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  • Martedì 10 settembre 2024

Karl Hess, una vita di rifiuto di ogni verità

La racconta Mattia Ferraresi nel suo nuovo libro su “un'epoca in cui non si ha fiducia in niente ma si crede a tutto“

Karl Hess
Karl Hess nel 1964 (George Tames/The New York Times)
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Mattia Ferraresi, giornalista del quotidiano Domani e collaboratore di diverse testate statunitensi, ha pubblicato per Mondadori un libro dedicato alla tendenza contemporanea a costruire “verità alternative” e a credere alle tesi più irragionevoli per diffidenza nei confronti delle verità più condivise o scientificamente dimostrate. Il libro si chiama I demoni della mente (sottotitolo Il racconto di un’epoca in cui non si ha fiducia in niente ma si crede a tutto) e raccoglie in una serie di capitoli storie e informazioni che legano dietrologie, complottismi, culture che portano la diffidenza dal potere a conclusioni deliranti.

Oltre ai meccanismi psicologici che incentivano queste inclinazioni: «la ricerca di ciò che sta “dietro” a ogni cosa ha anche il pregio di far sentire molto intelligente chi la pratica. Chi si accontenta del davanti è, nel migliore dei casi, un ingenuo, un credulone, ma più propriamente è un individuo manipolato dal potere, l’ignaro complice di un sistema che gli ha lavato il cervello con le più bieche menzogne su qualunque argomento, rendendolo incapace di vedere il disegno nascosto. Al contrario, chi osserva il mondo con la retroilluminazione vede come stanno davvero le cose, e questo genera un senso di superiorità che agisce come una sostanza eccitante. Deve essere assunta in dosi sempre crescenti per fare effetto. Che la via d’accesso alla “vera” conoscenza sia conosciuta soltanto da una selezionata minoranza di persone è importante per rafforzare la consapevolezza di essere parte di un piccolo popolo eletto che vive sotto l’assedio delle terribili forze autoritarie del mondo. Non va mai dimenticato che il vincitore incontrastato della nostra epoca è la vittima».

Il terzo capitolo del libro racconta l’eccezionale e illuminante storia di Karl Hess, che «ha attraversato tutte le possibili forme della paranoia politica, dal complottismo anticomunista all’anarcocapitalismo fino all’abbraccio con la sinistra radicale e l’ambientalismo dell’autosufficienza».

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Quando sul finire degli anni Sessanta l’Internal Revenue Service, l’agenzia delle entrate degli Stati Uniti, ha intimato a Karl Hess con una lettera ultimativa di saldare i conti che aveva in sospeso con lo Stato, lui ha risposto con un rifiuto altrettanto definitivo. In coscienza, non poteva riconoscere con il pagamento delle tasse un governo «colpevole di tutte le prevaricazioni, gli abusi e negazioni che la Dichiarazione di Indipendenza indica come intollerabili» (panarchy.org). Hess annunciava pertanto il suo proposito di non versare più nemmeno un dollaro al fisco. Alla risposta ha allegato una copia della Dichiarazione di Indipendenza, il documento con cui i padri fondatori si sono liberati dalle vessazioni, dalle imposizioni arbitrarie e dalle gabelle predatorie della Corona britannica, tanto per chiarire il concetto. I funzionari dell’IRS, che avevano le idee chiarissime anche senza allegati, hanno spiegato al renitente cosa sarebbe accaduto a breve: la confisca di tutti i suoi beni. Proprietà, risparmi, titoli, guadagni presenti e futuri. Tutto quello che poteva essere attribuito a lui sarebbe stato pignorato, fino all’ultimo centesimo.

Lo scambio epistolare si era fatto appassionante. Hess ha chiesto che cosa avrebbe fatto l’agenzia se si fosse dedicato a un’economia di sussistenza, scambiando il proprio lavoro con altri beni. Avevano la risposta anche per questo: «Se ti daranno delle rape per il tuo lavoro, noi prenderemo le rape» («The New York Times»). È iniziata così una decennale battaglia di resistenza fiscale per protestare contro lo Stato autoritario che impone il suo giogo agli individui. Hess ha lavorato come saldatore, scrittore e insegnante, ottenendo in cambio cibo, beni materiali, servizi vari e occasionalmente anche denaro contante che poteva spendere senza avere un conto in banca. Non ha mai pagato le tasse fino alla sua morte, nel 1994, ma ogni anno ha puntualmente presentato la dichiarazione dei redditi, spesso sovrastimando i guadagni che dichiarava, «altrimenti non sarebbe resistenza fiscale, ma soltanto una frode» («The New York Times»).

Hess era certo che l’IRS si fosse messo d’impegno a ficcare il naso nei suoi contributi, ed eventualmente anche nelle sue rape, per ragioni politiche. Era stato lo speechwriter e uno dei più fidati consiglieri di Barry Goldwater, senatore dell’Arizona nella parte più estrema dello spettro conservatore, che in modo imprevisto si era aggiudicato la nomination repubblicana nelle primarie del 1964. Era Hess che aveva scritto il discorso di accettazione della candidatura poi passato alla storia perché sintetizzava bene il suo carattere: «L’estremismo in difesa della libertà non è un vizio; la moderazione nella ricerca della giustizia non è una virtù». Ritorneremo presto sulle vicende di questo personaggio.

Il favorito nel partito, Nelson Rockefeller, aveva sprecato tutto il suo vantaggio buttandosi in uno spregiudicato secondo matrimonio che non era piaciuto per niente al suo morigeratissimo elettorato, e così Goldwater, candidato riluttante convinto dall’insistenza di uno zelante comitato elettorale che lo aveva sostenuto dal basso, era diventato il conservatore più votato.

La sconfitta alle elezioni era scritta. Nessuno avrebbe potuto vincere contro Lyndon Johnson, che era diventato presidente dopo la somma tragedia dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy e aveva condotto un Paese traumatizzato alla conquista dei diritti civili. Goldwater ha perso rovinosamente, ma ha piantato il seme di un nuovo movimento conservatore, fatto di toni accesi, posizioni isolazioniste, ossessione per l’ordine sociale e venature populiste più affini alle deliranti invettive del senatore Joseph McCarthy che alla rassicurante retorica dell’unità nazionale di Dwight Eisenhower. Tutto questo avrebbe dato i suoi frutti politici più tardi. Nella memoria della destra americana quella vicenda si è affermata come un «disastro glorioso», per citare il titolo di un libro diventato famoso in quei circoli (John William Middendorf II, A Glorious Disaster: Barry Goldwater’s Presidential Campaign and the Origins of the Conservative Movement). Quando nel 1980 Ronald Reagan è stato eletto alla Casa Bianca, il giornalista repubblicano George Will ha scritto che Goldwater aveva vinto, ma c’erano voluti sedici anni per contare i voti.

Il fenomeno Goldwater ha ispirato al grande politologo Richard Hofstadter una riflessione, poi diventata un saggio fondamentale (The Paranoid Style in American Politics, 1964), sullo stile paranoico della politica americana. Lo stile paranoico è, in sintesi, la convinzione che ci sia un’enorme, invisibile e sinistra macchinazione che influenza gli eventi del mondo con l’obiettivo di distruggere un certo modo di vivere.
Il termine «paranoico» non è da intendere in senso clinico, ma come qualifica di un certo atteggiamento verso la realtà. Il paranoico vede una trama occulta che spiega gli eventi della realtà sulla base di un assunto: c’è una forza che muove ogni cosa. Questa forza è scaltra e organizzatissima, dispone le circostanze senza lasciare traccia.
La paranoia come elemento trainante della dialettica politica americana non caratterizzava soltanto quel periodo: era visibile nel messianesimo delle sette protestanti, nei sentimenti dei nativisti anticattolici, nel movimento reazionario contro la massoneria, nei deliri contro i gesuiti, gli Illuminati della Baviera e i restauratori della casata asburgica, nelle sproporzionate paure anticomuniste, naturalmente nei mai sopiti istinti antisemiti, ma anche nelle frange più estreme dell’abolizionismo e nelle pieghe dell’attivismo marxista.

Il popolo sovreccitato di Goldwater era un epifenomeno di qualcosa di molto più vasto, e facilmente Hofstadter avrebbe riconosciuto in Donald Trump il catalizzatore di un’altra potente ondata di paranoia nella politica americana. Hofstadter sapeva benissimo, come tutti del resto, che nella storia delle relazioni umane e della politica i complotti esistono. L’amministrazione del potere richiede pianificazione strategica degli eventi, alleanze fra fazioni basate sulla convergenza di interessi, e impone un certo grado di segretezza per portare a termine piani congegnati con cura. La storia è punteggiata di congiure e colpi di mano, ammetterne l’esistenza non significa avere ceduto allo stile paranoico. Chi vi aderisce pensa invece che un gigantesco complotto globale sia la «forza motrice» di tutti gli eventi. La storia stessa è un grande complotto «messo in moto da forze demoniache di potenza quasi trascendente,» scrive Hofstadter «e ciò che appare necessario per distruggerlo non sono i soliti metodi propri della politica, ma una crociata totale» (Hofstadter, The Paranoid Style in American Politics and Other Essays, 1965, p. 29). Stile paranoico non significa cogliere qui e là delle macchinazioni, ma è una mentalità, un modo di guardare il mondo, un filtro con cui rappresentare la storia. Dominato dai sospetti e animato da un modo dietrologico di rapportarsi con ciò che ha davanti a sé, il paranoico sviluppa l’acuta consapevolezza che in ogni istante si stia consumando la fase decisiva di una fatale battaglia fra la libertà e le forze demoniache che non cessano mai di macchinare. Il suo destino non è la rassegnazione a un’inevitabile sconfitta, ma l’azione militante per sventare la congiura.
Samuel Morse, l’inventore del telegrafo, invitava i suoi seguaci con infuocati pamphlet a ribellarsi al piano di dominazione sugli Stati Uniti che il papa aveva affidato all’Austria di Metternich e alle sue spie gesuite; il senatore McCarthy ha cambiato il volto del dibattito americano con le sue invettive anticomuniste; il futuro fondatore della John Birch Society, Robert Welch, spiegava ai suoi adepti, con un misto di terrore e libido da invasato, che Stalin avrebbe ordinato l’attacco finale agli Stati Uniti nel 1951. O in alternativa l’anno successivo, probabilmente in ottobre. La violenza politica abbonda nella storia americana, ma era oltre l’immaginazione di Hofstadter l’idea di un presidente che spinge la folla inferocita all’assalto del Congresso per impedire che sia certificata la vittoria elettorale del suo avversario. E la paranoia raggiunge livelli inusitati quando l’autore di tutto questo, sopravvissuto a due impeachment e passato attraverso varie incriminazioni per un ampio ventaglio di reati, sbaraglia gli avversari del suo partito senza nemmeno doversi abbassare a dibattere con loro in televisione e si afferma come sfidante alle elezioni successive.

Si tratta di manifestazioni dello stile paranoico nelle sue forme più macroscopiche ed evidenti. È lo stile paranoico portato alle sue estreme conseguenze.

Ma la paranoia politica emerge un passo prima che tutto precipiti nel complotto. Per incontrarla non c’è bisogno di arrivare alle scie chimiche, ai microchip impiantati sottopelle, all’allunaggio inscenato a Hollywood, agli attacchi dell’11 settembre organizzati dal governo americano, curandosi di avvertire prima gli ebrei che lavoravano al World Trade Center. È l’anticamera di queste teorie, il sentimento diffuso che irrora il terreno in cui eventualmente attecchiranno ciò che conta. Ciò ci riporta a Karl Hess e alla sua donchisciottesca resistenza fiscale.

La traiettoria di questo placido e incredibilmente tenace consigliere di Goldwater ha attraversato tutte le possibili forme della paranoia politica, dal complottismo anticomunista all’anarcocapitalismo fino all’abbraccio con la sinistra radicale e l’ambientalismo dell’autosufficienza. Le varie fasi erano unite dalla chiara consapevolezza che c’è all’opera un potere organizzato e pervasivo che lavora per schiacciare l’individuo e la sua libertà. La crociata di Hess contro le tasse non è altro che la lotta contro il mostro dello Stato che sottrae in modo indebito le risorse ai cittadini per finanziare i suoi luridi progetti e rendere le persone sempre più dipendenti dalla macchina pubblica.

Hess è stato animatore della cosiddetta «vecchia destra» e poi della «nuova sinistra», è stato un intellettuale militante della Guerra Fredda, anticomunista viscerale che ha poi riversato il suo disprezzo verso il centralismo burocratico sul governo americano e sul complesso militare-industriale denunciato da Eisenhower; è stato il fedele scudiero dell’ultraconservatore Goldwater, ma non l’ha presa bene quando ha capito che il senatore, avendo accettato di giocare con le regole della politica, doveva prendere ordini da Nixon, considerato dall’ala destra del partito un liberale sotto mentite spoglie. Hess è stato inoltre il profeta di una grande campagna contro la leva militare obbligatoria (che, ironia della storia, è stata abolita proprio da Nixon), ha marciato nelle proteste della sinistra contro la guerra in Vietnam ed è diventato un devoto del circolo libertario di Murray Rothbard, dove si coltivavano paranoie sull’invadenza dello Stato che andavano avanti almeno dal 1913, anno fatale in cui è stato introdotto il sedicesimo emendamento alla Costituzione, che sancisce il diritto dello Stato federale di tassare i redditi. Fino a quel momento, il governo centrale si era finanziato soltanto raccogliendo imposte sui beni.

Leggendo i testi di Emma Goldman, Hess si è avvicinato all’universo dell’anarchia, si è unito alla sinistra radicale degli Students for a Democratic Society, è stato un militante dell’Internazionale dei lavoratori, compagno di strada delle Pantere Nere e si è infine iscritto al Partito libertario, che considerava il luogo ideale per difendere i suoi due principi fondamentali: l’opposizione all’autorità politica centrale e la preoccupazione per le persone in quanto individui.

Dopo le attenzioni degli esattori si è dedicato al baratto e ha imparato a saldare il metallo per aggiustare la sua moto. Ha scoperto che il lavoro artigianale dava soddisfazione e poteva essere facilmente scambiato con altri prodotti e servizi. Una volta ha costruito un essiccatore in metallo per una famiglia di vicini, ottenendo in cambio una fornitura annuale di baccalà. Non ha smesso di pubblicare articoli e libri, ma il suo navigare nell’economia informale dopo che i suoi beni erano stati di fatto espropriati lo ha messo in contatto con un’America umile e popolare, convincendolo che la strada per la resistenza all’autorità passava per il ritiro in piccole comunità autosufficienti, alimentate da energie rinnovabili e al massimo grado indipendenti dai vincoli centralizzati della rete. Nel suo girovagare e sperimentare si è infatuato anche dei seguaci della appropriate technology, il movimento legato alla rivista «Whole Earth Catalog» (1968-1998) di Stewart Brand, la bibbia di Steve Jobs e di generazioni di tecnoutopisti alla ricerca di se stessi.

Hess è stato fervente cattolico e ateo militante, conservatore e avanguardista del progresso, anticomunista e radicale di sinistra, intellettuale incendiario e teorico del survivalism, profeta delle microcomunità rurali e improbabile candidato al governo della West Virginia. È stato giustamente considerato un precursore sia del Tea Party sia del movimento contro l’1 per cento che durante la Grande Recessione ha dato origine all’ondata di Occupy Wall Street.

«Si può dire che ho commesso tutti gli errori politici che si potevano commettere,» ha detto in un’intervista (Toward Liberty, reperibile su YouTube) «ma ce n’è uno che non ho commesso: non sono mai stato un liberale.» Hess identificava il liberalismo con la dipendenza degli individui da un’autorità opprimente: quella dello Stato per i liberali di sinistra, quella delle grandi corporation per i liberali di destra.

Aveva coltivato l’avversione per le istituzioni fin dall’infanzia. La madre, che lo aveva cresciuto da sola in circostanze modeste a Washington, non si fidava della scuola e aveva preferito dargli un’educazione informale, basata sulle esperienze più che sullo studio delle materie tradizionali. Per evitare di incorrere nei funzionari addetti a far rispettare l’obbligo scolastico, lo aveva iscritto a tutti gli istituti della città, comunicando poi nel corso dell’anno il ritiro del figlio da una scuola dopo l’altra. Complicato rintracciare le negligenze di uno studente tanto zelante.

Questa vena anarchica e arci-americana, votata all’ideale dell’autosufficienza e all’assoluta autodeterminazione di un individuo che può realizzarsi soltanto nella radicale opposizione al potere, si muove sul crinale della paranoia politica. Tutto ciò che cade al di fuori del perimetro dell’io individuale è inevitabilmente complice di un’autorità che ha come scopo soggiogare e controllare.

Nella visione anarcoide di Hess ogni figura a tutela dell’ordine è l’ingranaggio di una gigantesca macchina che controlla ogni cosa. L’agenzia delle entrate, la scuola pubblica, le banche centrali, l’esercito, l’anagrafe, la polizia, la camera di commercio, le banche, il sistema sanitario, l’università, gli ordini professionali: tutto è parte di un sistema che tende all’annientamento dell’individuo. Quello che il potere concede è una sensazione illusoria di libertà. Per descriverla, Hess usa l’immagine del palloncino in una fabbrica di spilli. «Abbiamo l’illusione della libertà perché soltanto pochi provano davvero a esercitarla. Provateci una volta. Provate ad aprire una piccola impresa senza una licenza, o a coltivare cereali senza le quote, o a educare i figli nel modo che volete, oppure a non avere figli. Tutti abbiamo la libertà di un palloncino che vola in una fabbrica di spilli» ha dichiarato in un’intervista dove racconta il suo viaggio dall’estrema destra all’estrema sinistra (From Far Right to Far Left, in «The New York Times Magazine», 1970). Da questa visione all’articolazione di sofisticatissimi complotti il passo è breve.

Nella mappa politica e psicologica di Hess si trovano tutte le premesse dello stile paranoico. Nella concezione del mondo e della società come intelaiature di oppressioni e poteri si realizzano le condizioni per il passaggio a successivi stadi di delirio complottista. Il complotto è una scintilla, ma deve incontrare del combustibile per produrre un grande incendio. Nella versione della destra americana degli anni Sessanta analizzata da Hofstadter, la cospirazione non punta il dito verso le solite potenze straniere – la Corona britannica, l’Unione Sovietica, la Chiesa cattolica, gli Illuminati, la massoneria europea e così via – ma per la prima volta colloca la minaccia all’interno degli Stati Uniti: la paranoia viene così amplificata e arricchita dal senso di tradimento di un progetto originariamente buono, ispirato alla salvaguardia dell’individuo e sancito in modo solenne da una Dichiarazione di Indipendenza. Poi tutto si è corrotto. Le virtù si sono guastate, i principi sono stati abbandonati e il mondo si è tragicamente rovesciato agli occhi di chi propala questa «versione secolarizzata e demoniaca dell’avventismo» (Hofstadter, The Paranoid Style in American Politics and Other Essays, 1965, p. 30), come la chiama Hofstadter.

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La copertina del libro di Mattia Ferraresi