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  • Martedì 10 settembre 2024

Come se la cava Kamala Harris con i dibattiti?

A inizio carriera era considerata una grande oratrice, poi è diventata troppo prudente e poco efficace: stanotte dovrà confrontarsi con Donald Trump

Kamala Harris al dibattito vicepresidenziale con Mike Pence, nell'ottobre del 2020 (AP Photo/Julio Cortez)
Kamala Harris al dibattito vicepresidenziale con Mike Pence, nell'ottobre del 2020 (AP Photo/Julio Cortez)
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Martedì sera a Philadelphia Kamala Harris e Donald Trump parteciperanno al primo e al momento unico dibattito televisivo previsto in vista delle elezioni presidenziali statunitensi del 5 novembre. Andrà in onda sulla rete televisiva ABC e inizierà alle 21, quando in Italia saranno le 3 del mattino di mercoledì. È un confronto particolarmente atteso: i sondaggi indicano una situazione di sostanziale parità fra i due candidati e l’ultimo dibattito, quello che si è svolto a giugno tra Joe Biden e Trump, aveva avuto conseguenze enormi e determinato di fatto la fine della candidatura di Biden.

Sarà il primo dibattito presidenziale per Harris (e il settimo per Trump), che però non è nuova a eventi di questo tipo: negli anni è stata candidata a molti incarichi elettivi, sia giudiziari (come procuratrice di San Francisco e poi della California) che politici, e le varie campagne elettorali le hanno dato modo di accumulare esperienza e sviluppare un’oratoria aggressiva, efficace soprattutto nei confronti “uno contro uno”. Nei dibattiti passati ha mostrato anche alcune debolezze, risultando in alcuni casi troppo prudente o in difficoltà nel dare risposte concise e chiare, soprattutto per spiegare le sue politiche.

Nelle settimane successive all’ufficializzazione della sua candidatura la popolarità di Harris nei sondaggi era cresciuta molto, ma dalla seconda metà di agosto l’aumento dei consensi si è fermato, o perlomeno ha rallentato. Il dibattito di martedì è un’occasione per farsi nuovamente notare: a giugno il confronto fra Biden e Trump ebbe 51 milioni di telespettatori, ma quello di oggi potrebbe avvicinarsi al record storico del primo dibattito fra Trump e Hillary Clinton, nel 2016, che fu guardato da 84 milioni di spettatori.

Kamala Harris e Mike Pence (AP Photo/Julio Cortez)

L’ultimo dibattito di Harris è quello che fece con Mike Pence nel 2020, durante la pandemia di Covid-19. I due candidati alla vicepresidenza erano divisi da un plexiglass per evitare i rischi di contagio, e non fu una serata memorabile. Le prestazioni di entrambi furono considerate deludenti, poco incisive ed evasive nel rispondere alle domande. Harris ebbe un solo momento notevole: Pence la interruppe alcune volte, e dopo una di queste lei disse in modo risoluto: «Signor vicepresidente, sto parlando» («I’m speaking»). Pence abbozzò, e quella frase fu vista da alcuni commentatori come un’efficace rivendicazione di fronte al cosiddetto “mansplaining” dell’avversario, l’atteggiamento paternalistico di alcuni uomini  che vogliono continuamente “spiegare cose” alle donne.

Le interruzioni non dovrebbero essere possibili nel dibattito di martedì sera, dato che i microfoni di un candidato saranno spenti durante il turno di parola dell’avversario. La regola era stata inizialmente voluta da Biden, per evitare che Trump lo incalzasse; ora invece Harris avrebbe preferito fossero aperti, per riproporre una dialettica serrata e indurre Trump a dire cose inappropriate e attaccabili. Sono state confermate anche le altre condizioni del dibattito di giugno: il confronto durerà 90 minuti, ci saranno due pause pubblicitarie, non ci sarà pubblico e i candidati non potranno portare appunti.

– Leggi anche: Le cose da sapere sul dibattito tra Kamala Harris e Donald Trump

Negli anni Harris ha dato prova di saper reagire in modo efficace e immediato agli errori retorici degli avversari, anche grazie all’esperienza accumulata negli anni da procuratrice. Dan Morain, ex responsabile delle pagine di opinione del Sacramento Bee e autore di una biografia della vicepresidente, ha detto al Washington Post: «Sa come entrare in relazione con le giurie, e qui le giurie sono gli elettori».

Nel 2016 Harris era candidata per un seggio al Senato e la sua avversaria alle primarie era Loretta Sanchez: durante un dibattito, l’avversaria chiuse un suo intervento con la mossa della “dab dance”, allora piuttosto popolare, con l’intento forse di fare una cosa simpatica, ma decisamente fuori contesto. Harris lasciò passare alcuni secondi di silenzio, fece una faccia perplessa serrando le labbra e alzando le sopracciglia, e commentò: «Decisamente c’è una grande differenza fra le due candidate». Vinse con 23 punti percentuali di distacco.

Sei anni prima aveva vinto le elezioni per la carica di procuratrice generale della California (negli Stati Uniti molti ruoli giudiziari sono elettivi, e per ottenerli i candidati fanno una vera e propria campagna elettorale). Harris partiva sfavorita, ma riuscì a sfruttare abilmente un disastro comunicativo del suo avversario. Durante un dibattito il procuratore in carica Steve Cooley rivendicò la volontà di non rinunciare a una precedente pensione e di volerla aggiungere all’eventuale retribuzione da procuratore generale, che definì insufficiente: «Mi sono meritato quei soldi», disse. In quel modo Cooley avrebbe guadagnato più di 400mila dollari all’anno. Anche qui Harris non rispose subito, ma dopo qualche secondo di silenzio disse: «Vai avanti Steve, te lo sei meritato», accompagnando tutto con la sua risata. Nelle settimane successive la campagna si concentrò principalmente su quel tema, molto dibattuto tra l’opinione pubblica, e la strategia risultò vincente per Harris.

Altre volte i passaggi decisivi furono meno istintivi e più preparati. Nel 2003, in una delle sue prime apparizioni pubbliche, Harris era candidata a procuratrice distrettuale e intanto aveva una relazione con Willie Brown, un potente politico californiano. Quando durante il dibattito le chiesero conto di quel rapporto, lei si alzò, si avvicinò agli altri due candidati e ricordò come uno avesse detto dell’altro che era un «padre assente» e come l’altro lo avesse attaccato per essere stato trovato in un centro massaggi. Disse che lei voleva fare una campagna diversa, non sugli attacchi personali, ma sulle questioni reali. Quella difesa molto aggressiva e teatrale fu notata e ampiamente raccontata: Harris vinse anche quelle elezioni.

Per il dibattito presidenziale sia Harris che Trump si stanno preparando da settimane. Harris ha fatto delle simulazioni in un hotel di Pittsburgh, in Pennsylvania, in cui è stato riprodotto lo studio televisivo: un suo collaboratore impersonava Donald Trump, cercando di riprodurne la retorica e l’atteggiamento. Sebbene simulazioni di questo tipo siano diventate la norma negli ultimi decenni, Trump continua a dire di non farle, limitandosi a sessioni di confronto con i suoi collaboratori. Alla preparazione di questo dibattito per i Repubblicani sta contribuendo anche Tulsi Gabbard, che nel 2020 si era candidata alle primarie del Partito Democratico ma è poi diventata una sostenitrice di Trump. Nelle primarie di sei anni fa Gabbard attaccò molto Harris, anche lei candidata e inizialmente considerata tra i favoriti, definendola una «ipocrita» per il suo tentativo di dipingersi come candidata “di sinistra” nonostante fosse stata una procuratrice molto rigida.

Harris di fatto non rispose, non contrattaccò e mostrò di trovarsi in una posizione in cui non sembrava a suo agio: in quel momento il partito Democratico si stava spostando su posizioni più radicali e lei cercò di adeguarsi, provando anche a far dimenticare il suo passato da procuratrice, che oggi invece considera un punto di forza. In tutta la campagna elettorale, che finì presto, Harris si mostrò incapace di proporre una candidatura efficace e si fece conoscere come una politica senza opinioni forti ma pronta a sposare le cause che i sondaggi indicavano come popolari. È la stessa cosa su cui i Repubblicani la attaccano oggi e ci si aspetta che Trump nel dibattito la incalzi molto sul suo aver cambiato spesso idea, anche su questioni centrali come l’immigrazione e le politiche economiche.

Elizabeth Warren e Kamala Harris nel 2019 (Win McNamee/Getty Images)

Nella campagna delle primarie del 2020 si fece notare solo quando attaccò Biden sul tema del razzismo. Dopo aver esordito con «non penso che lei sia razzista», ricordò che negli anni Settanta Biden si era opposto al cosiddetto busing, uno dei modi usati dal governo per mettere fine alla segregazione razziale, mescolando gli studenti di etnie diverse, che venivano trasportati in autobus in scuole fuori dal loro quartiere (così un bambino afroamericano che altrimenti si sarebbe ritrovato in una scuola di soli afroamericani finiva per frequentarne una anche con bianchi). Harris ha raccontato che «c’era una bambina in California che faceva parte del programma per favorire l’integrazione dei neri nelle scuole pubbliche e ogni giorno veniva portata a scuola in autobus. E quella bambina ero io».

Oggi Harris tende a evitare i temi legati alla sua identità di donna e di persona non bianca. Dovrà invece difendere le politiche dell’amministrazione Biden ma al tempo stesso mostrarsi come un elemento di novità e di discontinuità. Vari esponenti del partito Democratico hanno detto che Harris è molto cresciuta negli ultimi anni e sarà maggiormente a suo agio in un confronto diretto con Trump, che intende impostare come quello di una ex procuratrice contro un condannato in un processo penale.