Farsi riconoscere un titolo di studio estero in Italia è un’impresa
La burocrazia è così lenta, complessa e costosa che c'è anche chi ci rinuncia
di Alessandra Pellegrini De Luca
È molto complicato, per chi abbia studiato all’estero e decida di tornare in Italia, ottenere il riconoscimento del titolo di studio e quindi poterlo utilizzare per lavorare. La procedura per il riconoscimento è lunga, farraginosa e molto costosa, con vari problemi burocratici e di inefficienza delle istituzioni che se ne occupano: c’è chi ha desistito dal chiedere il riconoscimento, e chi dopo anni di studi anche molto prestigiosi se l’è visto negare. Le persone coinvolte lo considerano un grosso problema e un ostacolo all’accesso al mercato del lavoro in Italia.
Margherita Pascucci ha preso due dottorati, uno in filosofia in Germania e uno in letteratura comparata negli Stati Uniti. Dopo essere tornata in Italia, nel 2020 ha tentato di partecipare a un concorso per l’università di Firenze: il primo dottorato non le è stato riconosciuto per motivi sostanzialmente burocratici, il secondo le è stato riconosciuto dopo aver aspettato mesi e speso centinaia di euro. Nel frattempo il bando per l’università di Firenze era scaduto.
Simone Calabrò ha preso un dottorato in Letterature comparate all’università di Edimburgo, in Scozia, nel 2021: per ottenerne il riconoscimento in Italia ha speso più o meno un migliaio di euro e ci ha messo circa un anno, periodo nel quale dice di non aver potuto accedere ai concorsi universitari e in cui, pur potendo accedere a quelli per insegnare a scuola, non poteva inserire tra i suoi titoli il dottorato. Ai concorsi per l’insegnamento il dottorato garantisce 12 dei 22 punti, più della metà, che si possono ottenere grazie ai titoli aggiuntivi rispetto a quelli minimi richiesti.
Altre persone hanno direttamente rinunciato a chiedere il riconoscimento: come Simona Gabrielli, assegnista di ricerca all’Istituto di Geofisica e Vulcanologia (INGV) di Roma. Gabrielli ha preso un dottorato in Geoscienze all’università di Aberdeen, in Scozia, nel 2020. Dopo il dottorato ha ottenuto alcuni assegni di ricerca professionalizzanti (per cui non serve il dottorato) e si è informata su come ottenere il riconoscimento del titolo per partecipare anche ad altri concorsi, o a percorsi di studio post-dottorato che le avrebbero garantito tra le altre cose anche uno stipendio più alto.
«La sola procedura costava oltre 400 euro, a cui aggiungere una serie di altre spese burocratiche: prendevo 1.400 euro al mese in cui doveva starci tutto, e quei soldi in quel momento non li avevo». Gabrielli non ha più chiesto il riconoscimento del titolo, e nel frattempo all’INGV hanno finito per valutare più che altro l’esperienza maturata con gli assegni di ricerca professionalizzanti: formalmente, in Italia, il suo dottorato ad Aberdeen non ha nessun valore legale.
In Italia esistono due tipi di procedure per ottenere il riconoscimento del titolo di studio ottenuto all’estero: quello accademico (noto col vecchio nome di “equipollenza”) e quello finalizzato (noto col vecchio nome di “equivalenza”). Il primo si ottiene una volta e vale per sempre, mentre il secondo ha validità per il solo concorso per cui viene richiesto, e va quindi richiesto volta per volta.
Ci sono alcune variazioni per il riconoscimento a seconda del tipo di procedura o del fatto che il paese in cui è stato ottenuto il titolo sia di un paese dell’Unione europea o no: in generale, comunque, tra i documenti da mettere insieme ci sono traduzioni giurate, firme di notai (con costi correlati), dichiarazioni di valore (rilasciate nelle sedi diplomatiche, ambasciate o consolati, dei paesi in cui si è studiato), o l’apostille.
Nota anche come Postilla dell’Aia, è un timbro previsto dalla Convenzione dell’Aia del 1961, trattato internazionale sul mutuo riconoscimento di documenti tra i paesi firmatari. Per ottenerlo si può spedire la documentazione originale nel paese d’origine o andare fisicamente nel paese estero a farselo apporre. Filippo Ferrari, ricercatore al dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna con un dottorato in Filosofia all’università di Aberdeen, in Scozia, ha scelto il secondo metodo per il «terrore» di perdere i documenti originali. Alle spese burocratiche e consolari, quindi, ha aggiunto quelle del viaggio.
Tra le due procedure, i problemi più grossi riguardano proprio l’equipollenza, cioè la forma di riconoscimento del titolo più solida e duratura. Il primo problema è capire dove chiederla. Fino al 2022 andava chiesta direttamente al ministero dell’Università e della Ricerca: ora, per via di una modifica introdotta durante il governo di Mario Draghi, la procedura è affidata alle singole università. In teoria questo dovrebbe rendere il procedimento più snello, in pratica è il contrario.
Al netto di tutte le procedure consolari, la legge prevede anzitutto che chi chiede il riconoscimento del proprio titolo trovi un corso di laurea o di dottorato italiano che abbia esattamente le stesse caratteristiche del proprio titolo estero: durata, numero di crediti, tipo di contenuti. «È tutto un peregrinare da un’università all’altra per trovare il titolo di studio più sovrapponibile al tuo», racconta Martina Gargiulo dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia (ADI). «Altrimenti la richiesta viene rigettata, anche se hai già un dottorato o una laurea, magari in un posto molto prestigioso».
La sovrapponibilità viene calcolata indipendentemente dal prestigio o dal riconoscimento scientifico dell’università in cui si è studiato: «È in generale assurdo che ti chiedano di certificare l’equipollenza di un titolo di studio rilasciato da un’università internazionalmente riconosciuta», dice Ferrari, che ottenne il dottorato nel 2014 al Northern Institute of Philosophy dell’Università di Aberdeen, lavorando con Crispin Wright, filosofo britannico di fama internazionale.
La rigidità dei criteri di sovrapponibilità è anche il motivo per cui Margherita Pascucci non è riuscita a ottenere il riconoscimento del proprio dottorato in Filosofia in Germania: lo ha preso all’Università Europea Viadrina di Francoforte sull’Oder. Con quel dottorato ha poi vinto una borsa per un post-doc al Collège de France, prestigiosa istituzione di Parigi, e poi una borsa di studio Marie Skłodowska-Curie, altrettanto prestigiosa e molto competitiva, oltre ad aver pubblicato articoli, saggi e monografie, anche con case editrici come la Palgrave Macmillan.
Quando Pascucci ha chiesto l’equipollenza del dottorato in Italia, le è stata negata perché il suo dottorato tedesco durava due anni e in Italia i dottorati ne durano tre: «col paradosso che ciò che è stato riconosciuto e a cui viene conferito merito scientifico a livello europeo non viene riconosciuto a livello nazionale», scriveva Pascucci in una lettera inviata nel 2020 al ministro dell’Università e della Ricerca Gaetano Manfredi, dopo aver scritto anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Dopo il diniego per quello tedesco, Pascucci ha iniziato la procedura per l’equipollenza del dottorato ottenuto negli Stati Uniti: ci ha messo diversi mesi, svariate centinaia di euro, e dice di aver scritto più volte agli uffici del ministero perché non riceveva risposta a mail e telefonate, alcune delle quali rivolte a numeri indicati sul sito e non più attivi.
Altre volte le inefficienze riguardano la gestione della singola pratica. Nel caso di Ferrari, per esempio, a un certo punto la documentazione spedita al ministero per ottenere l’equipollenza, con tutti i documenti originali, è diventata irrintracciabile: «ho chiamato il ministero, era inizio estate, finché mi ha risposto un signore che mi ha detto che non trovava la mia documentazione: si è preso la briga col cordless di andare al piano di sopra, in un altro ufficio, per le scale dato che l’ascensore era rotto, e verificare che il mio dossier non fosse stato erroneamente in un altro plico, come infatti era successo: ha preso in carico la pratica e la situazione si è sbloccata, in sostanza, grazie alla buona volontà di questo tizio».
Una volta approvata dal ministero la documentazione gli è stata inviata a casa con la posta ordinaria, anziché con quella certificata tracciabile: l’ha trovata giorni dopo, spiegazzata e inzuppata di pioggia nella cassetta della posta.
Ogni ateneo stabilisce i propri costi per la pratica dell’equipollenza. Sono alti: all’università La Sapienza di Roma chiedono oltre 400 euro, all’università di Padova 600, di cui 300 solo per presentare la domanda, a prescindere dall’esito. All’università di Bologna, citata un po’ da tutti come l’ateneo più temuto per i costi del riconoscimento, servono oltre 1000 euro.
Il problema del riconoscimento dei titoli esteri è particolarmente sentito per chi ha un dottorato, perché a questo titolo sono legati più strettamente i percorsi professionali accademici, ma riguarda anche altri titoli di studio come master e lauree. O di titoli professionali: anche in questo caso il riconoscimento non è meno faticoso, o rocambolesco.
Di sicuro lo è stato per Eleonora Francica, che ha 27 anni ed è una giornalista di Science|Business. In passato ha lavorato per Politico, e ha fatto un master in giornalismo alla Columbia University di New York, quella che ha istituito il premio Pulitzer, il più famoso e prestigioso premio giornalistico al mondo. Finito il master negli Stati Uniti ha ottenuto il titolo professionale di giornalista lì, e ha iniziato la procedura per chiederne il riconoscimento in Italia.
Ci ha messo un anno e mezzo: l’ufficio riconoscimento titoli del ministero della Giustizia, con cui doveva parlare, è aperto per richieste di informazioni solo il mercoledì dalle 9 alle 11: «A volte stavo sveglia fino alle 4 di mattina negli Stati Uniti, dove mi trovavo, per capitare nella fascia oraria in cui qualcuno mi rispondeva», dice Francica. Aggiunge che è stato complicato trovare le informazioni, capire cosa doveva fare, e materialmente mettere insieme quel che serviva: «Al consolato italiano volevano solo documenti firmati a penna, senza nessuna possibilità di avere firme digitali ufficiali: una volta ho fatto un viaggio in autobus di sette ore, andata e ritorno compresi, per farmi firmare un foglio dal mio caporedattore di Politico ad Albany», città nello stato di New York.
Ottenuta tutta la documentazione è venuta in Italia e l’ha consegnata all’Ordine dei giornalisti. Le è stato detto che doveva comunque sostenere l’esame di Stato da giornalista professionista (il riconoscimento del master le aveva permesso solo di non fare il praticantato). Ha fatto l’esame, ma tra le date delle sessioni e i tempi di attesa, per essere formalmente iscritta all’Ordine come giornalista professionista ci sarebbero voluti diversi mesi: Francica, nel frattempo, è andata a cercare lavoro a Bruxelles, dove è stata assunta da Science|Business. «Ti dicono tutti che andare a studiare all’estero è un plus, ma cosa me ne faccio se quando torno non riesco a lavorare?».