Il sistema dei crediti di carbonio è da rifare
È in crisi dopo che diverse indagini scientifiche e giornalistiche hanno rivelato quanto sia inaffidabile, ma non vuol dire che si debba buttare tutto
di Ludovica Lugli
Nel 1987 Sheryl Sturges, una dirigente della società energetica statunitense Applied Energy Services, ideò un modo per annullare le emissioni di gas serra di una centrale a carbone che l’azienda stava costruendo in Connecticut: finanziare la piantumazione in Guatemala di 52 milioni di alberi, un numero che si stimava fosse adeguato per assorbire l’anidride carbonica prodotta dalla centrale in 40 anni di attività. Sturges in sostanza inventò i “crediti di carbonio”: l’idea che, dato che l’atmosfera del pianeta è una sola, si possa compensare alle emissioni di gas serra in un luogo facendone assorbire altrettante, o evitandone la produzione, altrove. L’obiettivo dei crediti è ridurre i contributi al cambiamento climatico, causato appunto dalle emissioni di gas serra umane.
Da quando Sturges ebbe la sua idea sono nate molte società che creano crediti di carbonio. Li vendono ad aziende interessate a ridurre il proprio impatto sul clima, o a dire ai propri clienti che lo fanno, definendosi “green”, “carbon neutral” o cose del genere. Nel 2005 nel mondo furono scambiati 12 milioni di crediti di carbonio, formalmente corrispondenti a 12 milioni di tonnellate di anidride carbonica rimosse o risparmiate all’atmosfera; nel 2022, 254 milioni.
L’anno scorso però una serie di indagini scientifiche e giornalistiche ha scoperto che molte delle iniziative finanziate coi crediti di carbonio non hanno davvero evitato l’emissione di gas serra nell’atmosfera, o permesso il loro assorbimento, come promesso. Praticamente l’intero mercato dei crediti scambiati in modo autonomo dalle aziende (da non confondere con l’Emission Trading System dell’Unione Europea) è stato denunciato come ingannevole e per questo in un anno il suo valore complessivo è diminuito del 61 per cento, da quasi 2 miliardi di dollari a 723 milioni.
Il caso più eclatante è stato probabilmente quello di South Pole, la più grande società produttrice di crediti di carbonio del mondo, che è stato indagato nel gennaio del 2023 dal sito di inchieste olandese Follow the Money e raccontato qualche mese dopo da un lungo articolo del New Yorker che ha avuto una grande risonanza.
Fondata in Svizzera nel 2006, nel tempo South Pole ha venduto crediti di carbonio ad aziende come Volkswagen, Gucci e Nestlé, ma anche a grandi compagnie petrolifere. Per molti anni il suo progetto più importante per crearli è stato quello della foresta di Kariba, un’area di 7.500 chilometri quadrati nel nord dello Zimbabwe. South Pole proponeva ai propri clienti di finanziare varie attività di contrasto alla deforestazione in cambio di crediti di carbonio, basati sulla stima che senza tali attività l’estensione della foresta sarebbe stata ridotta.
Tuttavia, a dieci anni dall’inizio del progetto, è stato calcolato che dei 23 milioni di crediti di carbonio venduti ad altre aziende, solo 15 milioni si potevano ricondurre alle iniziative di South Pole. Inoltre si è scoperto che la Carbon Green Investments dell’imprenditore zimbabwese Steve Wentzel, la società che possedeva la foresta e a cui South Pole aveva affidato tutti gli aspetti concreti del progetto, gestiva in modo irregolare e non tracciato il denaro che le arrivava. Tra le altre cose se lo faceva addebitare su un conto nel paradiso fiscale di Guernsey. Tutte queste informazioni sono state raccolte dai giornalisti a partire da alcune rivelazioni di dipendenti o ex dipendenti di South Pole, tra cui ci sono molte persone con profonde convinzioni ambientaliste.
Dopo la pubblicazione dell’articolo del New Yorker, South Pole ha interrotto la collaborazione con Carbon Green Investments ma continua a vendere crediti di carbonio.
Un altro caso che ha avuto delle ripercussioni riguarda Shell, la multinazionale britannica che è una delle più grandi aziende del settore petrolifero del mondo. Se ne è occupato Climate Home, un sito di notizie sulle politiche climatiche, e in particolare il giornalista italiano Matteo Civillini. Secondo la sua inchiesta, pubblicata nel marzo del 2023, una serie di progetti per la riduzione delle emissioni di metano nella coltivazione del riso in Cina che era stata finanziata da Shell era basata su presupposti scorretti, e quindi aveva generato milioni di crediti di carbonio fasulli.
Shell non si era rivolta a un intermediario come South Pole per acquistare dei crediti di carbonio, ma aveva deciso di crearli più o meno in proprio, per poi venderne una parte ad altre aziende, collaborando in modo diretto con una società cinese. Al centro dei progetti non c’era la protezione o la piantumazione di una foresta, ma la diffusione di un metodo di irrigazione delle risaie che prevede di non lasciarle allagate (“in asciutta”, si chiama in Italia). Nell’acqua delle risaie infatti proliferano dei batteri che si nutrono dei vegetali morti e come sottoprodotto del proprio metabolismo producono metano, che è un gas serra. Per ridurre le emissioni di metano delle risaie si può usare l’acqua in modo diverso, ma per passare dal vecchio metodo all’asciutta serve fare alcuni investimenti perché si usano strumenti agricoli un po’ diversi.
Shell aveva dichiarato di aver finanziato nove progetti di questo genere. Erano stati presentati come di piccola scala, cioè di aziende agricole con risorse limitate e dunque impossibilitate a cambiare metodo di coltivazione in autonomia. Dopo aver ricevuto una soffiata da una persona che lavora nel settore, Civillini ha appurato che in realtà tutte le risaie appartenevano a un’unica società ed erano state divise (praticamente solo sulla carta) per rispettare le regole per la creazione di crediti di carbonio.
Uno dei presupposti indispensabili perché un’attività di riduzione delle emissioni o assorbimento di gas serra possa funzionare da compensazione è che l’iniziativa sia stata possibile solo grazie ai finanziamenti esterni. In questo caso, dato che la società che possiede le risaie ha grandi dimensioni, si può supporre che non avrebbe avuto difficoltà a convertire il proprio metodo di coltivazione in autonomia.
L’accusa di Climate Home è poi stata indagata da Verra, che è la principale organizzazione che certifica le compensazioni di emissioni di gas serra e complessivamente si è occupata di circa tre quarti di tutte quelle dichiarate. Verra ha sede negli Stati Uniti ed è stata fondata nel 2005 per l’iniziativa di società creatrici di crediti di carbonio per avere un ente terzo che li certificasse. Il 28 agosto di quest’anno ha annullato il valore dei crediti prodotti con i progetti finanziati da Shell, una decisione sostanzialmente senza precedenti.
«Il caso di South Pole è stato il più clamoroso», spiega Civillini, che segue il mercato dei crediti di carbonio da circa quattro anni, «ma i progetti con cui sono creati i crediti di carbonio sono di tipi molto diversi e possono avere problemi di vario genere, alcuni legati a violazioni dei diritti delle comunità che vivono nei territori interessati». Attualmente tra gli scienziati e i giornalisti che si occupano di questo settore c’è un ampio consenso sul fatto che «la maggior parte dei crediti non sia credibile e di buona qualità».
Tale conclusione è in buona parte dovuta a un’altra inchiesta, molto più ambiziosa nel campo di indagine, che era stata pubblicata il 18 gennaio 2023 dal quotidiano britannico Guardian, dal tedesco Die Zeit e dall’organizzazione di giornalismo investigativo SourceMaterial. L’oggetto dell’indagine erano i crediti di carbonio creati con progetti di protezione delle foreste pluviali, in Sudamerica, Africa e Asia e certificati da Verra. Attualmente quasi un terzo di tutti i crediti di carbonio creati nel mondo proviene da progetti di questo tipo. E secondo l’inchiesta giornalistica il 94 per cento di tali crediti non è davvero valido perché è legato a progetti che non fanno la differenza in termini di emissioni di gas serra, oppure che hanno un contributo minore rispetto a quanto dichiarato.
I progetti di contrasto alla deforestazione prevedono vari tipi di attività. Per esempio impiegano i membri delle comunità locali per fare delle ronde contro il disboscamento illegale, oppure insegnano loro come portare avanti pratiche agricole sostenibili, due strategie per permettere a chi vive vicino alle foreste di sostenersi economicamente senza dover disboscare. Per ogni progetto forestale che certifica, Verra stima quante emissioni sono state prevenute evitando l’abbattimento degli alberi, usando vari metodi che tengono conto del contesto in cui si trova. In generale, valuta in che misura non è avvenuta una cosa che sarebbe potuta avvenire.
L’inchiesta del Guardian, di Die Zeit e di SourceMaterial è basata sui risultati di tre studi scientifici, pubblicati tra il 2020 e il 2023 su riviste molto autorevoli. Gli studi riguardano due terzi dei progetti forestali certificati da Verra e ancora in corso al momento dell’analisi; altri sono stati esclusi perché l’organizzazione non aveva fornito sufficienti informazioni pubbliche in proposito.
Gli scienziati hanno cercato di verificare le stime sulla deforestazione non avvenuta, utilizzando la documentazione fornita dall’organizzazione e usando un metodo alternativo. Semplificando, hanno osservato le immagini satellitari delle foreste interessate dai progetti certificati da Verra e delle zone intorno, poi hanno calcolato il tasso di deforestazione esternamente al progetto e lo hanno confrontato con quello nelle aree protette. Si sono cioè basati su ciò che è successo in altri luoghi, un limite ammesso dagli autori degli studi stessi.
Verra e altri esponenti del settore hanno contestato le conclusioni dell’inchiesta e degli studi scientifici su cui è basata, dicendo che i metodi usati dagli scienziati non sono affidabili. Da allora peraltro Verra ha aggiornato i propri metodi in conclusione di una revisione che era iniziata nel 2021. Inoltre nel maggio del 2023, cinque mesi dopo l’inizio delle inchieste che criticavano il lavoro di Verra, David Antonioli, amministratore delegato dell’organizzazione dalla sua fondazione, si è dimesso senza grandi spiegazioni.
Intanto un’altra organizzazione, l’Integrity Council for the Voluntary Carbon Market (ICVCM), fondata nel 2021 dopo le prime critiche al settore e per iniziativa di altri partecipanti del mercato dei crediti di carbonio (tra cui Google e il Bezos Earth Fund di Jeff Bezos), si è occupata di un altro metodo usato per la creazione di crediti di carbonio: le sovvenzioni a impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Nei primi anni dei crediti di carbonio era il tipo di progetto più popolare, e tuttora quasi un terzo dei crediti di carbonio è prodotto in questo modo.
Secondo le valutazioni dell’ICVCM diffuse lo scorso 6 agosto, che hanno confermato le opinioni di molti esperti del settore e attivisti ambientalisti, questi crediti non sono più sensati. Negli ultimi vent’anni la produzione di energia da fonti rinnovabili è diventata molto meno costosa, e oggi è conveniente o competitiva rispetto alle alternative in quasi tutto il mondo. Quindi non c’è bisogno di finanziamenti esterni per favorirla.
Negli ultimi due anni il mercato dei crediti di carbonio ha perso valore e molte istituzioni politiche del mondo hanno messo in discussione la sua credibilità sulla base delle inchieste e degli studi. Nel marzo del 2023 la Commissione Europea ha approvato una proposta di direttiva per impedire alle aziende di pubblicizzare i propri prodotti con messaggi ingannevoli sul loro impatto ambientale e climatico, compresi quelli sulle compensazioni, e per introdurre un sistema di verifica sulle dichiarazioni di questo tipo. Questa proposta di direttiva non è ancora stata approvata in modo definitivo dalle istituzioni europee, ma intanto lo scorso 28 febbraio è stata approvata un’altra direttiva che vieta alle aziende di proporre prodotti e servizi come “neutrali” per il clima sulla base dell’uso di crediti di carbonio: entrerà in vigore nel 2026.
– Leggi anche: Cosa significa “neutralità carbonica”
L’amministrazione di Joe Biden negli Stati Uniti è influenzata dal fatto che sia Verra che la maggior parte delle aziende che vendono crediti di carbonio hanno sede nel paese. Tuttavia nel maggio del 2024 il governo americano ha pubblicato per la prima volta delle linee guida riguardo all’uso dei crediti di carbonio che propongono dei criteri per distinguere quelli validi: non sono vincolanti, ma fanno parte di uno sforzo degli Stati Uniti per portare a una riforma autonoma del mercato dei crediti di carbonio, la stessa per cui sta lavorando l’ICVCM.
I due diversi approcci dell’Unione Europea e degli Stati Uniti si sono scontrati all’ultima conferenza sul clima delle Nazioni Unite, la COP28 di Dubai. Uno dei temi affrontati durante la conferenza infatti riguardava l’articolo 6 dell’accordo sul clima di Parigi del 2015, relativo alla cooperazione tra paesi ed enti terzi come le aziende per la creazione di un mercato del carbonio regolamentato a livello internazionale. Quello criticato dalle inchieste giornalistiche è autogestito dalle aziende e dalle organizzazioni che vi partecipano, e per questo è definito “volontario”: alla COP28 si è cercato di trovare un accordo per cambiare le cose, ma le trattative sono fallite per le diverse posizioni statunitensi ed europee. L’Unione Europea vorrebbe che le Nazioni Unite avessero un qualche ruolo di supervisione sul mercato, al posto di organizzazioni come Verra, per garantire l’affidabilità dei crediti.
Tra l’11 e il 22 novembre, alla COP29 di Baku, in Azerbaigian, se ne riparlerà. «A sentire un po’ delle persone coinvolte nei negoziati sembrerebbe che quest’anno ci sia un clima un po’ più cordiale», racconta Civillini: «Potrebbe portare a una sorta di compromesso, però è sempre difficile prevedere quello che succederà».
Secondo una parte degli attivisti ambientalisti i crediti di carbonio andrebbero eliminati perché si sono dimostrati in molti casi inutili e sono stati usati spesso per pratiche di greenwashing, cioè per vantare un impegno fasullo nei confronti della crisi climatica. Ma sia per Civillini che per molti scienziati che hanno studiato l’argomento le cose si potrebbero fare in modo diverso.
«Non vorrei far passare il messaggio che tutto il mercato sia da buttare», spiega Civillini: «Alcune di queste iniziative finanziano attività che in certi paesi non potrebbero esistere altrimenti. E quindi c’è un ruolo che possono e devono avere, che sia nel mercato volontario o sotto l’accordo di Parigi. Lo snodo centrale è trovare il modo migliore per far sì che i progetti siano di qualità, che ci siano moralità e trasparenza su come le emissioni vengono calcolate e su come i progetti vengono sviluppati, e che tutti i soggetti su cui poi i progetti possono avere delle ricadute abbiano una voce in capitolo».