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  • Giovedì 29 agosto 2024

Il primo di centinaia di test atomici sovietici

Venne effettuato 75 anni fa in Kazakistan: fu la prima di 456 bombe atomiche fatte esplodere in quel sito, con effetti che durano ancora oggi

Semipalatinsk
Un modellino di test nucleare al Poligono di Semipalatinsk, nella città di Kurchatov, Kazakistan, 7 novembre 2023 (REUTERS/Pavel Mikheyev)
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Il 29 agosto del 1949, esattamente 75 anni fa, l’Unione Sovietica testò con successo la sua prima bomba atomica: successe nel poligono di Semipalatinsk, in Kazakistan, e il fumo a forma di fungo che fu prodotto dall’esplosione fu visto anche dalla popolazione che abitava nelle città più vicine, anche se allora nessuno aveva idea di cosa fosse. Il test fu effettuato con successo quattro anni dopo i primi test dello stesso tipo realizzati dagli Stati Uniti, e molto prima di quanto le intelligence occidentali si aspettassero. Fu un momento fondamentale nella Guerra fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica e fu il primo di 969 test nucleari condotti dall’URSS fra il 1949 e il 1990.

Di quei 969 test, 456 avvennero nel poligono nucleare di Semipalatinsk, esponendo alle radiazioni tra 500mila e 1,5 milioni di persone, secondo le stime. Causarono nei decenni malattie, malformazioni e morti, mai davvero studiate fino al crollo dell’Unione Sovietica, anzi per lo più nascoste e non riconosciute. Oggi il sito atomico appartiene al Kazakistan e gli oltre 18mila chilometri quadrati, per lo più di steppa, non sono recintati e restano accessibili. Ma sono anche fortemente radioattivi, a più di trent’anni dall’ultimo test.

Il programma nucleare sovietico era ufficialmente partito nel 1941, affidato al fisico nucleare Igor Vasilyevich Kurchatov e supervisionato a livello politico, dal 1942, da Lavrentij Pavlovic Beria, uno dei più stretti collaboratori di Josip Stalin. Il programma non fu particolarmente finanziato fino al 1945: quell’anno, in seguito al lancio delle bombe atomiche statunitensi su Hiroshima e Nagasaki, Stalin impose una decisa accelerazione per arrivare più in fretta possibile ad avere la “superarma”. Fece affidamento sulla collaborazione di scienziati tedeschi precedentemente al servizio del regime nazista e fece ampio ricorso allo spionaggio, ottenendo informazioni dai centri di ricerca negli Stati Uniti.

Per molti anni il problema principale fu reperire l’uranio grezzo, tanto che il primo reattore di ricerca operava con uranio proveniente da riserve tedesche e dei paesi dell’Europa orientale. Quando infine la bomba fu vicina a essere realizzata, venne identificato come adatto ai test il sito in Kazakistan, circa 150 km a ovest di Semipalatinsk, oggi Semej. Era un’area di steppa, che il regime sovietico definì “disabitata”, nonostante nelle città e nei piccoli centri vicini vivessero decine di migliaia di persone. Il lavoro di costruzione dei laboratori e della ferrovia che li collegava al sito individuato per il test fu affidato per lo più a detenuti.

I palazzi dei laboratori e del reattore di ricerca a Kurchatov (AP Photo/Alexander Zemlianichenko)

Da inizio agosto iniziarono le prove generali, in modo da assicurarsi che tutti sapessero cosa fare: per questo e per alcuni dei successivi test, nell’area intorno all’esplosione vennero costruite case, un ponte e una finta stazione sotterranea della metro, in modo da valutare gli effetti della bomba: a diverse distanze vennero posizionati anche carri armati, mortai e aerei da guerra. Secondo alcune fonti vennero usati anche degli animali per valutare gli effetti sugli esseri viventi.

La bomba, chiamata RDS-1, o Pervaya Molniya, Primo Raggio, venne trasportata nel luogo definito alle 2 del mattino del 29 agosto e alcune ore dopo venne fatta esplodere: era una bomba a fissione al plutonio ed era in grado di liberare un’energia di 20 chilotoni (ovvero quella liberata da 20mila tonnellate di tritolo). Kurchatov e Beria erano presenti, l’esperimento fu considerato un successo e gli effetti furono superiori alle attese degli scienziati, tanto che non tutti i centri abitati dell’area circostante erano stati fatti evacuare come sarebbe stato opportuno: si tenne conto infatti più dei danni locali dovuti all’esplosione che di quelli causati dalle radiazioni anche a grande distanza.

L’operazione fu mantenuta segreta, ma gli Stati Uniti monitoravano eventuali progressi sovietici nel programma atomico da anni, e utilizzavano aerei, ufficialmente impiegati per studi meteorologici, attrezzati per identificare l’aumento di radiazioni. Il 3 settembre quello in viaggio dal Giappone all’Alaska rilevò un aumento della radioattività compatibile con un test. Dopo ulteriori indagini, il 23 settembre il presidente statunitense Harry Truman comunicò ufficialmente di «avere prove» di un’esplosione atomica in Unione Sovietica. Gli americani chiamarono la bomba Joe-1, un riferimento a Josip Stalin.

I quotidiani americani dopo l’annuncio di Harry Truman (Keystone/Hulton Archive/Getty Images)

Il progresso sovietico spinse gli Stati Uniti a sviluppare in tempi più stretti la bomba a idrogeno, un ordigno a fusione nucleare. Passarono invece due anni prima che l’Unione Sovietica sostenesse un nuovo test, sempre a Semipalatinsk e questa volta con una bomba a fissione all’uranio. Da allora nella zona fu costruita una città, chiamata Kurchatov in onore del fisico, quattro aree principali per i test e due reattori di ricerca.

Fino al 1963 furono condotti 116 test atmosferici, cioè facendo scoppiare le bombe all’aperto. Dopo la firma di un trattato con gli Stati Uniti che limitava gli esperimenti furono invece condotti sottoterra, in tunnel e pozzi. A Semipalatinsk l’Unione Sovietica testò anche un uso “pacifico” delle esplosioni nucleari: l’idea era di utilizzarle per creare laghi artificiali, per scavi in miniera o nella costruzione di grandi infrastrutture.

Misurazioni della radioattività nell’area di Semipalatinsk (AP Photo)

Gli esperimenti andarono avanti fino al 1989. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, nel 1991, i russi abbandonarono laboratori e area, portandosi via documenti e progetti e lasciando poche indicazioni anche sul materiale radioattivo ancora presente in tunnel e cunicoli. Nello stesso anno il Kazakistan chiuse il sito, ma fece poco per isolarlo o bonificarlo: iniziarono invece gli studi degli effetti sulla popolazione locale, che rivelarono subito un’incidenza di tumori notevolmente superiore alla media del paese, che continua anche trent’anni dopo.

Il governo kazako, a partire dalla fine degli anni Novanta e fino al 2012, sfruttò la collaborazione degli Stati Uniti per chiudere oltre 180 tunnel e 13 pozzi utilizzati per i test e per recuperare e mettere in sicurezza una gran quantità di plutonio ancora presente nel sito.

Il Poligono è attualmente sede dell’Istituto kazako per la sicurezza dalle radiazioni e per l’ecologia e collabora con studiosi e associazioni internazionali che indagano sugli effetti a lungo termine delle radiazioni, sull’ambiente e sugli uomini. L’area è però poco presidiata e non esistono particolari indicazioni che avvertano sulla sua pericolosità: la popolazione locale ha ricominciato ad allevare animali, coltivare frutta e ortaggi e a pescare e nuotare in fiumi e laghi dell’area.

Il sito è oggetto di un particolare turismo, con guide locali che organizzano costosi tour nelle strutture abbandonate, ma anche di miniere illegali dove si cerca di estrarre i metalli preziosi presenti in zona.