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  • Venerdì 13 settembre 2024

Come funziona la prevenzione del suicidio in Italia

A livello nazionale non esiste né una strategia né delle linee guida: il vuoto viene riempito da qualche raro progetto regionale, ma soprattutto da associazioni come Telefono Amico

(Brandon Thibodeaux/The New York Times)
(Brandon Thibodeaux/The New York Times)
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Matteo Airaghi ha quarantasei anni, e da diciotto passa varie ore alla settimana a parlare al telefono con persone che non conosce. È uno dei circa seicento volontari che lavorano nei 21 centri territoriali di Telefono Amico Italia, una delle principali associazioni che dagli anni Sessanta del secolo scorso offrono a chiunque la possibilità di chiamare un numero telefonico per parlare con una persona del proprio stato emotivo. Molti chiamano perché hanno un problema e non sanno con chi confrontarsi, altri per alleviare la solitudine quando diventa troppo opprimente. Negli ultimi anni, però, sempre più persone telefonano perché stanno pensando al suicidio e hanno paura di farsi del male.

Secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità, in Italia ogni anno muoiono per suicidio circa 4mila persone. Naturalmente ogni caso è unico: dietro alla scelta ci possono essere profonde difficoltà interpersonali, contesti di esclusione, marginalizzazione e isolamento sociale, problemi economici, situazioni di forte disagio psicologico o di malattia mentale, fattori genetici e biologici, la sensazione di essere un peso per le persone attorno a sé, di essere troppo alienati dagli altri, di non avere alternative alla propria situazione difficilissima.

Negli ultimi decenni sono stati pubblicati diversi studi e linee guida che indicano le politiche che uno stato può intraprendere per alleviare queste situazioni di disagio e prevenire quindi molti di questi suicidi. Il Centers for Disease Control statunitense, per esempio, consiglia alle amministrazioni statali di lavorare al contempo a favore della stabilità economica della popolazione (rendendo per esempio più difficile trovarsi senza casa o senza alcun tipo di introito in caso di licenziamento), di ridurre l’accesso a strumenti potenzialmente mortali come le armi, di rendere più facile e abbordabile l’accesso a strutture di cura psicologica o psichiatrica, e di istruire in modo capillare le figure che potrebbero trovarsi a contatto con una persona in difficoltà (medici, infermieri, poliziotti, pompieri) in modo che sappiano rispondere adeguatamente e con sensibilità a una crisi quando se la trovano davanti.

Diversi paesi hanno dedicato tempo e risorse all’introduzione di programmi nazionali per ridurre il tasso di suicidi nella loro popolazione: Australia, Finlandia, Norvegia e Svezia crearono dei programmi nazionali di prevenzione del suicidio già negli anni Novanta, con un certo successo. Oggi i paesi che hanno una chiara strategia nazionale pubblica per la prevenzione del suicidio sono 28: quasi sempre è progettata per identificare i gruppi più vulnerabili e fornire loro attenzioni e strumenti specifici, migliorare la valutazione e la cura delle persone con tendenze suicidarie e aumentare la consapevolezza pubblica attorno al problema, in modo da contrastare lo stigma nei confronti delle persone in difficoltà e fornire strumenti per aiutare quelle che si conoscono se hanno tendenze suicidarie.

In Italia una strategia di questo tipo non esiste, e gli sforzi di prevenzione del suicidio sono sparpagliati e spesso mal finanziati. Di recente Maurizio Pompili, professore ordinario di psichiatria all’Università Sapienza di Roma nonché uno dei massimi esperti di suicidi in Italia, ha spiegato però che creare una strategia nazionale di questo tipo sarebbe importantissimo.

«La creazione di contesti dedicati alla prevenzione del suicidio, che utilizzino tutte le conoscenze specifiche e multidisciplinari sul fenomeno, aiuta sicuramente a salvare vite», ha detto Pompili. Secondo lui, per contrastare questo fenomeno a livello istituzionale bisogna perseguire in parallelo tre obiettivi: aumentare la consapevolezza tra la popolazione; identificare i gruppi a rischio (come giovani e anziani) per definire interventi preventivi ad hoc; continuare a intervenire su chi ha già tentato il suicidio o ha mostrato segni di ideazione suicidaria grave. «L’organizzazione di interventi preventivi che vadano in queste tre direzioni potrebbe contrastare il fenomeno. Helplines e centri di ascolto rappresentano interventi imprescindibili», dice.

Per ora, gli strumenti a disposizione dipendono moltissimo dalla volontà delle singole regioni oppure di dottori e dirigenti medici particolarmente sensibili e informati sul tema. In questo contesto, le persone che hanno bisogno di aiuto spesso vanno a cercarlo al pronto soccorso più vicino, nella speranza di trovare personale formato che sappia indirizzarli. Chi cerca informazioni sul suicidio o sull’autolesionismo online, su piattaforme come Google, Facebook, TikTok e Amazon, trova invece molto velocemente dei riquadri che consigliano di chiedere aiuto a servizi come Telefono Amico, che si basa quasi esclusivamente sul lavoro di volontari che offrono gratuitamente il proprio tempo e le proprie energie.

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Queste helplines – ovvero le linee telefoniche che chiunque può chiamare per poter parlare con un volontario in momenti di particolare disagio emotivo o solitudine – in Italia sono gestite quasi esclusivamente da associazioni dette “telefoni amici”. Inizialmente erano associazioni autonome nate in varie città italiane dopo che servizi simili si erano diffusi prima negli Stati Uniti all’inizio del secolo e poi nel Regno Unito dai primi anni Cinquanta. Nel tempo si sono unite a formare un’associazione nazionale che opera rispettando le linee guida dell’International Federation of Telephone Emergency Services e la Carta Nazionale dei Telefoni Amici Italiani.

Oggi i centri che fanno parte dell’associazione Telefono Amico Italia sono 21, i volontari circa 600. Al numero 02 2327 2327 c’è sempre qualcuno che risponde, tra le 9 del mattino e mezzanotte. Altri 13 centri fanno parte di un gruppo di coordinamento diverso, il Telefono Amico Cevita, i cui volontari rispondono ventiquattr’ore su ventiquattro al numero 02 99777.

Per diventare volontari basta essere maggiorenni e avere del tempo da dedicare all’organizzazione: chiunque voglia farlo per il Telefono Amico Italia, per esempio, deve poi seguire un corso di formazione di circa 6 mesi. «Ci dedichiamo alle competenze che sono necessarie a gestire una relazione d’aiuto, e quindi l’empatia e l’ascolto attivo», spiega la presidente Cristina Rigon.

«Il nostro servizio è innanzitutto riservato e anonimo: chi ci contatta sa che noi non possiamo nemmeno vedere il suo numero, e questo è già un elemento estremamente importante che favorisce la possibilità di rivolgersi a noi, perché molte volte le persone che ci contattano non hanno nessuno con cui parlare, ma altre hanno problemi che non vogliono raccontare a familiari, amici e parenti» spiega Rigon. «E poi ci impegniamo a essere assolutamente non giudicanti: al centro della formazione c’è l’accettazione incondizionata della persona nella situazione in cui si trova. Diamo uno spazio di ascolto che molto spesso serve alla persona per prendere consapevolezza di quali sono effettivamente le sue difficoltà, permettendole di esprimere e condividere qualsiasi sentimento, per quanto difficile sia».

L’obiettivo, dice Rigon, è quello di far sì che la persona che chiama si senta accolta, che possa esprimere il proprio disagio e poi riesca a trovare da sé le soluzioni ai propri problemi laddove è possibile. «La formazione include quindi una parte teorica, proprio a questo scopo, e poi c’è una parte pratica nella quale si mettono alla prova gli strumenti imparati», dice. Non tutti i volontari arrivano alla fine del corso: alcuni si rendono conto di non essere adatti a quel ruolo, o di aver sottovalutato il carico di stress e di disagio che spesso ci si trova a provare in situazioni così delicate. Anche per chi diventa volontario, comunque, la formazione è costante nel corso degli anni.

I vari centri si organizzano poi per assicurarsi che la maggior parte delle fasce orarie sia coperta: i volontari da qualche anno possono scegliere di rispondere alle telefonate da casa, ma spesso preferiscono andare fisicamente nella sede del centro in modo da avere un ambiente adeguato, silenzioso e confortevole per fare questo genere di conversazioni.

«Ci chiamano proprio perché c’è il filtro del telefono che permette un distacco quando in tanti casi non avrebbero il coraggio, la forza o proprio la possibilità di avere un confronto faccia a faccia con qualcuno», racconta Airaghi, volontario del Telefono Amico. «Oppure ci scrivono per email o su WhatsApp, dicendoci che ci contattano lì e non a voce perché non ce la farebbero a dire quelle cose di persona. Spesso riceviamo telefonate da persone che piangono e basta, e non riescono a dire altro. Mi è capitato invece di avere dei colloqui in cui non ho detto quasi nulla: li ho lasciati a parlare e alla fine mi hanno detto “grazie, grazie, lei mi ha aiutato tantissimo”».

Una chiamata solitamente dura tra i 20 e i 40 minuti, ma non c’è un tempo massimo: se qualcuno si trova nel mezzo di una crisi suicidaria, per esempio, capita di restare al telefono anche un’ora e mezza per farlo parlare e cercare alternative o soluzioni di breve periodo. La sola condivisione dei propri pensieri suicidi, dice Rigon, «spesso basta ad abbassare la tensione emotiva. Se io tengo il mio pensiero suicida nella testa continuerà a crescere, a diventare sempre più opprimente. Al contrario noi crediamo che condividere questi pensieri, confrontarsi con altre persone disposte e preparate ad ascoltare, può sicuramente aiutare a vedere che ci possono essere delle sfumature, che non è tutto nero».

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Quando una persona chiama specificatamente per parlare dei propri pensieri suicidi, la prima indicazione per i volontari è quella di «stare con lei in quel momento, sulla cosa che ci sta dicendo, senza spaventarci anche se dovesse dirci che in quel momento si trova su un ponte», dice Rigon. «Non dobbiamo avere fretta di risolvere il problema, perché chi ci contatta in quelle situazioni sicuramente sta già vivendo un momento di ambivalenza: se avesse già deciso del tutto, non ci avrebbe contattato. Invece loro stanno chiedendo aiuto, stanno cercando ancora la possibilità di avere un dialogo». In contesti di pericolo tangibile e immediato, ai volontari viene detto di chiedere un indirizzo per poter mandare un’ambulanza o i carabinieri.

Rigon dice che nel 2023 l’organizzazione ha ricevuto oltre 7mila richieste d’aiuto, il 24 per cento in più rispetto all’anno precedente: il 75 per cento è arrivato al numero telefonico, il 18 per cento su WhatsApp, il 7 per cento per email. Quest’anno, ha aggiunto, il numero di telefonate è un po’ diminuito, ma rimane comunque molto più alto rispetto al periodo precedente alla pandemia di Covid-19.

L’organizzazione, però, non ha alcun tipo di contatto con le istituzioni italiane, né riceve sostegno economico per il proprio lavoro al di là dei soldi ricevuti dalle persone che devolvono il proprio 5 per mille. «I nostri volontari non lavorano soltanto a titolo gratuito, ma ci aiutano anche a pagare il centralino e l’operatore telefonico, che ci costa circa 30mila euro l’anno», dice Rigon.

A livello istituzionale e nazionale, servizi simili non esistono. In Veneto, però, dal 2012 la regione ha istituito InOltre, un servizio che gestisce il numero verde 800334343, specializzato proprio in ascolto psicologico d’urgenza e prevenzione dei suicidi, in collaborazione con l’allora Ulss 4 dell’Alto Vicentino e il dipartimento di psicologia dell’Università di Padova. Che sia nata lì, in quegli anni, non è un caso. In Italia il 78,7 per cento delle persone che muoiono per suicidio è uomo, e la percentuale ha cominciato a crescere a partire dal 2008, mostrando una certa correlazione con gli effetti della crisi economico-finanziaria internazionale. Da allora il tasso di suicidi è particolarmente alto nelle regioni del nord-est: il 2015, per esempio, è stato un anno particolarmente intenso per InOltre, a causa della crisi di due banche venete, Popolare di Vicenza e Veneto Banca, presso cui migliaia di veneti avevano i propri risparmi. Oggi ricevono circa 200 telefonate al mese.

Il sistema è diverso da quello di Telefono Amico, più istituzionale: alle telefonate rispondono psicologi formati che valutano il rischio suicidario su una scala da 0 a 5 per poi stabilire il tipo di intervento. In caso di pericolo immediato vengono coinvolti subito il 118 e le forze dell’ordine. Il numero è attivo 24 ore su 24, tutti i giorni, e gli operatori oltre all’italiano conoscono bene anche le varianti dialettali più diffuse nella regione in modo da poter capire bene anche le persone più anziane. Alcuni di loro, poi, parlano le lingue straniere più diffuse, a partire da inglese e francese. Negli anni più intensi della pandemia, tra 2020 e 2021, hanno affiancato la protezione civile della regione per rispondere alle chiamate delle persone spaventate, confinate in casa e in difficoltà per qualsiasi motivo.

«Per ora è l’unico presidio di carattere sociale di questo tipo in Italia», dice il professor Gian Piero Turchi, che insegna psicologia clinica all’Università di Padova ed è tra i fondatori di InOltre. Il servizio è finanziato annualmente dalla regione, e al momento viene preso in carico da una cooperativa che ha assunto gli operatori. «Diverse regioni hanno preso contatto con noi per capire come adottare a propria volta un sistema simile: la Toscana, il Piemonte, la Lombardia, il Lazio, l’Emilia-Romagna. Ma ovviamente si tratta di decisioni politiche e amministrative. Ci sarebbe anche l’idea di trasformarlo in un servizio nazionale, non solo regionale».

L’assenza di una strategia coesa a livello nazionale è effettivamente un problema, secondo vari esperti. La dottoressa Sara Patti, che è dirigente medico psichiatra dell’Asl3 genovese nonché membro del consiglio direttivo dell’Associazione italiana per la prevenzione e l’intervento precoce nella salute mentale (AIPP), sta per esempio lavorando a #Chatsafe_Ita, un progetto nato dalla collaborazione con l’organizzazione australiana Orygen, per tradurre una serie di linee guida che permettano alle persone più giovani di trattare l’argomento del suicidio e dell’autolesionismo in modo sicuro sui social media.

«Avremmo voluto inserire un numero nazionale ufficiale per una helpline che si occupi di questi casi, come esistono all’estero, ma abbiamo faticato a trovarla: alla fine abbiamo inserito i contatti del Telefono Amico e di Samaritans, perché una linea nazionale 24 ore su 24, 7 su 7, con operatori formati che rispondano a richieste di aiuto specifiche non c’è», dice. In Australia, racconta, esiste invece un programma specifico di “pronto soccorso” per chi ha pensieri suicidari, con tanto di centri dove gli adolescenti in difficoltà possono recarsi per incontrare psicologi o psichiatri che possano aiutarli.

«C’è poi un livello macroscopico, più politico, che dovrebbe mirare a ridurre le disuguaglianze e a favorire l’integrazione, perché è dimostrato che laddove c’è una buona integrazione, una buona coesione sociale e disuguaglianze socioeconomiche ridotte i tassi di suicidio sono più bassi», dice Patti.

«Noi possiamo lavorare sui fattori individuali e interpersonali, come l’isolamento. Gli adolescenti, per esempio, possono avere una bassa tolleranza emotiva, una bassa capacità di far fronte a emozioni negative: possiamo lavorare su questo livello, sulla possibilità di resistere maggiormente alle frustrazioni, di sviluppare una maggiore educazione emotiva, di imparare a riconoscere lo stato alterato in cui ci si trova e a dargli un nome. Anche se vuol dire parlare di suicidio: le linee guida dicono che ha senso indagare l’ideazione suicidaria tra i ragazzi, tirarla eventualmente fuori, parlarne, condividere, far sentire che c’è un interlocutore attento e capace, anche per ridurre il sentimento di solitudine che c’è alla base di questi vissuti», spiega.

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Dove chiedere aiuto
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il numero 112. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 02 2327 2327 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.
Puoi anche chiamare l’associazione Samaritans al numero 06 77208977, tutti i giorni dalle 13 alle 22.