Il ruolo della commissione Antimafia si sta un po’ perdendo
Sempre di più viene usata in maniera strumentale per gli scontri politici, o come una sorta di tribunale parallelo sui casi mediatici più clamorosi
Ormai da qualche tempo il ruolo della commissione Antimafia, un organo del parlamento che vigila e indaga su questioni che riguardano la criminalità organizzata, è un po’ cambiato: è sempre stata riconosciuta come la più antica e prestigiosa delle sei commissioni d’inchiesta attive in parlamento, ma capita ormai sempre più spesso che venga usata strumentalmente per ragioni politiche o comunque per accentuare gli scontri politici del momento. In una certa misura è un po’ inevitabile che la commissione sia esposta alle variazioni della politica, perché è composta da 25 deputati e 25 senatori e perché spesso deve occuparsi di temi che toccano la politica stessa. D’altra parte però il suo compito richiederebbe un certo rigore istituzionale e un’autorevolezza che nel tempo sta perdendo.
Un recente caso emblematico di come la commissione Antimafia tenda con sempre maggiore frequenza a mischiare questioni giuridiche delicate con polemiche politiche è quello dell’inchiesta sul presunto dossieraggio su cui sta indagando da più di un anno la procura di Perugia con a capo il magistrato Raffaele Cantone. È un’indagine in cui sono coinvolte almeno quindici persone e finora ha riguardato in particolare un sottufficiale della Guardia di Finanza, Pasquale Striano, e un ex sostituto procuratore della Direzione nazionale Antimafia, Antonio Laudati, accusati di accessi illeciti a banche dati riservate per cercare informazioni compromettenti su politici, imprenditori, personaggi dello spettacolo e dello sport.
La commissione Antimafia ha cominciato a occuparsene parallelamente dallo scorso marzo, e fin dall’attribuzione del caso c’era stato un cortocircuito politico: il ministro della Giustizia Carlo Nordio aveva detto che secondo lui era necessario istituire una nuova commissione d’inchiesta parlamentare sulla faccenda, e immediatamente la commissione Antimafia aveva rivendicato di avere competenza in materia e aveva fatto sapere di starsene già occupando. La competenza in realtà è un po’ indiretta: i reati ipotizzati nell’inchiesta infatti non hanno a che fare con la criminalità organizzata, ma la principale banca dati in cui erano stati fatti gli accessi abusivi era quella della Direzione nazionale antimafia, cioè l’organismo composto da 20 magistrati che coordina tutte le indagini sulla criminalità organizzata in Italia.
Da marzo poi la commissione ha iniziato un lungo ciclo di audizioni sul caso che di volta in volta hanno alimentato polemiche politiche: una particolarmente significativa era stata quella di Emiliano Fittipaldi, direttore del quotidiano Domani, convocato perché secondo le indagini alcuni cronisti del giornale avrebbero avuto una relazione di grande consuetudine con Pasquale Striano. Le oltre tre ore di audizione erano degenerate in un dibattito piuttosto accalorato, durante il quale alcuni esponenti del centrodestra avevano incalzato Fittipaldi con toni molto aggressivi, contestando perfino la linea editoriale del giornale.
L’ultimo sviluppo è stato a inizio settembre: Cantone aveva chiesto gli arresti domiciliari per Striano e Laudati e il giudice per le indagini preliminari non li aveva accordati. Il 2 settembre allora Cantone aveva diffuso un comunicato molto insolito, in cui ribadiva la necessità degli arresti domiciliari per i due indagati e soprattutto annunciava che avrebbe inviato tutti gli atti dell’indagine alla commissione Antimafia. Quella scelta aveva avuto l’effetto di far riprendere il dibattito dei partiti sul caso, dopo mesi in cui non se n’era parlato, e soprattutto aveva mostrato ancora una volta la tendenza a vedere la commissione Antimafia come una sorta di “tribunale parallelo” per i casi mediatici più clamorosi e su cui si vogliono suscitare reazioni politiche: non sembrava infatti necessario quell’annuncio enfatico sulla trasmissione degli atti, visto che la commissione si stava già occupando del caso da mesi.
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La commissione Antimafia – il cui nome completo, oggi, è “Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere” – è come detto la più rispettata delle commissioni d’inchiesta parlamentari ed è considerata ormai una commissione stabile pur non essendolo, nel senso che perché continui a esistere c’è bisogno che all’inizio di ogni legislatura il parlamento approvi una norma specifica per istituirla. Fu creata per la prima volta nel dicembre del 1962 e da allora è sempre stata in funzione tranne nel decennio 1973-1983, durante il quale si decise di non istituirla.
È una commissione d’inchiesta, e dunque, come previsto dall’articolo 82 della Costituzione, può appunto fare indagini «con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria»: come se fosse una procura, insomma. È fatta in modo da rispecchiare le proporzioni dei vari gruppi parlamentari (i partiti con più membri eletti nelle camere, quindi, nominano più rappresentanti), può chiedere atti ai tribunali o alle procure, può interrogare persone che si ritengono utili a fornire informazioni importanti, può fare ispezioni in giro per il paese, eccetera. Negli anni Sessanta riuscì a elevare il problema della mafia a materia di reale interesse per la politica, in un periodo in cui tanti esponenti delle istituzioni negavano perfino che il problema esistesse; negli anni Ottanta e Novanta, e un po’ ancora nei primi anni Duemila, i dibattiti svolti in commissione Antimafia furono utili a preparare l’ambiente per l’approvazione di norme più efficaci sul contrasto alla criminalità organizzata, o per migliorare quelle già esistenti.
Essendo un organismo parlamentare, l’attività della commissione Antimafia è sempre stata condizionata dalle strumentalizzazioni di parte e dalle polemiche del momento. Questa seconda dimensione però negli ultimi anni è diventata sempre più prevalente: così una commissione che dovrebbe avere sobrietà istituzionale, vista la delicatezza delle materie che tratta, è diventata una di quelle più chiassose.
Non è semplice dire quando sia iniziato questo cambiamento. Già nel maggio del 2015 la presidenza di Rosy Bindi fu segnata da una grossa polemica legata alla decisione di pubblicare, poco prima delle elezioni regionali, una lista dei cosiddetti candidati “impresentabili”, cioè candidati che non rispecchiavano dei canoni di presunta trasparenza rispetto a possibili legami con la mafia (sulla base di un “codice etico” precedentemente approvato). Poi durante la scorsa legislatura la presidenza di Nicola Morra del Movimento 5 Stelle fu ripetutamente caratterizzata da conflitti e scontri politici, in gran parte dovuti all’approccio estremamente spettacolare e propagandistico che Morra aveva adottato nel condurre i lavori della commissione: per costringere Morra a dimettersi minacciarono di disertare in blocco le riunioni non solo i componenti del centrodestra, ma anche quelli del Partito Democratico. Persino il suo stesso partito, da cui poi fu espulso, lo criticò nell’ottobre del 2020 per alcune prese di posizione contro il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, anche lui del Movimento 5 Stelle.
Al di là delle singole questioni che avevano generato le polemiche, la commissione aveva dato un’impressione generale di scadimento e delegittimazione, e vari partiti avevano chiesto in maniera trasversale che questo organo parlamentare tornasse ad avere un ruolo più istituzionale.
Anche la legislatura attualmente in corso però si era aperta con ulteriori polemiche: inizialmente erano legate alla scelta da parte di Fratelli d’Italia di indicare come presidente della commissione la deputata Chiara Colosimo, criticata per via di suoi presunti rapporti di vicinanza all’ex terrorista di estrema destra Luigi Ciavardini. Poi c’erano stati dibattiti sulla decisione del M5S di indicare come membri della commissione due ex importanti magistrati antimafia, il senatore Roberto Scarpinato e il deputato Federico Cafiero De Raho. Per il partito di Giuseppe Conte, le competenze e le conoscenze di Scarpinato e De Raho giustificano la loro presenza. Per i partiti di centrodestra e per Italia Viva, al contrario, il fatto che loro partecipino ad alcune sessioni di lavoro è assai inopportuno proprio per la loro esperienza passata.
Da procuratore generale a Caltanissetta e a Palermo, Scarpinato aveva condotto indagini sulla criminalità organizzata, ipotizzando peraltro l’esistenza di una trattativa tra l’organizzazione mafiosa Cosa Nostra e pezzi dello Stato italiano (rinominata “trattativa Stato-Mafia”): l’indagine in realtà non ebbe poi alcun esito concreto sul piano giudiziario. Siccome la commissione Antimafia sta, tra l’altro, indagando sulle stragi mafiose del 1992-1993, che erano ritenute uno snodo fondamentale di quella trattativa, il centrodestra contesta che Scarpinato prenda parte alle audizioni, che commenti e ponga domande alle persone ascoltate su materie su cui aveva già svolto inchieste da magistrato.
Analogamente, Cafiero De Raho è stato procuratore nazionale antimafia tra il 2017 e il 2022 (prima di candidarsi ed essere eletto alla Camera col M5S). Durante il periodo in cui guidò la Direzione nazionale antimafia ci furono gli accessi abusivi da parte del finanziere Pasquale Striano ora al centro dell’inchiesta di Perugia sul dossieraggio: anche in questo caso, dunque, il centrodestra segnala un possibile conflitto d’interessi, visto peraltro che De Raho non accetta di assentarsi dalla commissione durante le sessioni dedicate a quell’indagine.
Al di là di queste contestazioni, in più occasioni la commissione Antimafia è stata strumentalmente trascinata nelle polemiche politiche, in parte per responsabilità dei suoi stessi componenti. Nel novembre del 2023 per esempio il ministro della Difesa Guido Crosetto denunciò una sorta di complotto della magistratura contro il governo di Giorgia Meloni, dicendo di essere venuto a conoscenza di informazioni riservate. Si propose di riferire in commissione Antimafia o al COPASIR (il Comitato parlamentare che vigila sull’operato dei servizi segreti), cioè nelle uniche due commissioni che prevedono di poter segretare i loro lavori e di non divulgare i contenuti delle riunioni: alla fine però non se ne fece niente perché si capì che le informazioni di cui disponeva Crosetto non erano riservate ma pubbliche. Il presunto complotto infatti si basava sulle dichiarazioni fatte da un magistrato di Magistratura Democratica (una corrente di magistrati di sinistra) durante un convegno pubblico trasmesso integralmente da Radio Radicale.
Altri due casi recenti mostrano bene l’enfasi con cui la commissione si muove ogni volta che emerge un caso di rilevanza politica, proponendosi come una sorta di tribunale parallelo che lavora in concomitanza, se non in concorrenza, con le procure, e facendo perdere un po’ di vista la sua funzione più generale.
Più volte, poi, sono stati i componenti della commissione a esasperare la conflittualità politica al suo interno. È successo per esempio lo scorso marzo sul caso delle presunte infiltrazioni mafiose nell’amministrazione della città di Bari, governata dal sindaco del PD Antonio Decaro: in quell’occasione il deputato brindisino di Forza Italia Mauro D’Attis, vicepresidente della commissione e con una certa influenza nella politica pugliese, chiese che la commissione si occupasse immediatamente della faccenda per accertare la gravità dei fatti, dopo che lui stesso era andato insieme ad altri colleghi del centrodestra a sollecitare il ministro dell’Interno affinché sciogliesse il comune di Bari.
Il 7 maggio, poche ore dopo la diffusione della notizia dell’arresto dell’ex presidente della Liguria Giovanni Toti, la presidente della commissione Antimafia Chiara Colosimo diffuse un comunicato in cui annunciava di aver già chiesto alla procura di Genova che indagava sul caso i documenti e gli atti d’indagine, così da poter approfondire la faccenda su cui nel frattempo si era concentrata la grandissima parte delle attenzioni della politica.