Difficilmente il rapporto di Mario Draghi sull’economia europea avrà conseguenze concrete
Perlomeno nel breve termine, anche perché diversi governi sono piuttosto scettici sulle soluzioni proposte
Lunedì l’ex presidente della Banca Centrale Europea ed ex presidente del Consiglio italiano Mario Draghi ha presentato un atteso rapporto sulla crisi di competitività dei paesi dell’Unione Europea che gli era stato commissionato circa un anno fa dalla Commissione Europea. Il rapporto è subito stato celebrato e criticato da centinaia di persone che lavorano nelle istituzioni europee, com’è normale per un documento così lungo e articolato.
Su un aspetto in particolare però diversi osservatori ed esperti sembrano d’accordo: almeno per il momento non avrà conseguenze concrete, per diverse ragioni politiche e di contesto politico-economico in cui si trovano i paesi dell’Unione. Alcuni esperti ritengono che verrà «completamente ignorato», mentre anche i più possibilisti, come la redazione di opinionisti del Financial Times, notano che applicare concretamente le raccomandazioni di Draghi sarà «una vera sfida».
Il rapporto è lungo più di 400 pagine e in realtà contiene moltissime indicazioni – più di 170, è stato calcolato – che non riguardano solo la competitività ma più in generale il sistema economico europeo. In estrema sintesi propone di adottare un approccio europeo in vari settori che finora sono stati gestiti soprattutto dai governi nazionali seguendo logiche locali: la politica industriale, l’approvvigionamento di energia, la difesa, gli investimenti del settore pubblico e privato nell’innovazione.
In uno dei passaggi chiave dell’introduzione Draghi ha scritto che serve «un nuovo approccio nei confronti della collaborazione: nel rimuovere gli ostacoli, nell’armonizzare norme e leggi e nel coordinare le proprie politiche». Uno dei punti fondamentali sta nella necessità di non perdere tempo: «Ci sono diverse direzioni in cui possiamo andare. Ma quello che non possiamo permetterci di fare è rimanere fermi», si legge. Eppure sembra esattamente quello che succederà, almeno nel breve termine.
Un primo ostacolo alla realizzazione delle indicazioni del rapporto è di natura economica. Draghi stesso nel documento spiega che per rendere più efficiente e competitivo il sistema economico europeo servirebbero «investimenti enormi»: soltanto per «digitalizzare e decarbonizzare l’economia europea e per aumentare le capacità di difesa dell’Unione» servirebbe un aumento degli investimenti pubblici e privati almeno del 5 per cento del Prodotto Interno Lordo (PIL) dell’Unione, ogni anno. In uno dei passaggi più citati del rapporto Draghi ha fatto notare che gli investimenti previsti dal Piano Marshall, l’ingente piano di investimenti economici garantiti dagli Stati Uniti ad alcuni paesi europei dopo la Seconda guerra mondiale, valevano all’incirca l’1 o 2 per cento del PIL europeo.
Tornando a oggi, investimenti del genere si tradurrebbero in decine e decine di miliardi di euro all’anno, che peraltro gli stati nazionali dovrebbero girare all’Unione Europea. È uno scenario abbastanza impensabile, al momento: alcune delle trattative più lunghe e complesse in ambito europeo avvengono quando i governi sono costretti ad aumentare il bilancio pluriennale dell’Unione Europea, che viene concordato ogni sette anni, con dei versamenti imprevisti. Per esempio prima della pandemia di Covid-19, quando erano in corso le trattative per stabilire il bilancio pluriennale valido fra il 2021 e il 2027, i governi europei non erano riusciti a trovare un accordo su un aumento del bilancio di pochi miliardi di euro spalmati su sette anni.
«Trovare i soldi è sempre complicato, trovare i soldi da mettere in comune è sempre complicato, e prendere in prestito questi soldi indebitandosi tutti insieme è ancora più complicato», ha detto l’economista Guntram Wolff a Radio Schuman, il podcast giornaliero di Euronews sugli affari europei. Il rapporto auspica la creazione di nuovi strumenti per emettere titoli di stato dell’Unione Europea e recuperare denaro sui mercati finanziari: in sostanza, per creare un debito comune europeo.
È più o meno quello che è avvenuto con il Next Generation EU, il fondo europeo straordinario da 750 miliardi di euro che fu approvato durante la pandemia per contrastare la conseguente crisi economica. A distanza di quattro anni però questo meccanismo non è riuscito a imporsi come un modello da imitare, soprattutto a causa dello scetticismo di diversi paesi dalla tradizione economica molto conservatrice. Poche ore dopo la diffusione del rapporto di Draghi il ministro dell’Economia tedesco Christian Lindner ha detto a Politico che la Germania «non accetterà» una nuova emissione di debito comune, come quella che servì per finanziare il Next Generation EU.
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Più in generale diversi stati nazionali sono restii a cedere pezzi della propria sovranità all’Unione Europea, peraltro in settori dove quest’ultima ha sempre avuto poche o nessuna competenza, come la difesa e la politica industriale. «Riguardo le raccomandazioni più radicali non vedo una particolare disponibilità degli stati membri ad affrontare la realtà concreta delle difficoltà che hanno davanti», ha detto al Wall Street Journal Fabian Zuleeg, capo del think tank European Policy Centre.
Alcuni punti del rapporto sono molto critici con l’approccio tradizionalmente adottato dall’Unione Europea su varie questioni. Un passaggio specifico, per esempio, raccomanda di favorire le fusioni di società europee nel settore delle telecomunicazioni: operazioni simili sono sempre state osteggiate dall’Unione a causa di convinzioni economiche ormai superate, che immaginavano un ruolo economico per l’Unione limitato a far rispettare la concorrenza a livello europeo e soprattutto a evitare monopoli. Anche per questo oggi non esistono molte aziende europee in grado di competere con quelle statunitensi e cinesi in vari importanti settori economici.
In generale, l’approccio criticato da Draghi è ancora piuttosto presente a vari livelli delle istituzioni europee, fra funzionari di Commissione e Parlamento, e quindi superarlo a breve sarà difficile. Draghi peraltro non ha nessun ruolo formale all’interno della Commissione Europea, che pure gli aveva commissionato il rapporto, né è affiliato ad alcun partito politico europeo: in altre parole non avrà nessuno che nei prossimi mesi o anni si spenderà per rendere concrete le sue indicazioni.
Per questo almeno per il momento le conseguenze del rapporto appaiono soprattutto intangibili, di stimolo intellettuale: parlando con Radio Schuman Wolff ha descritto le raccomandazioni di Draghi come un «punto di riferimento che aiuterà a inquadrare meglio il dibattito».