi impieghi in ambito industriale, compresi quelli nell’industria aerospaziale, il materiale fu sfruttato per sviluppare un nuovo tipo di tessuto sintetico, al tempo stesso impermeabile e traspirante: il Gore-Tex, dal nome di Wilbert e Robert Gore che lo avevano inventato alla fine degli anni Sessanta. Oggi il Gore-Tex è presente in una miriade di prodotti, dalle scarpe agli impermeabili passando per le attrezzature da montagna, a conferma della versatilità e dei molti usi possibili del Teflon.
E fu proprio il successo del Teflon a spingere l’industria chimica a cercare prodotti con proprietà simili portando alla nascita di una nuova classe di composti, le sostanze perfluoroalchiliche e polifluoroalchiliche note in generale come PFAS. Come il politetrafluoroetilene, anche queste sono formate da catene di atomi di carbonio con un forte legame con quelli di fluoro. I PFAS sono molto stabili termicamente e chimicamente, di conseguenza si disgregano con difficoltà e possono rimanere a lungo nell’ambiente o negli organismi nei quali si accumulano. Vengono spesso definiti “forever chemicals” proprio per questo motivo e il loro impatto, anche sulla salute umana, è stato molto discusso negli ultimi anni man mano che si raccoglievano maggiori dati sulla loro permanenza nell’ambiente.
Le maggiori conoscenze hanno portato a iniziative legali in varie parti del mondo, per esempio da parte delle comunità che vivono nelle vicinanze degli impianti che producono o utilizzano i PFAS (in Italia una delle aree maggiormente interessate è tra le province di Padova e Verona, in Veneto). Nell’Unione Europea e negli Stati Uniti le istituzioni lavorano per mettere al bando alcune tipologie di PFAS, ma i provvedimenti riguardano spesso specifiche sostanze sugli oltre 6mila composti noti appartenenti a questa classe. Ciò significa che in alcuni casi ci sono possibilità di aggirare i divieti, ricorrendo a sostanze simili non ancora vietate o con forti limitazioni per il loro impiego.
Dentro al grande insieme dei PFAS ci sono comunque sostanze molto diverse tra loro, ciascuna con le proprie caratteristiche anche per quanto riguarda l’eventuale pericolosità. I produttori sostengono che il polimero del Teflon non dovrebbe essere fonte di particolari preoccupazioni, visto che difficilmente l’organismo umano potrebbe assorbirlo. L’orientamento delle istituzioni è comunque di limitare i Pfas, che si ritiene potrebbero avere conseguenze sull’organismo.
Nei processi produttivi, compresi quelli per realizzare il Teflon, si utilizzano PFAS formati da polimeri più corti, che possono comunque finire nell’ambiente. Quelli più lunghi possono deteriorarsi in catene di molecole più corte per esempio se sono esposti agli elementi atmosferici, come avviene in una discarica. In generale, comunque, il fatto che i PFAS abbiano un impatto ambientale è ormai acclarato, mentre si sta ancora cercando di capire la sua portata per la nostra salute e quella degli ecosistemi.
Sulla sicurezza del Teflon erano stati sollevati comunque dubbi anche in passato, visto che questa sostanza entra in contatto con le preparazioni che poi mangiamo. È noto che il politetrafluoroetilene inizia a deteriorarsi a temperature superiori ai 260 °C e che la sua decomposizione inizia a circa 350 °C. Le temperature che raggiungono pentole e padelle per cucinare gli alimenti sono ampiamente al di sotto dei 260 °C e per questo si ritiene che ci sia un rischio minimo di entrare in contatto con sostanze pericolose (come il PFOA), che si sviluppano quando il Teflon inizia a decomporsi.
Il Teflon e i suoi derivati sono talmente diffusi negli oggetti che ci circondano che a oggi sembra quasi impossibile immaginare un mondo senza la loro presenza. Le vendite di Teflon sono nell’ordine dei 3 miliardi di dollari l’anno e si prevede che la domanda continuerà ad aumentare, arrivando a 4 miliardi di dollari entro i prossimi primi anni Trenta, a poco meno di un secolo dalla sua accidentale scoperta.