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  • Giovedì 29 agosto 2024

L’Ecuador doveva smettere di estrarre petrolio in Amazzonia: non l’ha fatto

Un anno fa un referendum stabilì la chiusura di un sito di estrazione nel parco nazionale di Yasuní: il tempo per farlo è scaduto, non è cambiato nulla

Una protesta della comunità indigena Waorani ad agosto (EPA/JOSE JACOME)
Una protesta della comunità indigena Waorani ad agosto (EPA/JOSE JACOME)
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Un anno fa in Ecuador si votò per un referendum per decidere se proseguire o meno le estrazioni petrolifere nel parco nazionale Yasuní, nella foresta amazzonica, uno degli ecosistemi più ricchi e incontaminati della Terra. Vinse il “no” con quasi il 60 per cento dei voti e un tribunale costituzionale del paese diede un anno di tempo al governo e alla compagnia petrolifera nazionale Petroecuador per smantellare le strutture e lasciare il sito. Un anno dopo, nulla è cambiato: il processo di chiusura dei pozzi non è ancora cominciato e il governo ecuadoriano ha chiesto una proroga di cinque anni per la chiusura.

Il risultato del referendum era stato definito “storico”. Era stato anche il primo referendum promosso direttamente da cittadini e cittadine ad arrivare al voto, e andava nella direzione della tutela ecologica e delle popolazioni indigene.

Il parco nazionale Yasuní comprende un’area di circa 10mila chilometri quadrati fra la foresta amazzonica e le Ande, attraversata dall’equatore, nell’est dell’Ecuador. Si stima che in un solo ettaro del parco Yasunì ci siano più specie animali che in tutta l’Europa e più specie vegetali che in tutto il Nord America. Nell’area abitano anche tre popolazioni indigene, i Waorani, attivi nel sostenere il referendum, e due delle ultime comunità che vivono in un volontario isolamento, i Taromenane e i Tagaeri.

Il sito è però anche una importante risorsa economica per l’Ecuador: il petrolio è una delle principali fonti di entrate del paese (un terzo circa del PIL), il sito produce 55mila barili al giorno, il 12 per cento del totale dell’Ecuador. Il governo prima del referendum stimò in 16 miliardi e mezzo di dollari la perdite in vent’anni in caso di blocco delle estrazioni.

L’impianto di estrazione (EPA/Fernando Gimeno)

Oggi le associazioni che sostennero il referendum denunciano il governo di non avere rispettato la volontà popolare. Il governo ritiene invece che un anno fosse un tempo troppo breve per procedere alla chiusura. Antonio Goncalves, nuovo ministro dell’Energia nominato a luglio, ha detto: «È una cosa che non è mai stata fatta, in Ecuador ma anche all’estero: la chiusura deve avvenire in modo responsabile». Secondo i promotori del referendum la richiesta di una proroga di cinque anni indica che il governo vuole di fatto rinviare il più possibile la chiusura.

Il presidente Daniel Noboa, eletto a novembre 2023, ha intrapreso politiche molto aggressive e dispendiose nei confronti della bande di narcotrafficanti che avevano preso il controllo di parti importanti del paese e sembra ritenere particolarmente complesso rinunciare a parte delle entrate garantite da Petroecuador. L’Ecuador in questa fase sta faticando a trovare i fondi per ripagare i debiti contratti con l’estero e con organizzazioni internazionali.

Varie organizzazioni ambientaliste, fra cui Amazon Watch, dicono però che il sito di estrazione nel parco Yasuní, chiamato “Blocco 43”, causa ricorrenti fuoriuscite di petrolio, con effetti non solo sull’ambiente, ma anche sulla salute degli abitanti della zona: incidenza più alta di tumori, aborti spontanei e problemi respiratori.