• Sport
  • Mercoledì 11 settembre 2024

Ci sono sport da combattimento etici?

Non esiste un confine netto e unanimemente condiviso, ma il lavoro di medici e organismi di regolamentazione può contribuire a renderli più sicuri

due pugili si abbracciano ridendo a fine incontro
Il pugile cinese Zou Shiming e il suo collega irlandese Paddy Barnes alla fine del loro incontro delle semifinali di pugilato maschile dei pesi mosca leggeri alle Olimpiadi di Londra, il 10 agosto 2012 (AP Photo/Patrick Semansky)
Caricamento player

Il dibattito sul valore etico degli sport da combattimento tende ad acquisire centralità sui media principalmente quando un incontro ha tra i suoi effetti diretti la morte di uno dei due combattenti. Era emerso a febbraio, per esempio, dopo la morte del ventitreenne pugile giapponese Kazuki Anaguchi per le conseguenze di un suo incontro del 26 dicembre a Tokyo. Ma emerge anche quando associazioni mediche nazionali e internazionali, considerati i rischi per la salute degli atleti, propongono di bandire pugilato, arti marziali miste (MMA), kickboxing e altri sport da combattimento. Generalmente, maggiore è la notorietà della disciplina di cui si discute e degli atleti che la praticano, maggiore è l’estensione del dibattito.

Durante le Olimpiadi di Parigi la possibilità che il pugilato smetta di essere una disciplina olimpica a partire dai prossimi Giochi, a Los Angeles nel 2028, è emersa in seguito alle polemiche sull’inclusione della pugile algerina Imane Khelif, che ha poi vinto la medaglia d’oro nella categoria 66 kg femminile. Disinformazione a parte, le polemiche avevano riattivato infatti una discussione precedente e più ampia sulla mancanza di una federazione pugilistica internazionale indipendente riconosciuta dal Comitato olimpico: condizione che molte federazioni pugilistiche nazionali, oltre che lo stesso Comitato, considerano problematica e inconciliabile con una gestione regolare e credibilmente equa dei tornei.

Indipendentemente dall’attuale incertezza sul piano delle responsabilità organizzative, a rendere il pugilato uno sport intrinsecamente precario sul piano etico sono questioni che condivide con gli altri sport da combattimento, relative al tipo di rischi corsi dalle persone che li praticano. Che sono rischi qualitativamente diversi rispetto a quelli, magari anche quantitativamente maggiori, a cui sono esposti gli atleti e le atlete di altri sport.

Secondo i dati raccolti dalla rivista scientifica British Journal of Sports Medicine e forniti dal Comitato olimpico, confrontando il numero di atleti in ciascuna disciplina con il numero di infortuni segnalati, la BMX è stata la disciplina olimpica con il fattore di rischio più alto (34,38 per cento) tra i giochi di Pechino 2008 e quelli di Tokyo 2020. Seguono il taekwondo (29,92), il calcio (27,19), la mountain bike (22,44) e il pugilato (18,12). Tra le prime 19 discipline con il più alto fattore di rischio soltanto quattro sono sport da combattimento (taekwondo, pugilato, judo e lotta olimpica).

Stimare la pericolosità degli sport, come scritto dalla rivista Time, è però un’operazione abbastanza complicata. Lo è sia perché i dati sono incompleti, sia perché le stime sono diverse a seconda del dato preso in considerazione: la quantità di infortuni in allenamento, oltre che in gara; l’impatto degli infortuni sulla carriera professionistica degli atleti, o l’impatto a lungo termine sulla loro salute generale.

In fisiologia dello sport, per semplificare l’interpretazione dei dati, gli sport sono divisi in due grandi gruppi. Uno comprende quelli che mettono alla prova la funzionalità del corpo, come il nuoto o la corsa, a cui è associata una maggiore probabilità di problemi cronici. E l’altro gruppo comprende gli sport che implicano un contatto fisico diretto, cioè quelli da combattimento e quelli di collisione (che utilizzano mezzi o attrezzature pericolose come biciclette o cavalli), a cui è maggiormente associato il rischio di lesioni traumatiche. Le informazioni raccolte dal CIO si concentrano perlopiù su questo secondo tipo di infortunio, essendo l’altro tipo più difficile da identificare e osservare nel tempo. È uno dei motivi per cui BMX e taekwondo risultano essere le discipline olimpiche con più infortuni: che non implica che tutte le altre siano meno pericolose in assoluto.

Un calcio ricevuto alla testa sposta il caschetto di un taekwondoka

Il taekwondoka australiano Safwan Khalil durante un match contro il sudcoreano Kim Tae-hun alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, in Brasile, il 17 agosto 2016 (AP Photo/Andrew Medichini)

L’argomento principale su cui si basa la precarietà etica degli sport da combattimento, e che li distingue da quelli di collisione come appunto la BMX, non riguarda quindi né la frequenza né il tipo di infortuni che possono provocare, che sono appunto simili. È che negli sport da combattimento la collisione con un avversario è considerato, se non il fine, il mezzo necessario dell’attività sportiva stessa.

Il rischio di danni cerebrali nel pugilato, per esempio, è direttamente associato alla consueta tattica di colpire la testa dell’avversario per vincere l’incontro, indipendentemente dalle stime sulla frequenza dei danni cerebrali rispetto ad altri sport, come scritto in un articolo sull’etica del pugilato pubblicato da due ricercatori della McGill University a Montréal, in Canada: Suzanne Leclerc, della clinica di medicina dello sport, e Christopher Herrera, del dipartimento di etica biomedica.

Il punto di vista di medici e mediche, secondo Leclerc ed Herrera, è quello che descrive meglio il dilemma etico posto dagli sport da combattimento. Il dilemma è se la medicina debba occuparsi degli infortuni nel pugilato come in qualsiasi altro sport, e magari promuovere nel frattempo riforme che ne migliorino la sicurezza (come successo storicamente in altri sport, tra cui l’hockey e il football). O se debba piuttosto assumere una posizione unitamente contraria agli sport da combattimento.

Nel 2023 l’Associazione Medica Mondiale, un’organizzazione internazionale che riunisce diverse associazioni mediche di tutto il mondo, chiese formalmente alle istituzioni internazionali il divieto di ogni forma di pugilato, la cui pericolosità è legata all’«intento fondamentale di produrre danni fisici prendendo di mira specificamente la testa». Indicando il rischio di encefalopatia traumatica cronica (CTE), una sindrome degenerativa provocata da ripetute concussioni cerebrali, estese le stesse preoccupazioni anche agli altri sport da combattimento. Richieste simili erano state formulate negli anni anche da altre associazioni, tra cui la American Medical Association e la British Medical Association.

Le due pugili incrociano i guantoni colpendosi al volto durante un incontro

La pugile spagnola Buchra El Quaissi contro la sua collega inglese Shannon Courtenay durante un incontro dei pesi gallo di pugilato femminile a Londra, il 19 dicembre 2019 (James Chance/Getty Images)

Un’obiezione comunemente rivolta agli organi responsabili delle proposte cicliche di vietare gli sport da combattimento è che, seppure benintenzionate, quelle proposte siano viziate da un approccio paternalista e da una tendenza a una limitazione eccessiva delle libertà individuali. Secondo le persone avverse a questo approccio, chi pratica sport da combattimento dovrebbe invece essere informato dei rischi e decidere liberamente se combattere o no.

D’altra parte, secondo Leclerc ed Herrera, proporre di vietare uno sport come il pugilato può anche essere interpretato come l’esito di un giudizio sia medico che etico che è implicito in qualsiasi definizione di sport, visto che normalmente la società si affida anche ai medici «per stabilire i limiti di ciò che costituisce uno sport autorizzato». Inoltre, indipendentemente da ciò che la scienza dice sugli sport da combattimento, la decisione finale sul loro eventuale divieto spetta alla politica, non alla medicina, ricordano Leclerc ed Herrera.

– Leggi anche: La scienza non è “neutra”

I medici e le mediche che, teoria a parte, si misurano costantemente e nella pratica con i confini etici degli sport da combattimento sono quelli presenti a bordo ring durante gli incontri. Devono prendere decisioni in contesti clinici e sociali in continuo cambiamento, come vale in parte per qualsiasi altro medico, scrivono Leclerc ed Herrera. Ma il successo del loro lavoro dipende soprattutto dalla loro capacità di valutazione estemporanea del migliore «compromesso, in termini di libertà e sicurezza personale, tra la necessità di perseguire attività divertenti e redditizie, e la necessità di evitare infortuni».

Secondo il medico sportivo Luca Marcantonio, dal 2014 socio aggregato della Federazione Medico Sportiva Italiana e dal 2024 socio di FederKombat, con esperienza da medico di bordo ring nelle MMA, negli sport da combattimento «non esiste un confine netto e unanimemente definito» tra discipline etiche e non etiche. Tutte possono esserlo a condizione che siano fondate sul rispetto reciproco, sulla sicurezza e sul fair play, e «che gli atleti si affrontino seguendo regole ben precise, con arbitri, giudici e personale medico e paramedico» incaricato di evitare e prevenire il più possibile danni permanenti o lesioni gravi.

Esempi significativi di sport da combattimento molto codificati che sintetizzano tutte queste condizioni, per Marcantonio, sono il judo o il jiu jitsu brasiliano, «sport in cui si pone enfasi sulla tecnica e sul controllo, piuttosto che sulla forza» (sono infatti vietati pugni, calci, ginocchiate o gomitate all’avversario, per esempio).

Un judoka sbilancia il suo avversario mandandolo al tappeto

Il judoka francese Teddy Riner lancia il suo collega sudcoreano Minjong Kim durante la finale di judo maschile vinta nella categoria +100 kg alle Olimpiadi di Parigi, il 2 agosto 2024 (David Ramos/Getty Images)

La regolamentazione degli sport da combattimento è intrinsecamente contraddittoria, scrisse nel 2022 il New York Times, perché «un buon combattimento è violento e pericoloso, ma non troppo violento o pericoloso». Teoricamente, a parte il rischio di danni a lungo termine causati dai traumi ripetuti nel tempo, da un punto di vista medico qualsiasi colpo alla testa può provocare un’emorragia cerebrale che può uccidere un combattente in pochi minuti. Ma una volta che l’incontro è cominciato spetta al medico o alla medica a bordo ring fare una stima dei rischi, tenendo in conto sia la salute che le motivazioni degli atleti, oltre che il desiderio del pubblico di godersi l’evento.

«Non puoi diventare un tifoso, perché se interrompi [il match] troppo tardi, il danno è già fatto», disse al New York Times il medico statunitense Nitin Kumar Sethi, neurologo della Weill Cornell Medicine a New York e membro del consiglio dell’Association of Ringside Physicians (ARP), un’organizzazione di medici di tutto il mondo impegnati nel settore del pugilato e delle MMA.

Nel 2019 Sethi fu medico di bordo ring in un atteso incontro di Ultimate Fighting Championship (UFC), la più importante organizzazione mondiale di MMA, tra Jorge Masvidal e Nate Diaz, all’epoca due dei più famosi combattenti in circolazione, al Madison Square Garden a New York. Fu sommerso dai fischi per aver suggerito l’interruzione del match all’inizio del quarto dei cinque round previsti, dopo aver verificato le condizioni di Diaz, che aveva un taglio molto profondo all’arcata sopracciliare destra. A parte quello, aveva la pelle della fronte distesa, che gli cadeva quasi sugli occhi, e sembrò a Sethi che avesse una grave commozione cerebrale.

Una delle opinioni condivise dai medici dell’Association of Ringside Physicians è che chi pratica gli sport da combattimento lo farebbe con o senza il coinvolgimento dei medici a bordo ring. «Sono d’accordo con il rischio a cui si stanno esponendo? No. Ma alla fine cerco solo di fare tutto il possibile per aiutarli», disse al New York Times Ed Amores, specialista in medicina d’urgenza del NewYork-Presbyterian Hospital. «Siamo medici del pronto soccorso, non avremmo niente da fare tutto il giorno se non fosse per il cattivo comportamento», aggiunse il suo collega e vicepresidente dell’ARP Louis Durkin, secondo il quale i medici a bordo ring sono come pneumologi che curano i fumatori, anche se disapprovano il fumo.

Oltre ai medici, che determinano se i combattenti sono idonei a salire sul ring e a rimanerci, a prendere una decisione sui limiti di danni consentiti durante un incontro ci sono gli arbitri. Sono spesso ex combattenti, allenatori o persone comunque pratiche della disciplina, e possono interrompere un incontro se pensano che un combattente sia troppo ferito per difendersi. È il principale criterio di valutazione anche per un medico di bordo ring, dice Marcantonio: «capire quando un atleta non è più in grado di difendersi da solo dai colpi o dalle tecniche dell’avversario».

Non è una valutazione semplice, aggiunge, perché capita a volte che un combattente che sta subendo pesantemente gli attacchi dell’avversario riesca in una frazione di secondo a trovare la forza fisica e la lucidità mentale per portare un contrattacco che gli permette di vincere l’incontro, come dimostra la storia degli sport da combattimento. L’altra difficoltà è data dalla necessità di valutare attentamente «i colpi che possono portare più danni a un atleta, soprattutto danni non visibili, come deficit o alterazioni di tipo neurologico», per cui è necessario saper leggere in ogni istante il linguaggio del corpo.

Un medico di bordo ring osserva da vicino negli occhi un pugile in piedi all'angolo

Il medico di bordo ring Kelly Frazier valuta le condizioni del pugile cubano Yordenis Ugas durante l’incontro per il titolo pesi welter WBC, IBF e WBA contro lo statunitense Errol Spence Jr., interrotto al decimo round, a Arlington, Texas, il 16 aprile 2022 (AP Photo/Jeffrey McWhorter)

Quasi sempre i medici a bordo ring sono due, dice Marcantonio, che era uno dei due in alcuni incontri organizzati a Milano da Bellator MMA negli ultimi anni: «quattro occhi sono meglio di due, e condividere la decisione di stoppare un incontro è più semplice». Marcantonio, che è responsabile dei medici di bordo ring della Fight Clinic, un gruppo di medici, infermieri e altri specialisti che si occupano della salute dei combattenti impegnati in manifestazioni sportive, fu nel 2018 il medico di bordo ring in un atteso incontro per il titolo dei pesi medi di Italian Fighting Championship tra Pietro Penini e Leon Aliu, al Palasport di Dolo, a Venezia. Fermò l’incontro al quarto dei cinque round previsti, per una profonda e vistosa ferita al volto di Penini, campione in carica, dalla fronte fino a oltre l’arcata sopracciliare.

«Ero l’unico medico dell’evento, ma non esitai nemmeno per un istante a prendere quella decisione», dice Marcantonio, che peraltro conosceva Penini e si dispiacque molto per lui. «Stoppai il match contro ovviamente la sua volontà e quella del suo angolo, non tanto per il sanguinamento, che in certi sport da combattimento non è un segnale d’allarme, ma per il tipo di danno che Penini stava subendo e che avrebbe potuto peggiorare coi colpi successivi».

Il coinvolgimento dei medici negli sport da combattimento è un tema controverso e ampiamente discusso. «La semplice presenza di un medico a un incontro di pugilato conferisce un’aria di legittimità a comportamenti che sono inaccettabili dal punto di vista medico ed etico», scrivono Leclerc ed Herrera. Ma in generale al lavoro dei medici e degli organismi di regolamentazione, aggiungono, è riconosciuto il merito di aver promosso riforme in grado di rendere storicamente più sicuri alcuni di quegli sport. Dal divieto dei colpi sotto la cintura nel pugilato, introdotto nel 1743, alla suddivisione dei combattenti per categorie di peso, alla limitazione del numero e della durata dei round.

Il tema dei caschetti protettivi è dibattuto da anni, segnala Marcantonio, e non è facile da affrontare, perché non è rara la possibilità di lesioni provocate dai materiali o dalle cuciture del casco durante l’impatto dei colpi sul volto, che possono concorrere alla lacerazione dei tessuti (a volte perché la protezione si è allentata, o si è spostata). Discorso che vale anche per alcuni tipi di guantoni, guantini o paratibie.

Dai Giochi di Rio del 2016 il caschetto protettivo non è più indossato alle Olimpiadi nel pugilato maschile, perché secondo il CIO e l’AIBA – il precedente nome della International Boxing Association (IBA), la federazione internazionale che organizza i mondiali di boxe – contribuisce a un maggiore rischio di commozioni cerebrali. Nel motivare la decisione, il CIO citò studi secondo cui l’imbottitura protettiva può causare ulteriori scossoni alla testa dei combattenti, dare loro un falso senso di sicurezza e rendere più difficile vedere arrivare i pugni. Le pugili continuano invece a indossarlo perché, secondo l’allora presidente dell’AIBA Wu Ching-Kuo, non ci sono sufficienti studi specifici che confermino gli stessi risultati sulle donne.

Secondo Marcantonio il tema delle riforme negli sport da combattimento è uno dei più importanti, non soltanto in ambito medico-sportivo, e richiede la partecipazione di specialisti di varie discipline. Da anni, dice, si parla di progettare equipaggiamenti tecnologicamente più avanzati, «per ridurre il rischio di lesioni gravi, soprattutto a livello cranio-encefalico». Un’altra proposta è l’introduzione di un limite del numero di colpi alla testa che un atleta può subire, o «la limitazione dell’uso di tecniche potenzialmente pericolose per questo distretto corporeo». E servirebbe «continuare a formare gli addetti ai lavori – giudici e arbitri, ma anche tecnici e allenatori – affinché possano intervenire prontamente anche loro, quando un incontro diventa troppo pericoloso per gli atleti».

In alcuni sport è stato proposto inoltre il divieto di colpire un avversario già a terra, decisione che probabilmente condizionerebbe molto il fascino delle MMA, portando all’abolizione di una delle tecniche più note (il ground and pound, la fase di lotta a terra in cui uno dei combattenti si trova sopra l’avversario). È stato infine proposto di potenziare il comparto medico e i controlli, in modo da renderli più frequenti e approfonditi sia prima che dopo gli incontri. E si è parlato dell’introduzione di limiti di età per partecipare alle competizioni professionistiche, sia «per limitare la durata della carriera agonistica degli atleti, prevenendo l’usura fisica e mentale, che per proteggere gli atleti più giovani».