Il tiro con l’arco, primo sport paralimpico di sempre
E quello dov'è ormai comune che gli atleti con disabilità gareggino con quelli normodotati
Daila Dameno ha 56 anni e sta partecipando alle sue quarte Paralimpiadi: è la prima volta però che gareggia nel tiro con l’arco, nella categoria W1, quella per atlete e atleti tetraplegici. In passato aveva gareggiato nel nuoto, ad Atene 2004, e nello sci alle Paralimpiadi invernali del 2006 e del 2010, vincendo un argento e un bronzo nello slalom sitting e nello slalom gigante sitting a Torino. Ha cominciato a fare tiro con l’arco nemmeno due anni fa, quando l’età non le permetteva più di praticare sport che richiedessero una certa forza fisica e capacità di recupero. «Mi son messa a fare tiro con l’arco su proposta di un mio amico, ma un po’ per caso, non lo vedevo come uno sport vero e proprio», racconta Dameno, che invece ha iniziato sin da subito ad appassionarsi, ricredendosi.
Del tiro con l’arco soprattutto l’ha colpita l’aspetto mentale: «Una volta imparato il gesto tecnico, diventa un esercizio di introspezione che mi ha aiutato anche nella vita privata a essere riflessiva, a pensare ai gesti che faccio. È un lavoro con me stessa, perché in pedana sono da sola», dice. Poi certo, anche la parte fisica a volte viene sottovalutata: «È un sport faticoso perché bisogna aprire un arco con quaranta libbre di tensione (circa 18 chili, ndr) a ogni freccia tirata, e in allenamento tiro circa 200 frecce: un gran carico di lavoro». In pochi mesi Dameno ha raggiunto un livello sorprendente: nel luglio del 2022 esordì ai campionati italiani a Lanciano, arrivando seconda, poi poco dopo vinse i campionati italiani indoor a Faenza: «Ho iniziato per gioco, poi mi hanno detto che ero brava e son finita qua», dice.
Il tiro con l’arco è il primo sport paralimpico di sempre. Nel 1948 il neurologo tedesco Ludwig Guttmann, che proponeva lo sport come terapia riabilitativa ai reduci di guerra, organizzò nel Centro nazionale per le lesioni al midollo spinale di Stoke Mandeville, nel Regno Unito, la prima edizione dei Giochi di Stoke Mandeville, una specie di versione antenata delle Paralimpiadi. La prima edizione di quella rassegna sportiva prevedeva solamente una gara di tiro con l’arco per 16 atlete e atleti in carrozzina: fu un successo, e da quell’anno venne organizzata ogni anno includendo nuove discipline, fino a diventare poi un evento sportivo che si teneva ogni 4 anni in corrispondenza delle Olimpiadi, a partire dalle Paralimpiadi del 1960 a Roma. «Era uno sport altamente riabilitativo per le lesioni midollari, che poi è diventato un’attività agonistica», dice Guglielmo Fuchsova, detto Willy, da oltre dieci anni direttore tecnico della Nazionale italiana paralimpica di tiro con l’arco.
La storia di Dameno mostra bene cosa rese il tiro con l’arco particolarmente adatto a essere scelto come primo sport paralimpico: è uno sport che richiede sforzi che possono essere prodotti da fisici diversi e con disabilità diverse, e che stimola chi lo pratica a sfruttare al meglio le proprie caratteristiche al di là delle disabilità. Ci sono arcieri che tendono l’arco con i piedi o con la bocca, per esempio. Tutto questo avviene senza che si intacchi la competitività, anzi: il tiro con l’arco è uno dei pochi sport in cui gli atleti con disabilità possono gareggiare con quelli normodotati, e con prestazioni del tutto paragonabili.
Oggi alle Paralimpiadi arcieri e arciere competono divisi in due classi: Open, nella quale possono gareggiare su una carrozzina, in piedi o appoggiati a uno sgabello (alcuni sono senza braccia, e tendono l’arco con le gambe), e W1, per gli atleti in carrozzina che non hanno il completo utilizzo delle braccia. La categoria Open è a sua volta divisa in Open recurve, nella quale si tira da 70 metri di distanza e vengono utilizzati gli archi ricurvi, gli stessi delle Olimpiadi (anche detti “olimpici”, infatti), e in Open compound, in cui si usa l’arco compound (o composito) e si tira da 50 metri. Nella W1 invece arcieri e arciere possono scegliere se utilizzare l’arco olimpico o quello compound e tirano da 50 metri. Quest’ultimo è composto, appunto, da diversi pezzi e ha alcuni accorgimenti che aiutano a essere più precisi limitando in parte gli sforzi fisici. Quando si tira da 70 metri, il bersaglio ha un diametro di 122 centimetri, mentre nel tiro da 50 metri il bersaglio è più piccolo: 80 centimetri di diametro.
«L’arco compound viene paragonato alle armi da fuoco come la carabina di precisione perché ha carrucole che aiutano a stare in mira, ha uno sgancio meccanico invece di tendere la corda con tre dita e nella categoria Open compound gli atleti possono utilizzare anche una lente di ingrandimento (non ammessa invece nella W1). L’arco olimpico invece è molto più spartano», spiega Fuchsova. Nella W1 inoltre la tensione di tutti gli archi dev’essere limitata a 45 libbre «per non sollecitare lesioni già gravi». L’arco compound nel complesso riduce il margine di errore e per questo, nonostante alcune proposte, non è stato mai ammesso alle Olimpiadi.
Guardando il tiro con l’arco in televisione, ma anche dal vivo, senza averlo mai praticato, si rischia di perdersi cosa sta dietro a ogni tiro: «Ogni freccia ha una sua storia e parte da un movimento di tutto il corpo, devi ascoltarlo mentre nella mente ti prepari tutta la sequenza: alzare l’arco, aprirlo, andare ai contatti, mirare e scoccare. La mira è solo la punta dell’iceberg». Nel tiro con l’arco paralimpico, come in quello olimpico, l’obiettivo è far arrivare la freccia il più vicino possibile al centro del bersaglio, che è formato da centri concentrici: quello al centro vale 10, e poi sempre meno man mano che ci si allontana dal centro. È uno sport con un margine di errore molto basso sia alle Olimpiadi sia alle Paralimpiadi: arciere e arcieri fanno quasi sempre 8, 9 o 10.
La soddisfazione migliore per arcieri e arciere naturalmente «è la freccia perfetta», dice Dameno: «Quando la tiri non hai neanche bisogno di guardare perché sai già che è lì, vicinissima al 10 perfetto» (il centro del bersaglio). Nonostante il bersaglio sia lontanissimo e non sempre visibile dalla posizione di chi tira (nella disciplina di Dameno è a 50 metri, per esempio), un tiro perfetto si riconosce subito: «A volte con l’allenatore giochiamo a dire dov’è andata la freccia, e tu lo sai già dov’è andata».
La possibilità per gli atleti paralimpici di gareggiare con quelli senza disabilità sta diventando sempre più frequente: «Otto anni fa ai campionati italiani per normodotati si qualificavano uno, due atleti paralimpici, mentre da quattro anni si qualifica tutta la nostra Nazionale, composta da venti atleti con diverse disabilità, alcuni dei quali sono anche andati sul podio», racconta Fuchsova. Elisabetta Mijno per esempio, paraplegica da quando aveva cinque anni, nel 2022 ha vinto i campionati italiani e ha gareggiato varie volte con la Nazionale italiana olimpica.
Rispetto a quando Dameno gareggiò per la prima volta vent’anni fa ad Atene, lo sport paralimpico «è cambiato e cresciuto, sono migliorati i materiali, la tecnologia, tutto: è diventato un gran movimento. Io queste le chiamo Olimpiadi, non Paralimpiadi», dice Dameno. Negli ultimi anni senza dubbio c’è stato un cambiamento nel racconto dello sport paralimpico: ci si è concentrati più sull’attività sportiva degli atleti che sulla loro storia di persone disabili e gli atleti paralimpici stessi ultimamente hanno preso sempre più spesso posizione per chiedere di essere trattati appunto come tutti gli atleti professionisti, piuttosto che come persone e atleti in qualche modo “speciali”.
Anche Dameno dice che «noi ci consideriamo atleti, punto». Poi naturalmente oltre alle difficoltà sportive di un allenamento d’élite, ci sono anche quelle legate al fatto di essere persone disabili: Fuchsova fa l’esempio delle trasferte, dove già solo trovare un albergo che ospiti quindici, venti atleti in carrozzina è difficile, e spesso quindi la Nazionale di tiro con l’arco (come altre nazionali paralimpiche) deve adeguarsi.
A Parigi comunque il villaggio olimpico è stato concepito per essere accessibile a chiunque: nelle stanze per esempio gli interruttori della luce sono stati montati a 45 centimetri da terra, in modo che anche chi è su una carrozzina non faccia fatica a schiacciarli. Dopo la fine delle Olimpiadi, è rimasto chiuso per poco più di una settimana ed è stato riaperto il 21 agosto con vari adattamenti anche per le persone con disabilità.
Il luogo delle gare di tiro con l’arco è lo stesso delle Olimpiadi, l’esplanade des Invalides, il vasto prato in fondo al quale c’è l’hôtel des Invalides, un complesso di edifici storici parigini costruiti in stile barocco nel diciassettesimo secolo per ospitare i soldati invalidi. Il colpo d’occhio della spianata è decisamente spettacolare ed è uno dei migliori esempi di come gli organizzatori abbiano cercato di rendere Parigi molto visibile sullo sfondo delle gare delle Olimpiadi e delle Paralimpiadi.
Dopo le gare di qualificazione di giovedì 29 agosto, sabato 31 Daila Dameno gareggerà nell’individuale W1. Alle scorse Paralimpiadi l’Italia vinse due medaglie d’argento e una di bronzo; l’ultimo oro fu vinto a Londra nel 2012 da Oscar De Pellegrin, che due anni fa è stato eletto sindaco di Belluno. Fuchsova dice che «nel tiro con l’arco alle Paralimpiadi il livello è altissimo, ci sono tanti atleti disabili che possono competere con i migliori campioni olimpici, quindi non sarà facile».
È comunque già notevole il fatto che l’Italia sia uno dei paesi che ha qualificato più arcieri e arciere per le Paralimpiadi di Parigi, assieme alla Turchia e alla Cina (ne ha 9 su 140 totali). Della delegazione italiana di tiro con l’arco Dameno è la più anziana: la più giovane, Asia Pellizzari, ha 22 anni, mentre diversi sono intorno ai 40. Come detto, è uno sport che permette una certa longevità sportiva: alle Paralimpiadi di Los Angeles 2028 Daila Dameno avrà sessant’anni e, a sentir lei, ancora voglia di provare a qualificarsi e competere.