Pollo coltivato, ostriche in vitro e magiche polpette
«Avevo tredici o quattordici anni quando smisi di mangiare carne e uova. Ho meditato a lungo sui possibili motivi della mia repulsione e oggi trovo plausibile che la causa scatenante sia stato l’odore di carne cruda della macelleria in cui andavo con mia nonna. Anche Erik van Loo, lo chef del Bistro in vitro, il ristorante di Amsterdam che ha un menu basato sulla carne coltivata, racconta di un macellaio: suo padre»
Qualche mese fa, volendo avvicinarmi più velocemente al futuro, ho fatto delle ricerche sulla carne coltivata in laboratorio (o “sintetica” come si dice erroneamente). Quando ho trovato il ristorante Bistro in vitro di Amsterdam, mi è venuta l’idea di prenotare un tavolo sul sito web e regalare un biglietto aereo al mio compagno. Il menù ha l’aria di una galleria d’arte: friendly foie gras, in vitro oysters, ravioli of cultured chicken, magic meatballs e un bel pig in the garden. L’ho letto studiandone forme e colori, sicura che fosse un’occasione straordinaria e che per me quella sarebbe stata una sorta di Mecca.
Avevo tredici o quattordici anni quando smisi di mangiare carne e uova. Ho meditato a lungo sui possibili motivi della mia repulsione e oggi trovo plausibile che la causa scatenante sia stato l’odore di carne cruda della macelleria in cui andavo con mia nonna. Se il profumo delle madeleine aveva portato Marcel Proust a riscoprire il tempo perduto, qualche giorno fa per caso la mia memoria olfattiva mi ha restituito di nuovo quel puzzo ed è subito riemerso lo sguardo del macellaio che, quando non lavorava, se ne stava fuori dal locale a scrutare minaccioso chiunque passasse per via Roma. I suoi occhi erano grandi, così grandi che sarebbero caduti dalle orbite se non fosse stato per le borse che li contenevano. Le sue mani, poi, erano diventate rosse a furia di maneggiare la carne cruda.
Anche Erik van Loo, lo chef del Bistro in vitro di cui leggo l’esperienza sulla homepage del ristorante, racconta di un macellaio: suo padre. Mai stato favorevole ad ammazzare gli animali, Van Loo si dichiara entusiasta all’idea di ridisegnare le proprie specialità gastronomiche grazie alle nuove possibilità offerte dalla tecnologia. Penso al fatto che molto spazio della memoria olfattiva e visiva di ognuno di noi sia occupata da macellai e carcasse appese ai ganci.
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È certamente a causa di uno sfasamento dovuto alle bizze dei ricordi, se mi è capitato più volte di collocare visivamente nella macelleria della mia infanzia il Bue macellato dipinto da Rembrandt nel 1655 ad Amsterdam, la stessa città del Bistro in vitro. L’opera sembra aver immensamente affascinato il pittore bielorusso Chaïm Soutine, che nel 1925, una volta trasferitosi a Parigi, dipinse il Bue scuoiato. Pare anche che, per dipingere la carcassa, Soutine abbia chiesto di averne una nel suo studio e che, di tanto in tanto, ci gettasse sopra del sangue fresco proveniente da una macelleria vicina. Disgusto o attrazione per la carne quella di Soutine?
Mi farebbe comodo usare la carcassa di Soutine per dare una direzione al mio racconto, ma non posso farlo. Non ho informazioni né sul suo regime alimentare né su cosa pensasse della dieta carnivora. Bisogna spostarsi in un altro ordine di idee e associazioni. C’è un saggio, You for Death, Me for Chaim: The Carcasses of Chaim Soutine, in cui l’autore O. E. Hashmonay sostiene che la fascinazione dell’artista per le carcasse debba essere letta tenendo presente l’idea di assimilazione, specialmente in rapporto con il suo status di emigrato ebreo a Parigi. Le carcasse rimanderebbero alla sua condizione di straniero, di uomo privato della polpa identitaria (così almeno ho cercato di spiegarmi la tesi del saggio, ma non sono sicura di aver ben capito).
A dare qualche indizio in questa direzione è lo stesso Soutine quando racconta della sua infanzia in una famiglia ultra-ortodossa. Le uniche volte in cui lui e i suoi dieci fratelli potevano permettersi di mangiare carne erano le festività come la vigilia dello Yom Kippur, durante la quale si svolgeva il rito dello shlugn kapures in cui i peccati venivano trasferiti simbolicamente su un pollo: ogni persona diceva una preghiera mentre brandiva l’animale sulla propria testa (un gallo per l’uomo, una gallina per la donna). Alla fine della preghiera, si puntava il dito verso l’animale e si diceva per tre volte: «You for death, me for life».
«Il pollo era il nostro capro espiatorio», dice Soutine. «Poi, se eri ricco, potevi ucciderlo, cucinarlo e mangiarlo prima del digiuno». Allo scrittore ungherese Emil Szittya, Soutine ha anche raccontato di quando vide il macellaio del paese tagliare il collo di un pollo e far colare fuori tutti i liquidi: «Avrei voluto gridare, ma la sua smorfia di piacere mi ha soffocato l’urlo in gola. Questo grido, continuo a sentirlo qui in gola. Quando ho dipinto le carcasse di bue, era quell’urlo che volevo liberare. Non mi è ancora riuscito». Sembra che il rapporto di Soutine con il cibo sia stato anche marchiato dall’abitudine del padre, ricordato come un parassita ingordo e «il dodicesimo figlio» da sfamare, di rubargli il cibo dal piatto. Ecco allora, sostiene l’autore del saggio, che quando dipinge gli animali macellati, Soutine diviene non solo creatore ma anche macellaio, nel triplo estremo tentativo di liberare il suo urlo interiore, di vendicarsi del padre e, infine, di ricoprire una posizione di potere.
Dopo il 1933, forse per il sentore dell’imminente mattanza nazista o forse perché semplicemente stufo di vestire i panni del padre e del macellaio, Soutine smette di dipingere carcasse e di paragonare il proprio destino a quello di un animale in attesa della macellazione. Sente la vulnerabilità degli animali vicina alla propria vulnerabilità fisica e politica, da straniero, il cui diritto a esistere è nelle mani di altri carnefici. Si sente indifeso.
A ripensarci, «indifeso» è la parola che aveva usato mia madre quando, a cinquant’anni, era diventata vegetariana: «Basta guardarli negli occhi. E gli occhi di una mucca o di un maiale non sono diversi da quelli di un gatto». Forse potrei prenotare anche per lei al Bistrot in vitro.
Un altro pittore che aveva un rapporto complicato con la carne è Francis Bacon, che era figlio di un allevatore e addestratore di cavalli. Quando entro in una macelleria, mi meraviglio sempre di non essere appeso lì, al posto di quell’animale, diceva. Di nuovo si pone la questione se la pietà per gli animali macellati implichi una trasformazione nella maniera di concepire le abitudini alimentari, di rapportarsi con il proprio nutrimento quotidiano. È superfluo chiedersi che tipo di alimentazione avesse Francis Bacon?
Se si volesse scomodare Gilles Deleuze, il quale tocca il tema da un altro punto di vista, potremmo citare da Logica della sensazione:
«La carne macellata è senza alcun dubbio l’oggetto eminente della pietà di Bacon, il suo unico oggetto di pietà. La carne macellata non è carne morta, essa ha conservato tutte le sofferenze e ha preso su di sé tutti i colori della carne viva. Tanto dolore convulso e vulnerabilità, ma anche affascinante invenzione, colore e acrobazia. Bacon non dice “pietà per le bestie”, ma ogni uomo che soffre è carne macellata».
Sembra che la pietà provata per la bestia sia possibile solo perché anche l’uomo può soffrire al pari di una bestia. Siamo lontani dal provare pietà per la bestia in quanto essere vivente capace di una propria sofferenza. Ma «che cos’è la sofferenza?» si chiede Jonathan Safran Foer in Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?
«Che cos’è la sofferenza? La domanda presuppone un soggetto della sofferenza. Qualunque obiezione seria all’idea che gli animali soffrono tende a riconoscere che “provano dolore” a un certo livello, ma nega loro il tipo di esistenza – il mondo mentale ed emotivo o “soggettività” – che renderebbe questa sofferenza significativamente analoga alla nostra. Ritengo che questa obiezione vada a colpire qualcosa che è molto vivo e reale per molti, vale a dire l’idea che la sofferenza degli animali è di ordine diverso e per questo non è davvero importante (anche se disdicevole)».
Molti sostengono che tra un centinaio di anni, forse meno, il genere umano passerà a una dieta vegetariana e che a quel punto l’idea di macellare animali sarà reputata folle, retrograda, primitiva. Se oggi siamo ancora capaci di comprare carne dai banchi del supermercato è perché quella carne viene pensata come cibo, non come carne. Nonostante si continui a usare quella parola, nel momento in cui immaginiamo il nostro pranzo o la nostra cena, eludiamo l’immagine della carne macellata o dei polli ammassati nei camion o dello spazio minuscolo in cui sono costretti a vivere gli animali negli allevamenti.
La scrittrice americana Carol J. Adams ne scrive in La costruzione sociale dei corpi commestibili e degli umani come predatori:
«Noi interagiamo con singoli animali quotidianamente nel momento in cui li mangiamo. Ciò nonostante, questa relazione e le sue implicazioni sono ricollocate in modo che gli animali scompaiano».
In un altro lavoro intitolato The Sexual Politics of Meat Adams chiama questo processo concettuale in cui l’animale scompare «la struttura del referente assente». Affinché esista la carne gli animali di nome e di fatto vengono resi assenti in quanto animali. Il referente assente ci permette di dimenticarci dell’animale in quanto entità a sé stante. L’arrosto nel piatto è smembrato a partire dal maiale o dalla scrofa che una volta era. Se gli animali sono vivi non possono essere carne.
Guardando il documentario Food for Profit e leggendo del recente ritrovamento del cortometraggio La morte del maiale, che Bernardo Bertolucci girò quando aveva quindici anni e che si credeva perduto, mi sono ricordata degli urli disperati che nel mese di dicembre, da bambina, sentivo provenire dalle case vicine, dove il maiale veniva ucciso con il coltello, senza essere prima tramortito (ora, mi dicono, gli si spara e poi lo si pugnala per fare uscire il sangue. C’è persino una pagina su wikiHow intitolata Come macellare un maiale, con immagini).
Secondo Adams, l’idea che la carne sia un alimento essenziale e una fonte proteica insostituibile è uno dei tanti i pregiudizi e delle lacune informative di cui è vittima, soprattutto, chi è cresciuto durante gli anni del boom economico, nel periodo cioè in cui carne e latticini sono stati consacrati come gruppi di cibi fondamentali e necessari per la sopravvivenza umana, anche in seguito all’azione lobbistica dell’industria della carne e del latte. «L’idea che mangiare carne sia naturale si sviluppa in tale contesto. L’ideologia – conclude Adams – fa sembrare naturale e predestinato ciò che è artificiale».
Forse nel futuro prossimo useremo lo stesso meccanismo, la stessa capacità di reputare naturale ciò che è artificiale, per accettare le possibilità offerte dalla carne coltivata in laboratorio (se proprio dobbiamo ritenere scontato che ci sarà sempre qualcuno ad aver bisogno del sapore e della consistenza della carne). La possibilità che in futuro si possa evitare di far del male agli animali è per me rassicurante, ma in Italia abbiamo già messo le mani avanti contro questa mostruosità che potrebbe intaccare non solo gli interessi dei produttori ma, soprattutto, l’immagine dell’italiano carnivoro.
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Nel novembre scorso il parlamento italiano, primo in Europa, ha approvato un disegno di legge per vietare la produzione e la vendita di carne coltivata e altri cibi creati in laboratorio. Non solo. È stato anche introdotto il divieto della denominazione di “carne” per prodotti contenenti proteine vegetali. «Con questo governo mai cibi sintetici sulle tavole degli italiani», ha assicurato su Instagram il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida.
La Fondazione Veronesi, che dal 2003 si occupa di promuovere e divulgare la ricerca scientifica, è insensibile alle paure del governo e di Coldiretti. In un articolo pubblicato sul suo sito prima che il divieto venisse approvato, la Fondazione contesta le ragioni scientifiche del provvedimento a partire dal lessico usato: nel linguaggio comune «viene impropriamente utilizzata la definizione “carne sintetica” che tende a snaturare la vera origine di questa carne. Per sintetico, infatti, si intende qualcosa che è risultato da una sintesi che avviene al di fuori di un organismo vivente. […] La carne coltivata è un tipo di carne prodotta in laboratorio a partire da cellule animali. […] Attualmente la carne coltivata è un prodotto che nasce a partire da cellule animali che vengono prelevate tramite una biopsia e fatte crescere su un terreno, una soluzione, ricco di nutrienti».
Nello stesso articolo la Fondazione nega anche che il divieto possa essere stato giustificato dalla volontà di tutelare la salute dei consumatori, come assicurato dal ministro: «Dal punto di vista della sicurezza alimentare, il consumo di carne coltivata non rappresenta un rischio per la salute umana» poiché, crescendo in un ambiente controllato, non viene imbottita di antibiotici ed è meno esposta alle malattie animali. Gli aspetti controversi potrebbero essere due: l’elevato costo e un problema di ordine etico. Infatti, a oggi, per produrla viene utilizzato «il siero fetale bovino, sottoprodotto dell’industria della carne, come ingrediente fondamentale del terreno di coltura per le cellule», anche se si stanno sviluppando «alternative che prevedono l’utilizzo di prodotti vegetali».
C’è poi la questione del minor impatto ambientale e umano: gli allevamenti intensivi sono responsabili della maggior parte delle emissioni di gas serra e, come scrive Jeremy Rifkin in Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne, i poveri muoiono di fame perché una parte considerevole di cereali viene utilizzata come mangime per rendere la carne bovina più grassa e gradita ai cittadini delle nazioni ricche. Sarebbero tutte ragioni per incentivare la ricerca e la produzione di carne “sintetica”, invece oggi per mangiarla bisogna andare a Singapore, dove si può comprare dal maggio di quest’anno, come racconta un articolo di Sui-Lee Wee pubblicato dal New York Times. È una data che entrerà negli annali gastronomici, forse nella storia dell’umanità. Il resto del mondo, però, va molto più lentamente. Se l’Italia è il primo e unico paese ad avere espressamente vietato la produzione e la vendita, l’Unione europea è ancora impegnata a discutere come regolamentare ricerca e consumo, e la carne si può assaggiare solo per motivi di studio e in occasioni specifiche. Allora mi chiedo come sia possibile che il ristorante Bistro in vitro offra carne coltivata se in Europa non è ancora possibile venderla.
E infatti, arrivata al momento di prenotare, ho scoperto che Bistro in vitro è un ristorante fittizio, anche se il sito web è realizzato come se il locale avesse già aperto i battenti. Il progetto, per gli ideatori, è propedeutico alla cultura della carne in vitro, «fantascienza sul futuro della carne», lo definiscono. Il suo scopo è indurre a riflettere sull’etica, sull’estetica e sulle possibilità della carne coltivata in laboratorio, in modo da avviare una discussione su una cultura culinaria alternativa. Nella mente dei consumatori, si legge nel sito in cui si trovano rimandi a saggi e approfondimenti, la carne coltivata è considerata inferiore perché artificiale e tecnologica. Ma che cosa ha di naturale la produzione attuale di carne?
Sono su un bel prato vicino a una piscina. Con me ho gli occhialini per nuotare e La vegetariana di Han Kang. A qualche metro di distanza, su un telo a pois, due ragazzi fanno uno spuntino con carne di maiale essiccata, contenuta in una di quelle bustine gialle prêt-à-porter con una grafica niente male: si vede un maialino con sembianze umane, seduto in poltrona, che indossa basco, papillon e un orologio da polso. Dopo aver ripescato l’involucro dal cestino dei rifiuti, leggo che le fettine sottili sono state affumicate con legno di faggio per ventiquattro ore per ottenere «la dolcezza tipica della carne di maiale ben bilanciata dal salato e affumicato, che si sente ma non è invasivo».
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