Cronache di un dolore cronico
«Oggi lo conosco perfettamente. Eppure continua a sembrarmi quasi impossibile da descrivere. Posso solo cercare delle analogie. È come se qualcuno ti tenesse premuto uno spillo, senza però farlo penetrare nella carne. È come se un animaletto avesse morso quel punto del fianco destro e si fosse dimenticato di mollare la presa. Il dolore era lì sempre: a prescindere dall’ora della giornata, dalla posizione, dall’antidolorifico. Leggi un libro, e il dolore è lì. Mangi qualcosa, e il dolore è lì. Fissi il soffitto prima di addormentarti, e il dolore è sempre lì. Fu il periodo peggiore della mia vita. Uso il passato perché poi, effettivamente, qualcosa sarebbe cambiato»
Ricordo esattamente dov’ero, quando la sentii per la prima volta. Stavo camminando su un marciapiede in via Simone Saint Bon, nella periferia ovest di Milano. Erano le 11 di mattino del 13 luglio 2020, un lunedì. Stavo andando a fare un’ecografia alla pancia per una fitta che da qualche giorno sentivo poco sotto all’ombelico. La mia medica di famiglia sospettava che fosse causata da un calcolo: ho sempre bevuto poco, quell’estate faceva caldissimo e nei giorni precedenti evidentemente avevo bevuto ancora meno del solito. Mi feci fare una prescrizione, prenotai al volo l’ecografia in un ospedale privato – tre giorni dopo sarei dovuto partire per un trekking – e stavo camminando sul marciapiede di fronte all’ospedale, dopo avere parcheggiato la macchina, quando la sentii.
Il bordo superiore dei pantaloni corti, quello duro e rinforzato di stoffa, dove si infila cintura, aveva sfregato contro un angolo di pelle sul fianco destro, all’altezza dell’anca, diventato improvvisamente sensibilissimo. Il contatto mi provocò una sensazione che prima di allora non avevo mai provato. Oggi la conosco perfettamente. Eppure continua a sembrarmi quasi impossibile da descrivere. Posso solo cercare delle analogie. È come se qualcuno ti puntasse addosso uno spillo e lo tenesse premuto, senza però farlo penetrare nella carne. È come se su quel pezzo di pelle fosse appoggiata una lamina di metallo incandescente. È come se un animaletto avesse allargato le fauci, morso quel punto del fianco destro, e si fosse dimenticato di mollare la presa. In qualsiasi momento. Il dolore era lì sempre: a prescindere dall’ora della giornata, dalla posizione in cui ti siedi, dall’antidolorifico o antinfiammatorio che scegli di mandare giù (ne ho provati parecchi, nessuno dei quali ha funzionato). Leggi un libro, e il dolore è lì. Mangi qualcosa, e il dolore è lì. Fissi il soffitto prima di addormentarti, sdraiato a letto, e il dolore è sempre lì. Fu il periodo peggiore della mia vita: dopo un po’ mi sembrava di stare così da sempre. Uso il passato perché poi, effettivamente, qualcosa sarebbe cambiato. Allora però non lo sapevo, e soprattutto non lo vedevo all’orizzonte. All’orizzonte non vedevo niente, in quel periodo: solo un prolungato, ininterrotto, stolido dolore.
Qualche mese dopo avrei saputo che avevo appena iniziato a convivere con un dolore neuropatico. In quei giorni avevo effettivamente sviluppato dei piccoli calcoli, chiamati “renella”: pezzetti di materia solida e scura, grandi quanto dei granelli di sabbia, che i miei reni non erano riusciti a smaltire per via della carenza di acqua. Ricordo che mi ritrovai a osservarli trionfante sul fondo del water. Per la maggior parte delle persone la renella passa così, senza ulteriori conseguenze. Nel mio caso il percorso di quei granelli dai reni all’uretra aveva evidentemente sollecitato il fascio di nervi che passa sotto la punta dell’anca destra. Uno spuntone di osso che sentiamo anche al tatto, in cima all’avvallamento che porta all’inguine. È una zona che i neurologi, senza molta fantasia, chiamano L1. I miei nervi evidentemente si erano infiammati al passaggio dei granelli scuri, ma non avevano recepito il messaggio che tutto doveva tornare come prima (credo di avere fatto inorridire qualsiasi medico o medica arrivata fin qui).
Nel frattempo la mia vita era cambiata. Non riuscivo più a indossare una cintura: ogni tre o quattro passi dovevo sistemarmi i pantaloni per evitare che cadessero. Le rare volte che riuscivo a guidare mi slacciavo la patta, sperando che le persone nelle altre auto non se ne accorgessero. Dormivo nudo, dalla pancia in giù. Smisi di fare sport. Non è che il dolore mi impedisse qualche movimento. Semplicemente era sempre lì. Anche leggere un libro o concentrarsi a lungo era diventato difficile. Mi distraevo un po’, poi tornavo a pensare al dolore. Una delle cose in assoluto più complicate da spiegare, per chi non ha mai provato niente del genere, è la quantità di spazio mentale che una sensazione del genere occupa nella testa. Tutti i giorni, ogni giorno, ogni ora.
Da fuori, naturalmente, nessuno poteva accorgersi di nulla. Non avevo gessi, fasciature, non zoppicavo. Non avevo perso chili, la mia faccia non aveva assunto un colorito diverso. Per gli altri ero lo stesso di sempre. Per me era cambiato tutto, tanto che cominciai a separare le cose che mi erano successe prima da quelle che mi erano capitate dopo.
La fase più spaventosa passò relativamente in fretta. Tutti i medici che mi hanno visitato hanno escluso malattie più gravi. Il picco del terrore l’avevo raggiunto poco prima di fare una TAC, quando un’infermiera mi chiese se avevo un tumore. «Non che io sappia», risposi, sdraiato sul macchinario e paralizzato dalla paura. L’esito della TAC e di tutti gli altri esami fu negativo. Quelle settimane, paradossalmente, mi lasciarono effettivamente qualcosa di bello e duraturo. Durante una delle tante notti insonni mi resi conto che se fossi morto a breve avrei rimpianto più di tutte le moltissime cose che volevo fare insieme alla mia fidanzata, la mia persona preferita al mondo. Ci sposammo un anno dopo. Il dolore era ancora lì.
Dopo aver realizzato che non ero in pericolo di vita, mi resi conto che ero finito in una condizione che gli americani definiscono con l’espressione between the cracks. In mezzo a tutto il resto. Non soffrivo di una malattia grave, per fortuna, o di una condizione particolarmente invalidante; non ero neppure sano. La definizione medico-sanitaria che si avvicina di più a quello che stavo provando è quella di “dolore cronico”. Si chiama così, per convenzione, ogni dolore fisico che persiste per più di tre mesi in una o più parti del corpo. Scoprii anche di non essere il solo: anzi.
Nel 2023 l’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato il primo studio completo sul dolore cronico in Italia. Secondo un accuratissimo sondaggio svolto nel 2019, in Italia ci sono quasi 10,5 milioni di persone che soffrono di un dolore cronico, il 24,1 per cento della popolazione adulta. Ne soffrono circa l’8 per cento delle persone di età compresa fra 18 e 34 anni, una percentuale variabile fra il 20 e il 35 per cento degli adulti-adulti, e più del 50 per cento delle persone che hanno più di 85 anni. In tutte le fasce di età tranne la prima, a soffrirne più spesso sono sempre le donne.
Circa tre persone su quattro che soffrono di dolore cronico vivono una vita non facile: il 75,2 per cento degli intervistati dallo studio riporta un dolore “moderato” o “forte”. Una piccola ma non risibile percentuale di persone parla di dolore “molto forte”. Le cause sono le più disparate: un trauma, i postumi di intervento chirurgico, un tumore (ovviamente), il lascito di una malattia. Il 51 per cento delle persone intervistate non segue nessun trattamento, o prende dei farmaci solo quando il dolore si fa insopportabile. A distanza di una ricerca su Google, esistono molti altri studi simili su diversi altri paesi occidentali.
Lo studio dell’Istituto Superiore di Sanità si concentra anche sulle conseguenze psichiche e sociali causate dal dolore cronico. Chi ne soffre ha una probabilità più alta di sviluppare sintomi depressivi e ansia. Gli indici di vitalità, definiti nello studio come «il livello di energia e affaticamento nelle quattro settimane precedenti l’intervista», hanno mostrato una differenza di circa 20 punti percentuali fra gli intervistati che soffrivano di dolore cronico e persone che ne erano prive. Il report ovviamente parla anche di difficoltà nelle relazioni sociali e sul lavoro, oltre che di presa in carico da parte del sistema sanitario nazionale. Nello studio si parla di un’assenza di “cultura della cura del dolore”, che per questo motivo spesso viene «sottovalutato e sottotrattato», lasciando molte persone «orfane di cura».
Per quel che vale, anche la mia esperienza si inserisce in questo contesto. Ho imparato a conoscere lo sguardo dei medici a cui mi sono rivolto, mentre raccontavo loro cos’era successo e cosa provavo. Nei loro occhi leggevo confusione, spaesamento e un po’ di scetticismo. Nella prima e unica visita al pronto soccorso aspettai circa 12 ore per essere visitato, dopo avere detto a un infermiere al triage che su una scala da 0 a 10 il dolore che provavo era da 7. Mi rimandarono a casa teorizzando che il dolore fosse dovuto a una cattiva digestione. Una prima visita neurologica in un ospedale pubblico certificò che effettivamente avevo un problema neuropatico. In un ospedale milanese rinomato per il suo reparto di neurologia, a cui mi rivolsi subito dopo, il medico che mi visitò mise in dubbio il fatto che stessi così male: in fondo ero riuscito a indossare dei pantaloni (ricordo ancora l’imbarazzo quando gli precisai che non avevo la cintura). «Prima o poi passerà», mi disse il primario di urologia di un altro rinomato ospedale milanese, mentre fissava lo schermo e batteva svogliatamente i tasti di una tastiera. Avevo appena pagato 250 euro per una visita intramoenia.
Quello stesso primario mi consigliò di rivolgermi a un osteopata. Ero più che dubbioso, ma decisi di fare un tentativo. Ne trovai uno che sembrava serio e professionale. Dopo qualche seduta non feci alcun miglioramento. Lo mollai dopo che una volta mi appoggiò una campana sul fianco e si mise a suonarla. Un altro specialista mi riempì di integratori ma soprattutto mi prescrisse l’anafranil, un farmaco antidepressivo a base di clomipramina. Lo presi per qualche tempo a piccole dosi, spaventato dalle potenziali conseguenze sul lavoro. Non migliorai. In compenso ogni volta che lo prendevo mi veniva una sonnolenza micidiale. Alle 19, dopo essere tornato a casa dal lavoro, per recuperare le forze dovevo dormire almeno un’ora. Un altro medico buttò lì la possibilità di assumere regolarmente degli oppioidi, che in alcuni casi vengono effettivamente prescritti per le neuropatie più gravi. Non me la sentii.
Nel frattempo continuavo a stare sempre peggio. Guardavo le persone al supermercato, fantasticavo su cosa facevano nella vita e mi chiedevo se fossi stato disposto a fare cambio con loro, pur di stare bene. Un altro gioco che ho fatto spesso, nella mia testa: arriva Dio e ti dice, «guarirai dal dolore ma ti romperai entrambe le braccia/dovrai pagare 30mila euro/farai un casino irreparabile al lavoro. Accetti?». Mi chiedevo cosa avrei dato perché per un giorno, un giorno solo, il dolore si fosse spostato, per esempio, sul gomito sinistro.
A volte mi accusavo semplicemente di essere un ingrato. Intorno a me c’erano milioni di persone a cui restavano giorni o settimane di vita – eravamo nel picco della pandemia del COVID – o comunque in condizioni enormemente peggiori della mia. Io, dopotutto, potevo alzarmi dal letto, camminare fino alla fermata dell’autobus, scendere in piazza Duomo, ordinare un gelato, gustarlo passeggiando fino al castello, e tornare indietro. Per tantissime persone ciascuna di queste tappe rimaneva un miraggio. A volte questi ragionamenti mi davano l’impressione di rimettere tutto nella giusta prospettiva. Altre volte, servivano a poco.
Nessuno sembrava capire esattamente cosa provassi. La descrizione più simile a quello che mi stava succedendo l’ha descritta il comunicatore Dino Amenduni in alcuni post su Medium. Anche alcuni occasionali articoli sul dolore cronico mi confermavano che non ero solo, dopotutto.
Poi, all’improvviso, qualcosa cambiò. Trovai l’ennesimo specialista confuso e spaesato, che però a differenza di altri mi suggerì di provare dei cerotti alla lidocaina, un potente anestetico. Per la prima volta da quando sul marciapiede di via Saint Bon sentii quel dolore, circa due anni prima, avevo trovato un rimedio per attenuarlo. I cerotti alla lidocaina non sono comodissimi né perfetti: bisogna cambiarli ogni 12 ore, e nelle giornate “no” riescono solo in parte a contenere il dolore. Inoltre sono pur sempre degli oggetti a contatto con un pezzo di pelle che sarebbe un eufemismo definire ipersensibile: lo senti, quando ne hai uno addosso.
Dopo mesi a indossare i cerotti alla lidocaina ogni giorno, mi accorsi che a volte riuscivo anche a farne a meno. Prima per qualche ora, poi per qualche giorno. A volte addirittura per qualche settimana. Fu un periodo strano: alternavo giorni interi quasi senza dolore a settimane di ricadute lancinanti. Non nutrivo più alcuna speranza di migliorare davvero, anche solo per evitare che venisse frustrata. Eppure successe. Iniziai a capire che potevo indossare soltanto alcuni tipi di mutande, e solo alcuni fra i pantaloni che possedevo. Imparai a riconoscere i primissimi sintomi di una nuova infiammazione: cambiavo immediatamente mutande, pantaloni o posizione in cui ero seduto. Quasi senza accorgermene, i giorni senza indossare i cerotti diventarono molti di più di quelli con. Un giorno ero in trasferta per lavoro e mi ritrovai a pensare: sono guarito?
Mi risposi di no, per eccesso di prudenza. Eppure non indossai un cerotto per circa un anno, e rimasi attentissimo a ogni vestito che compravo, a ogni posizione che assumevo, anche distrattamente. Il dolore non tornava. Sentivo che il fianco non era più lo stesso – era come se avesse una temperatura e una sensibilità diversa rispetto a ogni altro pezzo di pelle – ma non provavo niente che si potesse descrivere come dolore o fastidio. L’assenza di dolore ha coinciso con l’anno e mezzo più gratificante e forse entusiasmante della mia vita: enormi soddisfazioni sul lavoro, una nuova casa, viaggi in giro per il mondo. Qualche settimana fa su Instagram mi è passato davanti un video nostalgico rivolto a noi quasi quarantenni. «Festivalbar del 2002. Eri felice e non lo sapevi». Pensai: sono felice e so di saperlo.
Qualche giorno dopo mi misi sul letto a lavorare, in una posizione leggermente diversa dalla solita, con la testa più incassata. Mi ero dimenticato di togliermi i pantaloncini di tuta grigi che avevo indossato per buttare la spazzatura. Senza pensarci, avevo anche allacciato il cordino. Una cosa che non faccio praticamente mai, per cautela. Rimasi in quella posizione 45 minuti, forse un’ora, assorto nella lettura di un documento importante. Quando mi alzai dal letto, lo sentii. Identico a come si era manifestato quattro anni prima. Molto più intenso rispetto alle ultime volte in cui lo avevo percepito, più di un anno prima.
E adesso? Non ho una risposta, solo le domande di sempre.