Il racconto dello sport paralimpico è cambiato
Nelle campagne promozionali e sui social, atlete e atleti sono meno "superumani" di una volta e delle loro disabilità si può addirittura scherzare
Per le Paralimpiadi di Londra 2012 la televisione pubblica britannica Channel 4, che trasmetteva i Giochi, fece un’estesa campagna pubblicitaria intitolata «Eccovi i superumani», che ebbe grande risonanza mediatica internazionale e negli anni successivi influenzò molto il racconto dello sport paralimpico. Non fu la prima o l’unica di quel tipo, ma è tuttora una delle più note e ricordate. Da qualche tempo il movimento paralimpico sta facendo diversi sforzi per liberarsi da quella retorica, che vede gli atleti con disabilità come persone “speciali” o “supereroi”, da esaltare per il solo fatto che riescano a partecipare alle Paralimpiadi.
Da alcuni anni, e in vista delle Paralimpiadi di Parigi 2024, il Comitato paralimpico internazionale ha avviato un tipo di comunicazione che ha l’obiettivo di far concentrare il pubblico più sull’attività sportiva degli atleti paralimpici che sulla loro storia di persone disabili; che spieghi le particolarità di certi sport meno noti e che mostri le difficoltà degli atleti legate alle disabilità come una parte dei molti problemi che qualsiasi sportivo di alto livello deve affrontare, senza drammatizzarle. Gli atleti paralimpici stessi ultimamente hanno preso sempre più spesso posizione per chiedere di essere trattati appunto come tutti gli atleti professionisti, piuttosto che come persone e atleti in qualche modo “speciali”.
Come parte di questa nuova strategia comunicativa, sui social network e soprattutto su TikTok, i profili ufficiali delle Paralimpiadi pubblicano ormai sistematicamente video in cui si scherza sulla disabilità, nel tentativo di normalizzarla ma anche di aumentare la visibilità degli sport paralimpici e attirare l’interesse del pubblico: alcuni video sono stati criticati perché giudicati sconvenienti, per esempio perché si fa ironia su un atleta cieco che non trova la sua bici. Ma è un approccio rivendicato dal Comitato paralimpico, sta avendo successo ed è stato accolto generalmente bene dagli atleti.
Le Paralimpiadi di Londra 2012 sono abbastanza unanimemente riconosciute come un grande momento di svolta per lo sport paralimpico, perlopiù in positivo. Fu la prima volta in cui le Paralimpiadi vennero davvero trattate come parte di un evento sportivo unico insieme alle Olimpiadi, invece che come qualcosa di secondario e isolato. La campagna di promozione fu senza precedenti (ebbe successo anche perché fu in lingua inglese) e iniziò con mesi d’anticipo. Nelle pubblicità erano molto presenti gli atleti paralimpici britannici, essendo Londra la sede, ma si puntò moltissimo soprattutto sul sudafricano Oscar Pistorius, che a quell’edizione dei Giochi sarebbe diventato il primo atleta amputato a gareggiare ai Giochi olimpici e che partecipò poi anche a quelli Paralimpici (vincendo in questi ultimi due ori e un argento). Attualmente Pistorius sta scontando una pena a oltre 13 anni di carcere per aver ucciso la sua ex compagna Reeva Steenkamp (all’inizio del 2024 è uscito di prigione ma è ancora in libertà vigilata).
Londra 2012 è tuttora l’edizione delle Paralimpiadi in cui vennero venduti più biglietti, 2,7 milioni, un numero che con ogni probabilità non sarà eguagliato nemmeno a Parigi 2024, nonostante fossero stati fatti piani per provare a superarlo. Fu in generale un’edizione di grande successo per diverse ragioni, che ebbe molto seguito anche grazie a una copertura televisiva eccezionale per le Paralimpiadi, almeno fino a quel momento, e che da quel punto di vista influenzò positivamente le edizioni successive.
L’eredità delle Paralimpiadi di Londra però è ancora oggi in parte dibattuta: a livello locale perché secondo molti a quel successo – che fu molto celebrato dalle istituzioni – non seguirono miglioramenti per la vita delle persone disabili nel Regno Unito; e poi a un livello più generale perché contribuirono a rendere popolare la retorica degli atleti paralimpici come “supereroi”. Oggi è ancora piuttosto presente e diffusa, ma è percepita da molti come superata ed è ormai ritenuta più che altro dannosa dagli addetti ai lavori.
Un esempio di come le cose siano cambiate solo di recente lo mostra l’approccio tenuto dalla stessa Channel 4: dopo la campagna pubblicitaria sui “superumani” del 2012, ci furono quella di Rio 2016 intitolata «Siamo i superumani» e quella di Tokyo 2020, «Super. Umano», tutte molto simili. Per Parigi 2024 invece il messaggio di fondo è radicalmente diverso. Il video della nuova campagna si intitola «Considerato cosa?», in riferimento a una scena in cui due ragazzi stanno guardando una gara paralimpica e una dei due commenta dicendo: «Sta andando bene lei, tutto considerato». L’altro le chiede, appunto: «Considerato cosa?».
«Piuttosto che mostrare gli atleti che “superano le loro disabilità”, il video ritrae i paralimpici che affrontano e superano forze come la gravità, l’attrito e il tempo […], che non fanno eccezione per nessun atleta», ha scritto Channel 4 in un comunicato per presentare la campagna. Non fa riferimento esplicito alla comunicazione usata per le precedenti edizioni dei Giochi, ma la rottura rispetto al passato è molto evidente. Tra le altre cose, Channel 4 ha assunto come presentatrice per i suoi programmi del pomeriggio l’attrice sorda Rose Ayling-Ellis.
Un altro esempio recente di un cambio di approccio allo sport paralimpico è il caso che si è creato in Francia intorno alle parole del judoka Teddy Riner, recente vincitore di due medaglie d’oro olimpiche, che alcuni giorni fa parlando in radio delle Paralimpiadi aveva descritto gli atleti sempre come «supereroi». Ci sono state molte reazioni critiche da parte di atleti paralimpici, francesi ma non solo. Il capitano della nazionale francese paralimpica di basket, Sofyane Mehiaoui, ha commentato la cosa sui suoi profili social rivolgendosi direttamente a Riner: «Devi smetterla di parlare di noi in questo modo, non ci stai aiutando», ha detto. E ancora «prima di essere persone disabili, siamo atleti di alto livello».
Un’altra atleta paralimpica francese, la giocatrice di tennistavolo Thu Kamkasomphou, ha commentato: «Quando la gente mi dice “avete più meriti degli altri”, io dico no! Facciamo solo sport in modo diverso. Loro hanno le loro difficoltà, noi le nostre». Kamkasomphou, che ha 55 anni ed è nata in Laos, è alla sua settima Paralimpiade e ha vinto medaglie in tutte le precedenti sei edizioni a cui ha partecipato dal 2000. Lo svizzero Marcel Hug, uno dei migliori atleti paralimpici di sempre, che gareggia su varie distanze della corsa, ha commentato il caso sul suo blog scrivendo che «una copertura mediatica equa e critica significa che siamo presi sul serio», auspicando quindi anche commenti negativi sulle prestazioni degli atleti paralimpici.
In generale molti atleti paralimpici si stanno spendendo per incoraggiare un racconto diverso della loro attività sportiva. Nelle ultime settimane per esempio molti hanno condiviso sui social network una campagna creata dal Comitato paralimpico internazionale, con una foto che dice: «Non parteciperò ai Giochi paralimpici di Parigi 2024», e lascia credere a chi legge che la scritta sia l’annuncio di un infortunio o comunque di un ritiro dalla competizione. Scorrendo alla foto immediatamente successiva invece si legge: «Gareggerò». L’intenzione è sottolineare come nel racconto dei media gli atleti paralimpici siano spesso descritti come “partecipanti”, invece che come “persone che competono” (la campagna usa il termine inglese “competitors”). L’ha condivisa anche la nota schermitrice italiana Beatrice “Bebe” Vio, facendo spaventare diversi fan.
Sembra che anche gli sponsor stiano andando nella stessa direzione. In questi giorni il grande marchio sportivo Nike ha pubblicato uno spot sulle Paralimpiadi che è parte di una campagna più ampia intitolata “Winning isn’t for everyone”, vincere non è per tutti. Il nuovo video mostra scene di sport paralimpici accompagnate dalla voce proprio di Bebe Vio, che dice: «Dicono che già solo il fatto di essere qui vuol dire vincere, che partecipare vuol dire vincere… L’ultima volta che ho controllato io, vincere voleva dire vincere». Il messaggio è piuttosto chiaro: agli sportivi con disabilità interessa vincere esattamente come interessa a tutti gli altri.
Secondo Giulia Riva, giornalista e nuotatrice paralimpica che commenterà sulla Rai i Giochi di Parigi 2024, «si sta cominciando a capire che quando parli di giochi paralimpici devi parlare prima della competizione, e lasciare l’aspetto sociale in seconda battuta». Riva dice anche che non è semplice, perché spesso le due cose vanno necessariamente tenute insieme: «Bisogna dare gli strumenti per seguire gli sport, far capire le regole che sono tante» e spiegare le categorie in cui gareggiano gli atleti a seconda della disabilità.
La copertura giornalistica della Rai a cui contribuirà Riva – che sarà nel programma serale SportAbilia, su Rai Sport – è peraltro un’altra dimostrazione di come sta cambiando il racconto mediatico degli sport paralimpici: per la prima volta le Paralimpiadi saranno trasmesse durante tutta la giornata da una rete generalista in chiaro, Rai 2.
L’altra grossa parte del racconto mediatico riguarda i social network. Le cose più visibili stanno succedendo su TikTok, dove le Paralimpiadi hanno un profilo ufficiale dal 2020 che oggi è seguitissimo: ha 4 milioni e mezzo di follower (molto più che su qualsiasi altro social network) e per via della sua crescita nell’ultimo anno ha suscitato molti commenti, apprezzamenti e qualche critica. In generale certi contenuti hanno destato un certo stupore per il fatto che scherzano senza troppe inibizioni sulle disabilità degli atleti: c’è per esempio un video in cui una cestista cade goffamente dalla carrozzina dopo aver preso una pallonata in testa, o di un’altra a cui la palla si incastra sotto la carrozzina fino a farla ribaltare; o ancora un video che mostra l’arrivo concitato in una gara di un ciclista con una sola gamba, con sotto una canzone che ripete «sinistra, sinistra, sinistra, sinistra» (la canzone originale direbbe anche «destra», ma è stata modificata apposta).
In parte sono contenuti pensati per TikTok, dove video divertenti abbinati a certi trend o a certe canzoni funzionano bene, ma in parte servono anche per far conoscere meglio gli atleti paralimpici, le loro discipline e le loro difficoltà: nel video del ciclista per esempio il profilo delle Paralimpiadi ha aggiunto anche un commento in cui spiega che l’atleta è l’australiano Darren Hicks, che in quella gara vinse l’oro nella prova a cronometro alle Paralimpiadi di Tokyo. «Ridiamo con gli atleti, non degli atleti», ha commentato in un’intervista Craig Spence, responsabile della comunicazione del Comitato paralimpico internazionale. Secondo Spence questi contenuti ironici sono positivi perché possono diventare virali e allo stesso tempo «insegnare alle persone le difficoltà che devono affrontare gli atleti paralimpici».
Il fatto che si possa ridere della disabilità comunque non è niente che stupisca le persone del settore o che lo conoscono meglio: «È un ambiente dove è sdoganata qualsiasi cosa, l’unica che dà fastidio è la pietà», dice Giulia Riva. Gli stessi atleti paralimpici scherzano spesso sulle proprie disabilità. I tre nuotatori italiani Simone Barlaam, Federico Morlacchi e Alberto Amodeo per esempio hanno da poco reso pubblica una pagina Instagram che gestiscono insieme chiamata “le 3 gambette”, che ironizza sin dal nome sulle loro diverse disabilità alle gambe: Barlaam e Morlacchi hanno entrambi fin dalla nascita un’ipoplasia, cioè uno sviluppo incompleto, di un femore (rispettivamente destro e sinistro); Amodeo invece perse la gamba destra in un incidente a 12 anni.
Il racconto ironico e la richiesta degli atleti olimpici di essere trattati senza enfasi eccessive comunque non escludono gli obiettivi sociali e di inclusione che gli sport paralimpici si propongono fin da quando sono nati. Una delle ultime campagne molto condivise dagli atleti è stata per esempio quella in cui l’inaccessibilità degli spazi per le persone con disabilità nella vita quotidiana viene definita «la disciplina non ufficiale» degli atleti paralimpici. Giulia Riva la spiega così: «È un modo per ricordare che la fatica c’è anche nel gesto quotidiano, che riuscire nello sport non significa poter fare tutto e che parlare di “Superumano” non ha senso».