Un’altra canzone di Bruce Springsteen
Prima che springstinasse il mondo
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Il disco nuovo di The The è bello, secondo me: se vi piaceva una volta, è un bel disco di The The di una volta; se non lo conoscevate, ha ancora adesso qualcosa di orginale e non datato. Di, dei, ci siamo capiti.
E poi – le solite coincidenze – subito dopo avere scritto le righe qui sopra ho ricevuto la mail di Raffaele, di cui vi incollo gran parte, perché ha dei pensieri interessanti sulle cose che dicevamo in queste sere. Partendo dalla cosa che avevo scritto, che forse oggi Riders on the storm manco la pubblicherebbero.
“E allora mi è venuta voglia di ascoltarla, e vedere se me lo faceva pensare.
Fare quell’esercizio del pensare che non sia una canzone che ha tutto un intorno di vissuto e cercare di vederla (sentirla) come se fosse una delle uscite del venerdì – giovedì notte, va – di un qualche gruppo americano sconosciuto e vintage.
La prima cosa di cui mi sono accorto è una confessione:
non è tanto che non sarebbe pubblicata, Riders on the storm,
è che non sarebbe finita nel mio algoritmo, nel mio release radar, non sarei arrivato ad ascoltarla.
Probabilmente perché è troppo blues, che ne so. Non posso esserne sicuro ma è probabile.
[…]
Dicevo, che a parte la vergogna di perdermi una nuova Riders on the storm, ci pensavo oggi, se non in questi termini, in termini simili, a quella cosa lì, del vivere con lo skip sempre acceso, automatico, vile, necessario.
Ci ho pensato oggi con un disco, ma non per quel disco, ma per il come mi sia dovuto obbligare ad accorgermi di lui, e ad ascoltarlo. Tutto e con attenzione.
Facevo un giro in bici. Metto la musica, in bici, più spesso che i podcast.
E oggi mi sono detto che avrei scelto un disco. Un album.
E c’erano abbastanza cose, uscite da poco, ma ho messo The the, quello nuovo.
E occhio che io manco ricordo le cose vecchie, non ero fan, non ho recuperato e per me è un nome di cui conosco un disco soltanto e di quel disco poche canzoni rimaste addosso.
Insomma… mi sono accorto che mi piaceva, ma che volevo skippare.
Ed è un paradosso, ma ho pensato a questa cosa qua, di come siamo fatti, che riconosciamo il bello ma se non ci intrattiene non lo vogliamo, lo mettiamo da parte. E non posso dire che l’avrei scartato. Ho pensato, quando stavo per fare doppio click sulla cuffia, che non lo stavo skippando perché era brutto, ma perché era inadatto a quel momento lì, del pedalare. Ma non era vero! Mi stavo mentendo. Di brutto. Era solo una scusa con me stesso. Volevo appunto, qualcosa di più… Di più “Ehi! Wohhh! Tiè!” ecco, si. Entertainment, insomma.
Ma poi mi sono trattenuto.
Mi sono proprio sforzato.
E il disco è andato avanti. Ed era sempre bello. E non era vero che non era un buon momento per ascoltarlo. Anzi… andava proprio bene così. Ascoltarlo senza fare altro. Alla fine è arrivata una canzone semplice, Where do we go when we die, e mi è piaciuta tanto. E non era niente di che, pure stucchevole, ma mi piaceva lo stesso. E ho pensato, riascoltandola, che mi sarei perso il momento, se non avessi resistito.
Ed entrava, tutto questo, in quel discorso lì, del perdersi le cose.
Nel senso: non voglio pensare che ci sia necessariamente qualcosa di male nel diventare skip people e vivere skippando indefinitamente verso l’entertainment. Ma se ti perdi delle cose belle, un antidoto bisogna un po’ cercarlo. Anche la consapevolezza di star perdendo cose belle (canzoni, film, persone…) è forse già un inizio di antidoto. E infatti, prima di cominciare a rispondere a questa mail, e di perdermi on the storm, stavo cercando di fare la stessa cosa con i Mercury Rev. Che sembrava bello, nei primi minuti.
Vabbè. Direi basta chiacchiere. Volevo solo condividere questi miei antidoti di oggi, contro la skipzofrenia dilagante”.
Ho visto il film di Shyamalan che si chiama Trap, brutto assai, malgrado la buona idea di farlo svolgere quasi tutto dentro il concerto di una teen idol (la quale attenua con l’eroismo la povertà della musica e dell’esibizione).
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