Cosa fare con il TFR?

Ogni tanto si discute se destinarlo per legge a un fondo per integrare le pensioni, che saranno sempre più basse: una guida per capire se conviene farlo già adesso

(AP Photo/Petros Karadjias)
(AP Photo/Petros Karadjias)
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Tra le proposte discusse in tema pensionistico queste settimane ce n’è una che riguarda un tema importante ma complicato, con cui i lavoratori dipendenti hanno a che fare almeno una volta nella vita: la scelta su cosa fare del Trattamento di Fine Rapporto, il TFR, se lasciarlo in azienda o destinarlo a un fondo pensione. La Lega propone di renderne obbligatoria per legge la destinazione a un fondo pensione di almeno una parte, in modo che i lavoratori dipendenti possano contare in futuro su una pensione più alta grazie all’integrazione.

È una scelta che oggi viene fatta solo da un terzo dei lavoratori dipendenti, contro quella più comune di lasciarlo in azienda e farselo liquidare alla fine del rapporto di lavoro. A prescindere dalla fattibilità della misura – non è la prima volta che se ne parla, ma molti sollevano dubbi di incostituzionalità – la destinazione del TFR a un fondo pensione è un’opzione che ha implicazioni sempre più concrete per i lavoratori di oggi, che devono fare i conti con l’eventualità assai probabile che le loro pensioni non basteranno per garantirsi lo stesso stile di vita avuto durante gli anni di lavoro.

Il TFR è una componente dello stipendio dei lavoratori dipendenti che viene maturata ogni anno in base a quanto si guadagna: è il 6,91 per cento della retribuzione annua lorda (poco meno della tredicesima) e l’azienda lo accantona e lo liquida al dipendente al momento della conclusione del rapporto di lavoro, qualsiasi sia il motivo (dimissioni, licenziamento o pensione). Facciamo un esempio: con una retribuzione annua di 30mila euro lordi si accumula ogni anno un TFR di circa 2mila euro lordi, che viene poi rivalutato dell’1,5 per cento e adeguato all’inflazione (il 75 per cento dell’indice annuale Istat). Se dopo 5 anni di lavoro si lascia l’azienda si ha quindi diritto a un TFR di 10 mila euro lordi più la rivalutazione e l’adeguamento.

Proprio perché è una somma di cui non si può disporre nell’immediato (tranne che per alcune eccezioni, ci arriviamo), molti decidono di vincolarla a un fondo pensione, cioè a un fondo che investirà per conto dei clienti il loro TFR in titoli sui mercati finanziari, con l’obiettivo di far crescere l’importo nel tempo e di erogarlo in futuro sotto forma di rendita a integrazione della pensione. Può essere gestito da vari intermediari, come banche, compagnie di assicurazione e fondi di categoria.

Per la sua funzione sociale è sottoposto a regole più stringenti dei fondi di investimento tradizionali e fornisce ai clienti tutele più alte: per esempio un fondo pensione non può fallire, e chi ci ha investito difficilmente potrà perdere integralmente i suoi soldi, che sono vigilati da una commissione ad hoc, la COVIP (Commissione di vigilanza sui fondi pensione). Tuttavia non sono strumenti senza rischi: anche i fondi pensione, come qualsiasi fondo di investimento, dipendono dall’andamento dei mercati finanziari, e ci sono periodi in cui guadagnano e altri in cui perdono.

In passato, quando i rapporti di lavoro tendevano a essere più lunghi e capitava molto più di frequente che un dipendente rimanesse in una sola società per tutta la sua carriera, il TFR rappresentava una sorta di “buonuscita”, una somma maturata in decenni di lavoro che proprio per la lunghezza del rapporto raggiungeva facilmente l’equivalente di decine di migliaia di euro.

Oggi le cose sono molto diverse. Innanzitutto è più raro lavorare sempre per la stessa azienda, e sono diventati più frequenti i casi in cui ci si sposta da una posizione a un’altra, con contestuale liquidazione del TFR e la mancata possibilità di accumularlo fino ad arrivare a una somma ingente. In più le carriere sono molto più discontinue di un tempo, e per molti dipendenti precari il TFR rappresenta una sorta di “cuscinetto” tra un lavoro a tempo determinato all’altro. Il TFR tenuto in azienda ha dunque perso in parte quella funzione di “buonuscita” dal mondo del lavoro, ed è più frequente che sia considerato semplicemente come liquidità aggiuntiva per far fronte alle spese.

Chi non vuole farne questo uso lo destina a un fondo pensione, in modo da accumularlo fino alla fine della carriera. Per i lavoratori di oggi disporre di un’integrazione alla pensione pubblica sarà più importante che in passato, quando grazie al sistema retributivo, basato sugli ultimi stipendi percepiti, si arrivava a pensioni piuttosto alte, con la possibilità di mantenere praticamente lo stile di vita raggiunto dopo decenni di carriera. Dal 1996 questo non avviene più, perché le riforme per rendere il sistema pensionistico sostenibile hanno introdotto il cosiddetto sistema contributivo, che calcola l’importo della pensione sulla base dei contributi versati. Il divario tra reddito da lavoro e reddito da pensione sarà tanto più ampio quanto meno contributi si sono versati, per esempio in caso di carriere discontinue, periodi di non occupazione e periodi a basso reddito – e quindi pochi contributi versati – nei primi anni di lavoro.

Anna Vinci è cofondatrice di Ciao Elsa, un portale di divulgazione finanziaria e consulenza in materia di pensioni, specializzata proprio in previdenza complementare e gestione del TFR. Ai suoi clienti Vinci fa un esempio semplice ma molto efficace per far capire che le pensioni dovranno essere fatte di vari elementi per essere sufficienti, quello che lei chiama «l’esempio della casetta: la pensione pubblica rappresenta un pilastro che tiene su la casa, ma da solo non basterà più. Il TFR può essere il secondo pilastro, e potrà servire a colmare quello che si chiama il divario previdenziale, cioè quel 40-50 per cento che di colpo ti troverai tolto quando andrai in pensione». Prima quello sul TFR era un ragionamento che si poteva evitare, oggi non pensarci rischia di danneggiarci, secondo Vinci.

Per tutte queste ragioni potrebbe sembrare che la scelta del fondo pensione sia per forza quella migliore, ma non esiste una decisione valida per chiunque: ci sono molte cose di cui tenere conto, sia fattori puramente economici che altri legati alle preferenze personali sulla gestione del denaro.

C’è innanzitutto una valutazione più legata a come gestiamo emotivamente la questione di mettere via i soldi per un futuro che sembra lontano. Solitamente quando si inizia a valutare di farsi un fondo pensione si pensa che dovremo fare a meno di certe somme per destinarle all’accumulo nel fondo. Nel caso del TFR questa componente non c’è, perché è una somma di cui non si può disporre. «È la cosa bellissima del TFR, cioè che non sono soldi che ti pagano a fine mese, quindi non te li devi togliere dalle tasche per metterli in un fondo pensione», dice Vinci.

Secondo Vinci poi ci sono ulteriori quattro cose da tenere a mente quando si deve decidere se tenere il TFR in azienda o investirlo in un fondo pensione (in realtà per le aziende con più di 50 dipendenti viene gestito dall’INPS, ma le considerazioni non cambiano).

La prima riguarda quale scelta garantisce alla fine un importo più alto. Lasciarlo in azienda rende mediamente tra il 2,5 e il 3 per cento, che come detto comprende la rivalutazione obbligatoria dell’1,5 per cento e l’adeguamento del 75 per cento all’inflazione (considerando un’inflazione media del 2 per cento). Su questi soldi si ha un controllo diretto ogni mese tramite la busta paga.

Metterlo in un fondo pensione rende di più a fronte però della scelta di darlo in gestione per farlo investire sui mercati finanziari: se ne perde il controllo ma la rendita potrebbe essere maggiore. Dipenderà da quanto più si opta per investimenti considerati più rischiosi: senza scendere troppo nel dettaglio, a fronte di un maggior rischio – come potrebbe essere l’investimento nelle azioni di un’azienda particolarmente innovativa, il cui valore può facilmente salire come crollare – viene riconosciuto un rendimento maggiore per compensare l’incertezza. Al contrario, gli investimenti meno rischiosi rendono meno perché danno la garanzia di un guadagno certo, come potrebbero essere quelli in titoli di Stato, che hanno un andamento molto più regolare delle azioni.

Quando si decide di investire in un fondo pensione il cliente dice espressamente che tipo di rischio vuole prendersi. Viene stilato cioè il profilo di rischio del cliente, una sorta di “mandato” di investimento da cui il fondo non dovrà discostarsi. Il cliente può decidere di volere un rendimento alto, accettando un maggiore rischio di perdite, e dunque il fondo avrà il permesso di investire i suoi soldi anche in titoli che considera più altalenanti ma più redditizi; al contrario può accontentarsi di un guadagno più basso, ma sicuro, e quindi il fondo si limiterà a investirli in attività più conservative, o può scegliere una posizione intermedia.

Non esiste una scelta giusta o sbagliata, e ognuno deve decidere sulla base della propria propensione al rischio e delle proprie esigenze (detto che generalmente i fondi pensione, vista la loro particolare funzione sociale, hanno un atteggiamento più prudente della media del settore finanziario: un alto profilo di rischio per loro potrebbe essere uno medio per un fondo di investimento tradizionale, così come uno basso in un fondo particolarmente prudente potrebbe equivalere alla scelta di lasciarlo in azienda).

Nel caso dei fondi pensione bisogna anche uscire dalla logica più comune dell’investimento, che vorrebbe un costante monitoraggio dei risultati, dice Vinci. I fondi pensione mostrano il loro rendimento effettivo dopo decenni, quindi anche un profilo rischioso è in grado in questo lungo periodo di compensare perdite momentanee. È meglio evitare quindi di controllare spasmodicamente il saldo e di farsi prendere dal panico se è in rosso, e darsi invece scadenze allungate nel tempo dove valutare se cambiare o meno profilo di rischio. Lei consiglia di scegliere un profilo di rischio più alto per i primi decenni, quando si possono fare buoni guadagni e avere tutto il tempo per compensare eventuali perdite, per poi ridurlo gradualmente verso il momento della pensione, quando è più raccomandabile tenere il valore dell’investimento più costante vista l’imminente liquidazione.

Per comparare la redditività delle due opzioni bisogna anche tenere in considerazione i costi di gestione: tenere il TFR in azienda non ha costi, mentre affidarlo a un fondo ha costi annuali che vanno valutati, e che possono essere fissi o in percentuale dell’importo gestito.

Il secondo aspetto da considerare riguarda la tassazione, che differisce molto nei due casi. Se lasciato in azienda subisce la tassazione dei redditi da lavoro, dunque dal 23 al 43 per cento, a seconda del livello di reddito degli ultimi 5 anni. Se investito in un fondo la tassazione è invece agevolata: quella massima è del 15 per cento e scende col passare degli anni, fino a raggiungere il 9 per cento. La differenza finale può essere sostanziale.

La terza cosa da valutare è legata alla necessità di attingere a liquidità extra per far fronte a spese impreviste: ci sono regole ben precise sia per gli anticipi da parte delle aziende che da parte dei fondi pensione, ma generalmente se la somma è lasciata in azienda è più facile ottenerla.

In questo caso infatti si può chiedere un anticipo una volta nel corso di tutto il rapporto di lavoro, e dopo almeno otto anni dall’assunzione, per due motivazioni: acquisto o ristrutturazione della prima casa, oppure per spese sanitarie. Il datore di lavoro può accordare un anticipo anche al di fuori dei casi previsti dalla legge, quindi prima degli otto anni e anche per altre motivazioni; allo stesso tempo può rifiutarsi anche nei casi previsti dalla legge se nello stesso periodo lo ha già concesso ad altri dipendenti, e un’anticipazione ulteriore potrebbe dare problemi di liquidità all’azienda.

Se il TFR è in un fondo pensione le regole sono simili, ma più vincolanti perché non c’è possibilità di deroga. Si può accedere al denaro: in caso di disoccupazione; per far fronte a spese sanitarie, per cui si può aver accesso al 75 per cento dei fondi da subito; dopo otto anni si può ottenere fino al 75 per cento della somma per acquisto o ristrutturazione della prima casa oppure un 30 per cento senza fornire alcuna spiegazione. Ovviamente se si ritirano i soldi dal fondo saranno soggetti a tassazione, che resta agevolata per far fronte alle spese sanitarie e ad alcuni periodi di disoccupazione, mentre è del 23 per cento per gli altri casi.

Solitamente la liquidazione anticipata da parte dell’azienda è più veloce, quindi potrebbe essere più comoda in caso di urgenze, mentre quella da parte del fondo pensione può richiedere fino a sei mesi.

Le modalità con cui si può accedere alla somma cambiano anche al momento della liquidazione finale. Il TFR lasciato in azienda viene pagato tutto insieme alla fine, al netto delle imposte. Il fondo pensione ha invece l’obiettivo di fornire una rendita mensile; se l’ammontare accumulato è inferiore a una certa soglia (che cambia ogni anno ed è un multiplo della pensione sociale), il fondo può liquidarlo tutto insieme, altrimenti la strada obbligata è quella di dare al cliente ogni mese una rendita aggiuntiva alla pensione. Spesso gli investitori più esperti decidono dunque di aprire varie posizioni, in modo da garantirsi in futuro varie somme sotto la soglia da percepire tutte insieme per fare altri investimenti.

Il quarto e ultimo aspetto è legato alla possibilità di cambiare idea sulla destinazione del TFR. Solitamente, tramite un modulo consegnato direttamente dall’azienda, si deve comunicare cosa farne entro sei mesi dalla data di assunzione. Se non si comunica niente allora il datore di lavoro lo destinerà automaticamente al fondo pensione di categoria, con l’indicazione del minimo profilo di rischio.

Se si decide di tenerlo in azienda, in un secondo momento si potrà sempre scegliere di destinare la somma accumulata a un fondo pensione. Quando invece si decide di darlo in gestione a un fondo, questa scelta non è reversibile. Si può attingere ai fondi solo nei casi previsti per gli anticipi, ma si può sempre decidere di spostare le somme da un fondo a un altro: per esempio se si cambia settore non si potrà continuare a usare il fondo di categoria, e si potrà decidere di spostare le somme e di chiuderlo, o di tenere lì quei soldi fino alla liquidazione.

– Ascolta anche: In Soldoni, il podcast del Post sulle cose legate ai soldi