La morte di un detenuto di 18 anni in un incendio a San Vittore, a Milano
Si chiamava Youssef Mokhtar Loka Barsom, aveva accertate fragilità psicologiche ed era in custodia cautelare in una delle carceri più sovraffollate d'Italia
Nella notte tra giovedì e venerdì, nel carcere di San Vittore di Milano, un detenuto di 18 anni è morto per via di un incendio che si era sviluppato nella cella che condivideva con un altro detenuto. Non è chiaro cosa sia successo esattamente e sono in corso accertamenti: l’Uilpa, sindacato della Polizia penitenziaria che ha dato la notizia della sua morte, ritiene probabile che l’incendio sia stato appiccato dagli stessi detenuti, come successo in altre occasioni. Dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane, la cui situazione è critica sia per il sovraffollamento che più in generale per le condizioni detentive, si sono suicidati 70 detenuti e 7 agenti di Polizia penitenziaria.
Il carcere di San Vittore è uno dei più sovraffollati d’Italia, con un tasso di sovraffollamento di oltre il 200 per cento, un alto numero di suicidi e spazi limitati e spesso fatiscenti: il detenuto, che si chiamava Youssef Mokhtar Loka Barsom, aveva compiuto 18 anni da pochi mesi e aveva evidenti e accertate fragilità psichiche. Era in carcere da fine luglio, quando era stato arrestato con l’accusa di rapina dopo essere scappato da una comunità terapeutica in cui era stato inserito dopo mesi di attesa. Come molti altri era in custodia cautelare: non aveva cioè ancora affrontato il processo con cui eventualmente, se ritenuto colpevole, sarebbe stato condannato.
Barsom era nato in Egitto il 5 febbraio del 2006. Era conosciuto e seguito dai servizi sociali da tre anni: era arrivato in Italia come minore straniero non accompagnato dopo un percorso migratorio lungo e difficile, in cui era passato per la Libia e tra le altre cose era stato assoldato dai trafficanti di esseri umani.
Luigi Grigis, delegato dell’Unione Sindacale di Base, che conosceva il ragazzo e si era occupato di lui come assistente sociale, ha detto che le fragilità psicologiche e psichiatriche di Barsom lo portavano ad attraversare in modo altalenante livelli di malessere molto forti, con momenti di totale sconforto in cui era poco lucido e aveva comportamenti rischiosi prima di tutto per se stesso: «è assurdo che persone come lui finiscano in carceri come San Vittore, gravemente sovraffollate e neanche minimamente attrezzate per gestire livelli di fragilità come i suoi: i problemi di Youssef erano stati accertati da una perizia fatta fare dopo l’udienza preliminare», dice Grigis.
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Barsom avrebbe dovuto essere inserito da tempo in una comunità terapeutica, date le sue condizioni: ma sia le comunità che i posti sono troppo pochi, le liste d’attesa molto lunghe, e nel frattempo chi dovrebbe entrarci resta fuori, con maggiori possibilità di delinquere, o farsi del male: «la situazione delle comunità terapeutiche in Italia, così come di quelle educative, è tragica», dice Grigis. Barsom, per esempio, era stato inserito nella comunità terapeutica in cui si trovava poco prima di essere arrestato solo dopo mesi di attesa, in cui nel frattempo aveva continuato a frequentare altri minori stranieri non accompagnati, ugualmente abbandonati a se stessi dato che c’è anche una grave carenza di assistenti sociali per seguirli.
«Inizialmente Youssef aveva avuto un momento di ripresa, in cui si faceva seguire dai servizi sociali e svolgeva varie attività: è scappato dalla comunità in uno dei suoi momenti di fragilità e agitazione», dice Grigis, secondo cui le condizioni psichiche come quelle di Barsom richiederebbero «il massimo dell’attenzione, della disponibilità immediata di luoghi in cui saperla gestire», e sicuramente non la custodia cautelare in un carcere come San Vittore.
Barsom si trovava lì perché al momento del presunto reato aveva appena compiuto 18 anni, ma l’inserimento dei neo-maggiorenni in carceri per adulti è un tema molto problematico e discusso da chi lavora nel settore. La legge prevede che per reati compiuti durante la minore età si possa restare nelle carceri minorili – dove la qualità delle condizioni detentive è generalmente migliore delle carceri per adulti – anche fino ai 25 anni. Spesso però le direzioni delle carceri minorili (tra cui quella del Cesare Beccaria di Milano, dove era stato anche Barsom) una volta compiuti i 18 anni trasferiscono i detenuti nelle carceri per adulti: questo comporta l’interruzione di eventuali percorsi e attività per il reinserimento attivati nelle carceri minorili.