L’importanza delle guide negli sport paralimpici
Aiutano soprattutto gli atleti ciechi o ipovedenti durante le gare e negli allenamenti, con cui devono creare una sintonia quasi perfetta
In diverse gare delle Paralimpiadi le atlete e gli atleti ciechi o ipovedenti competono assieme alle loro guide, le cui funzioni dipendono dal tipo di sport e da quale impedimento alla vista hanno gli atleti, ma sono in ogni caso molto importanti per gareggiare al meglio, tanto che dalle Paralimpiadi di Londra del 2012 in poi anche loro ricevono una medaglia in caso di podio. Nell’atletica possono correre legate all’atleta, o dare loro indicazioni a distanza per i salti; nel nuoto segnalano quando la vasca sta per finire, nel ciclismo pilotano il tandem, e poi ci sono quelle che indirizzano i calciatori del calcio a 5 per ciechi. Sono anche figure difficili da trovare: in passato in Italia diversi atleti ipovedenti o ciechi si sono lamentati di non riuscire ad allenarsi per la mancanza di guide; quando si trovano, poi, bisogna riuscire a far funzionare la sintonia tra atleta e guida, e non è semplice.
Nell’atletica leggera gli atleti e le atlete della categoria T11 (quelli ciechi) che fanno gare di corsa hanno tutti la guida, mentre nella categoria T12 (ipovedenti) possono scegliere se partecipare con o senza. Sono forse le guide il cui ruolo è più evidente, perché corrono legate all’atleta attraverso un nastro di cotone o di nylon: non possono né tirare né spingere l’atleta e devono superare la linea del traguardo dopo di lui (o lei), altrimenti la coppia viene squalificata. Quello che fanno è soprattutto dare indicazioni sulla direzione da mantenere, sulla posizione degli avversari e del traguardo, su eventuali ostacoli. Corridore e guida si muovono praticamente in sincrono, con lo stesso passo: a volte quando corrono assieme sembrano quasi una persona sola, anche se spesso corrono con il passo alternato, per sollevare contemporaneamente il braccio legato (che è il sinistro per una e il destro per l’altra persona).
Omara Durand, una delle migliori velociste paralimpiche di sempre, con la sua guida Yuniol Kindelan
Va da sé che anche le guide sono atleti o atlete di alto livello, perché devono correre sulle distanze in cui competono (dai 100 metri alla maratona) leggermente più veloci degli atleti che aiutano: a volte le guide sono a loro volta atleti olimpici. Anche loro, soprattutto nel caso in cui vincano o battano dei record, vengono testati dall’antidoping.
Alcune coppie guida-atleta hanno raccontato al sito ufficiale delle Paralimpiadi come funziona la loro collaborazione. Thalita Vitoria Simplicio Da Silva e Felipe Veloso, che gareggiano assieme da oltre dieci anni e hanno vinto, tra le altre cose, quattro argenti paralimpici (l’ultimo nei 400 metri T11 a Parigi), hanno detto che durante una competizione fanno tutto assieme: Veloso la consiglia sin dalla mattina a colazione, mentre durante la corsa le dà indicazioni soprattutto in curva, ma dice anche delle cose motivazionali. La maratoneta giapponese Kenya Karasawa ha detto: «Ascolto il rumore dei passi della guida e baso il mio ritmo su ciò che sento, ma anche la mia guida deve adattarsi al mio ritmo», mentre Koji Kobayashi, che corre con lei dal 2021, ha detto che si focalizza più sul sincronizzare il movimento delle mani con quello di Karasawa, in modo da gareggiare alla stessa velocità.
Trovare la giusta sintonia nei movimenti e nella comunicazione richiede molto allenamento. Nella maratona è complicato mantenere lo stesso ritmo per più di due ore, mentre nelle gare veloci una delle difficoltà per la guida è rallentare sul finale per permettere all’atleta di arrivare per prima, senza rischiare di perdere posizioni: la brasiliana Jerusa Geber Dos Santos, che in queste Paralimpiadi ha vinto i 100 metri T11, ha spiegato che la sua guida Gabriel Dos Santos la avverte poco prima del traguardo per permetterle di lanciare il busto in avanti e non arrivare dietro a lui.
Nel salto in lungo il rapporto di fiducia tra atleta e guida è ancora più importante, perché ogni saltatore o saltatrice ha una guida posizionata in prossimità della buca con la sabbia che dà un’indicazione sonora per far capire dove l’atleta deve indirizzare la corsa. Ciascuno ha un suo metodo: ci sono guide che battono solo le mani, altre che danno indicazioni con la voce e altre ancora che fanno entrambe le cose. Più l’atleta si avvicina al punto in cui deve saltare, più la guida aumenta il ritmo del segnale acustico per farle aumentare anche il ritmo della corsa. La guida deve poi spostarsi in tempo dalla traiettoria di corsa per evitare che l’atleta le finisca addosso (alcune lo fanno molto all’ultimo momento). La guida dell’italiana di origini albanesi Arjola Dedaj, per esempio, dice molte volte «vai!».
Dedaj ha 42 anni e gareggia anche nei 100 e nei 200 metri: nel 2017 a Londra vinse la medaglia d’oro ai Mondiali paralimpici nel salto in lungo. In quell’anno diede una lunga intervista nella quale denunciò la mancanza di guide per atlete e atleti ciechi in Italia. Dedaj disse che da due anni era senza guida e che riusciva ad allenarsi solo grazie al marito, l’atleta Emanuele Di Marino (che corre i 100, 200 e 400 metri nella categoria T44, quella degli atleti con disabilità moderate alle gambe), il quale finito il suo allenamento la aiutava bordo pista, pur «con un’efficacia limitata», soprattutto nei 200 metri, dove la guida diventa irrinunciabile: «In curva, ad esempio, è impossibile correre con chiamata dall’esterno», raccontò, cioè facendosi guidare solo a voce ma senza essere legati.
Dedaj parlò dell’importanza di «creare un progetto strutturato a livello nazionale per reclutare guide con determinate caratteristiche, collaborando con i gruppi sportivi e le federazioni da tutto il territorio nazionale», e citò l’esempio di paesi come il Brasile. In Italia, invece, «ci si arrangia con iniziative informali come il portale Disabilincorsa, dove è possibile cercare guide per andare a correre ma solo a livello amatoriale». Mancano fondi e organizzazione, anche se la Federazione italiana sport paralimpici e sperimentali (la FISPES) organizza periodicamente corsi di formazione per guide, soprattutto per l’atletica leggera. Le guide sono quasi sempre volontari, non vengono pagate, come del resto molti degli atleti paralimpici.
Il salto con cui Dedaj vinse l’oro ai Mondiali paralimpici del 2017
Un’altra cosa da considerare è che agli atleti non basta trovare una guida, ma devono trovarne una con cui si intendono bene. «L’ultima esperienza avuta, purtroppo, è stata del tutto negativa», disse Dedaj in quell’intervista. L’altro giorno, dopo aver vinto la medaglia d’argento nel triathlon PTVI (paratriathlon visual impaired), la ventiduenne Francesca Tarantello parlando alla Rai ha detto che prima di trovare Silvia Visaggi, la sua attuale guida, ne aveva cambiate diverse, perché con le precedenti non riusciva a ottenere una buona sintonia.
Nel paratriathlon la guida fa tutta la gara assieme all’atleta e deve nuotare con lei, stando al massimo mezzo metro davanti, pilotare il tandem e poi correrci assieme, legata col cordino (gli atleti ipovedenti invece possono scegliere di ricevere assistenza solo tra una gara e l’altra, per esempio a risalire dall’acqua e a trovare la bicicletta). La parte di gara più difficile, ha detto Visaggi, è il nuoto, perché in acqua è complicato parlarsi e comunicare. Nella parte in bicicletta invece la guida dà indicazioni sul percorso e cerca di anticipare le curve.
Anche nelle gare di ciclismo su strada e su pista gli atleti ciechi o non vedenti gareggiano in tandem dietro a una guida: nella prima giornata di Paralimpiadi, l’Italia ha vinto una medaglia di bronzo nei 4.000 metri di inseguimento in tandem, con Lorenzo Bernard e Davide Plebani. La guida nel ciclismo viene chiamata pilota e nelle gare su strada oltre a guidare la bici e a pedalare lei stessa deve anche cambiare le marce e studiare il percorso in anticipo.
Nel nuoto per non vedenti le guide stanno a bordo piscina, utilizzano un bastone per segnalare agli atleti quando si stanno avvicinando al bordo e sono per questo chiamate tapper, dal verbo inglese to tap (tamburellare, picchiettare). Il compito del tapper può sembrare semplice, ma è delicato perché deve evitare che l’atleta vada a sbattere con la testa sul bordo della piscina, senza d’altro canto rallentarlo troppo, aiutandolo a girare nel momento giusto: il tempismo della battuta (o delle battute: a volte se ne fanno due) è fondamentale. Alcuni atleti preferiscono ricevere la battuta sulla testa, altri sulla schiena.
La cosa particolare è che non esiste uno strumento ufficiale e omologato per fare questa cosa, ognuno può utilizzare quello che preferisce e spesso si usano dispositivi molto “artigianali”, aste o bastoni rivestiti di gommapiuma per non rendere traumatico il tocco: prima delle Paralimpiadi, la nuotatrice statunitense Anastasia Pagonis aveva fatto vedere come era fatto il suo. Il nuotatore statunitense Brad Snider, vincitore di sei ori tra Londra, Rio de Janeiro e Tokyo, e il suo tapper Brian Loeffler spiegarono che ci sono varie differenze tra i nuotatori, oltre alla preferenza tra testa e schiena. Per esempio c’è chi vuole che si utilizzi un bastone molto lungo, per essere toccato con anticipo, e chi invece come Snider vuol essere avvisato solo nell’istante prima di girare.
In ogni caso, entrambi sottolinearono l’importanza della fiducia e del timing, da migliorare con tantissimo allenamento: «Mi aiuta se il tapper mi tocca ogni volta nello stesso punto. Se siamo in perfetta sintonia, la mia virata dev’essere identica a quella di un nuotatore normodotato: non bisognerebbe accorgersi che sono cieco», spiegò Snider. Loeffler disse che lui doveva concentrarsi esclusivamente sul nuotatore, non farsi distrarre da quanto succedeva intorno, dagli altri nuotatori o dal pubblico: «Il mio unico lavoro è focalizzarmi su di lui e misurarne la velocità, anticipare quanto veloce si sta muovendo e a che punto vuole ricevere il tap».
Trovare tapper che capiscano le esigenze dei nuotatori non è facile anche perché non ne basta uno solo: nelle gare più lunghe di 50 metri devono essere necessariamente due, perché ne serve uno per ogni lato della vasca.
In quasi tutte le discipline per atleti non vedenti ci sono guide o assistenti: nei lanci, per esempio, gli assistenti o gli allenatori accompagnano gli atleti in pedana e li indirizzano nel verso giusto per il lancio. Nel blind football, o calcio a 5 per ciechi, giocano quattro calciatori di movimento ciechi o non vedenti in ogni squadra (tutti bendati, per rendere paritaria la competizione), mentre il portiere è una persona vedente e deve dare indicazioni ai compagni quando la palla è nel terzo di campo difensivo. Quando la palla è a centrocampo può parlare solo l’allenatore, mentre nell’ultimo terzo di campo la guida d’attacco, posizionata dietro la porta, aiuta i calciatori a organizzare un’azione offensiva efficace.
Ci sono assistenti e guide anche in alcuni sport per persone con altre disabilità, comunque, come nella boccia, uno dei due sport che sono solo paralimpici e che assomiglia molto, appunto, alle bocce. Qui gareggiano atleti con paresi cerebrale e distrofia muscolare e in due delle quattro categorie previste (la BC1 e la BC3) ricevono l’aiuto di un assistente. Nella BC1 gli assistenti possono sistemare o stabilizzare la carrozzina, oppure portare la palla agli atleti.
Nella BC3 invece gli atleti utilizzano una rampa inclinabile per lanciare la pallina, manovrandola con la bocca, la testa o le dita: gli assistenti in questo caso devono seguire le istruzioni degli atleti per posizionare le rampe e la pallina dove vogliono. Non possono, in alcun modo, intervenire nelle decisioni tattiche e per questo quando aiutano gli atleti danno le spalle al campo da gioco. Il greco Grigorios Polychronidis, medaglia d’argento alle Paralimpiadi di Tokyo, ha spiegato che, avendo poco tempo per parlare durante la gara, deve riuscire a comunicare più informazioni possibili con il minor numero di parole. Polychronidis ha avuto per anni suo padre come assistente, mentre ora gioca con sua moglie.