La Cina vuole rifare il Sole sulla Terra
Da quasi inesistente in poco tempo il suo programma sulla fusione nucleare ha raggiunto i progetti internazionali più importanti in un campo di ricerca incerto e importantissimo
A Hefei, una città di circa 9 milioni di persone nella Cina orientale, c’è un grande centro di ricerca dove decine di persone lavorano tutto l’anno concedendosi pochissime pause per raggiungere un obiettivo che suona fantascientifico: portare il Sole sulla Terra. Il loro obiettivo è sviluppare e sperimentare tecnologie per la fusione nucleare, in modo da imitare i processi che avvengono nella nostra stella per produrre in futuro energia elettrica a bassissimo costo, che potrebbe rivoluzionare il mondo. Non sono gli unici a farlo, ma il loro obiettivo è di arrivarci il prima possibile e diventare competitivi con l’Occidente, che lavora da anni e con alterni successi sulla fusione nucleare.
All’Istituto di fisica del plasma dell’Accademia delle scienze a Hefei gli esperimenti principali sono legati al Tokamak superconduttore avanzato sperimentale (EAST), una sorta di grande ciambella dove si provano a riprodurre le reazioni nucleari che avvengono nel Sole. In media vengono effettuati circa 100 test al giorno, contro i 20-30 realizzati quotidianamente nel principale centro di ricerca sulla fusione in Europa. I ritmi dei gruppi di ricerca cinesi sono serrati per recuperare il divario tecnologico e rendersi ancora più competitivi.
La fusione nucleare è una delle più grandi scommesse del settore energetico: sulla carta è teoricamente realizzabile, ma nessuno sa se sia veramente possibile nella pratica. Disporne renderebbe enormemente più economica e sostenibile la produzione di energia elettrica rispetto a oggi, eliminando molti ostacoli allo sviluppo e alla diffusione di tecnologie che consumano molto, come per esempio i sistemi per produrre acqua potabile dal mare. Per questo si lavora alla fusione nucleare da circa 50 anni, ma ottenere risultati significativi si è rivelato più difficile del previsto.
Da oltre mezzo secolo la produzione di elettricità è passata anche dal nucleare, ma grazie a un principio diverso: la fissione. In una reazione di questo tipo i nuclei di atomi pesanti (come gli isotopi plutonio 239 e uranio 235) vengono indotti a spezzarsi. In questo modo si libera una grande quantità di energia termica, che nelle centrali nucleari viene sfruttata per trasformare acqua ad alta pressione in vapore, che fa poi girare turbine cui sono collegati alternatori per produrre energia elettrica.
La fissione comporta la produzione di materiali residui pericolosi, le “scorie radioattive”, che devono essere conservate e isolate dall’ambiente circostante per moltissimo tempo per evitare contaminazioni. Gli impianti nucleari sono sicuri, ma il problema delle scorie è ineludibile e per questo da decenni i gruppi di ricerca provano a costruire un reattore alternativo a quello a fissione, che funzioni imitando ciò che tiene acceso il Sole.
In una reazione a fusione nucleare, invece di spezzare nuclei pesanti in frammenti più piccoli, si uniscono i nuclei leggeri (come quello dell’idrogeno) per ottenerne di più pesanti. Il processo porta alla formazione di nuovi nuclei la cui massa complessiva è minore rispetto alla somma delle masse di quelli di partenza: quello che manca è emesso come energia che può poi essere sfruttata. È però un risultato difficilissimo da ottenere: i nuclei degli atomi tendono a respingersi a vicenda (repulsione elettrica) e servono quindi temperature nell’ordine di vari milioni di °C per domarli trasformandoli in plasma (un fluido estremamente caldo e carico elettricamente) e convincerli a unirsi tra loro, attraverso l’impiego di magneti molto potenti che li contengano.
Nel corso dei decenni sono stati sviluppati vari sistemi per raggiungere quel risultato e i gruppi di ricerca si sono concentrati in particolare sui tokamak, grandi macchine sperimentali a forma di ciambella (“toroidali”) nelle quali si produce il vuoto e un intenso campo magnetico necessari per isolare il plasma, in modo che non entri in contatto con le pareti della ciambella. Si ritiene che in questo modo si possano creare le condizioni per la fusione termonucleare in modo controllato, così da poterla sfruttare per produrre energia termica da trasformare in energia elettrica. C’è però un problema: attivare e gestire il tokamak richiede grandi quantità di energia elettrica ed è quindi da dimostrare la sua capacità di produrne più di quanta sia necessaria per farlo funzionare.
Il progetto più importante e citato per la fusione nucleare si chiama ITER ed è una collaborazione tra 35 paesi, ultimamente impegnati soprattutto per la costruzione di un primo reattore sperimentale a Cadarache, nel sud della Francia. Al progetto partecipano Unione Europea, Stati Uniti, India, Giappone, Corea del Sud e altri paesi cui si è aggiunta la Cina, con una spesa complessiva finora stimata intorno ai 20 miliardi di euro. I singoli paesi collaborano economicamente e nello sviluppo di specifiche tecnologie, ma pochi hanno iniziato a spendere quanto il governo cinese per accelerare la ricerca.
Le cifre esatte degli investimenti cinesi non sono note, ma si stima che la Cina stia investendo l’equivalente di 1,4 miliardi di euro ogni anno nella fusione, quasi il doppio rispetto agli Stati Uniti. Uno dei direttori del dipartimento dell’Energia statunitense ha detto a Nature che «ancora più importante del valore totale [degli investimenti] è la velocità a cui lo stanno facendo». Circa 25 anni fa la Cina era fuori dalle principali attività di ricerca nel settore, ora ha capacità uguali se non superiori a diversi centri di ricerca in giro per il mondo compresi alcuni di quelli impegnati per ITER.
Finanziare attività costose e che potranno dare potenzialmente qualche frutto nel lungo periodo non è sempre semplice per i governi democratici, la cui durata è relativamente breve e per questo legata soprattutto a progetti di breve-medio periodo che raccolgano consensi. Il governo cinese cerca quindi di sfruttare la maggiore stabilità politica fornita dal proprio regime per investire pesantemente in progetti di lunga data, soprattutto nella ricerca e nello sviluppo di nuove tecnologie.
Secondo i piani del governo cinese, nei prossimi anni Trenta dovrà essere costruito un primo reattore a fusione nucleare sperimentale (CFETR) da 1 gigawatt, che è la potenza di una grande centrale nucleare che sfrutta la fissione. In caso di successo, nei decenni successivi dovrebbe essere costruito un prototipo per dimostrare l’impiego della fusione a scopo commerciale. È un obiettivo estremamente ambizioso, sia considerati i pochi progressi degli ultimi anni nel settore, sia il fatto che ITER negli anni Trenta non avrà ancora probabilmente avviato i propri esperimenti più importanti.
Le fondamenta dei futuri progetti cinesi sono a Hefei, dove viene attivato quasi quotidianamente EAST, il tokamak sperimentale cinese. Per rimarcarne l’importanza e ricordarne al mondo la provenienza, sul tokamak è perennemente issata una grande bandiera rossa con le stelle della Repubblica popolare cinese. EAST fu attivato nel 2006, tre anni dopo l’ingresso della Cina in ITER, e da allora ha portato a importanti progressi nel mantenimento del plasma nel tokamak per alcuni minuti (la durata è importante perché da questa deriva la possibilità di sostenere a lungo i processi di fusione), anche se il bilancio energetico non rende ancora sostenibile la reazione.
Nonostante abbia evidenti proprie ambizioni, la Cina ha dato in questi anni assistenza e condiviso tecnologie con ITER, fornendo per esempio dati e informazioni utili sui materiali da impiegare per il rivestimento interno dei tokamak. Internamente, l’Accademia delle scienze cinese coordina le attività di ricerca sulla fusione in altri centri compreso quello di Chengdu, nel sud-ovest del paese, dove dal 2020 è attivo un altro tokamak.
I dati raccolti dagli esperimenti svolti nei centri di ricerca saranno impiegati per la realizzazione di CFETR, il reattore sperimentale il cui progetto è in attesa di una autorizzazione formale da parte del governo cinese. A oggi non è chiaro come CFETR influirà su ITER e se dipenderà in qualche modo dal programma internazionale sullo sviluppo della fusione. Il progetto prevede di avere un sistema che produca più energia di quanta ne viene utilizzata per produrre il plasma, ma non ancora sufficiente per produrre la quantità di energia elettrica necessaria per mantenere attivo tutto l’impianto. Il piano cinese prevede che negli anni Quaranta CFETR sia invece in grado di produrre dieci volte l’energia necessaria per mantenere ad alta temperatura il plasma, rendendo quindi possibile un successivo sfruttamento commerciale della fusione nucleare.
Considerati gli alterni successi ottenuti finora dalla ricerca, il piano appare estremamente ambizioso, ma se si concretizzasse permetterebbe alla Cina una transizione energetica senza precedenti anche in vista della riduzione nella produzione di gas serra. Il governo cinese negli ultimi anni ha aumentato enormemente la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, ma continua a generare più della metà dell’energia elettrica con le proprie centrali termiche a carbone altamente inquinanti. Si stima che per sostenere la propria crescita industriale ed economica, nei prossimi 30 anni la domanda di energia elettrica in Cina raddoppierà ponendo ulteriori problemi legati alla sostenibilità.
In attesa di avviare i lavori per CFETR, sempre a Hefei sono iniziati quelli per la costruzione di un’area di ricerca grande più o meno quanto la Città del Vaticano (0,4 chilometri quadrati) per sviluppare sistemi e tecnologie che un giorno saranno impiegati nel nuovo reattore. Il centro sarà completato nel 2025 e ospiterà migliaia di persone specializzate in fisica nucleare e in particolare nei processi di fusione. Negli ultimi anni le università cinesi hanno infatti incentivato molto gli studi nel settore, formando una grande quantità di persone con dottorati in fisica e ingegneria. La loro grande disponibilità potrebbe rivelarsi un importante vantaggio rispetto ad altri paesi con una minore quantità di persone specializzate in questi ambiti.
Nella cosiddetta “corsa alla fusione” alcuni paesi occidentali potrebbero comunque mantenere un certo vantaggio nelle iniziative private. Tradizionalmente i progetti legati alla fusione nucleare hanno richiesto ingenti investimenti possibili solo da parte delle istituzioni pubbliche, ma negli ultimi anni il panorama è cambiato soprattutto in seguito all’affermarsi di aziende con fatturati e un valore di mercato di svariati miliardi di dollari. Sfruttando a volte possibilità di collaborazione con i centri di ricerca pubblici, alcune società hanno iniziato a investire pesantemente nella ricerca e in sistemi alternativi ai tokamak. Qualcosa di analogo è accaduto anche nel settore ormai maturo della fissione nucleare, dove la ricerca è orientata in particolare a rendere più piccoli e ancora più sicuri gli impianti per la produzione di energia elettrica.
Il modello ibrido cinese, che ha portato ad affiancare al socialismo molte delle logiche di mercato tipiche del capitalismo, rende comunque possibile una presenza della Cina anche nel settore privato della fusione nucleare. Le varie start-up cinesi nate negli ultimi anni hanno attratto l’equivalente di circa mezzo miliardo di euro di investimenti e il governo cinese a inizio anno ha avviato un consorzio nazionale, che mette insieme 25 aziende private (comunque di proprietà del governo) e centri di ricerca non solo per lo sviluppo delle tecnologie già note, ma anche per l’esplorazione di approcci innovativi per vincere la scommessa di rifare il Sole sulla Terra.