• di Mattia Carzaniga
  • Storie/Idee
  • Mercoledì 28 agosto 2024

Ma come diavolo mi sono vestito in tutti questi anni a Venezia?

«Un’immagine-lampo: il primo anno di carpet, tra gli attori attesi c’è Timothée Chalamet. E io dico: mica posso competere con Chalamet. E allora mi vesto di nero, e lui si presenta vestito di nero (ma sbrilluccicante). L’anno dopo c’è di nuovo Chalamet. E io dico: ormai io e Timmy siamo una cosa sola, stavolta possiamo sparigliare. E allora mi vesto di rosa (ma molto tenue, per chi mi avete preso!), e lui si presenta vestito di rosso (e con schiena nuda). Questo per dire, ancora, del racconto; e, ancora, della mia, giustamente calpestata, mitomania»

Mattia Carzaniga (a destra, in rosa) intervista Timothée Chalamet (a sinistra, in rosso) sul red carpet per la prima di Bones and All di Luca Guadagnino alla 79° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia (fotogramma Rai Movie)
Mattia Carzaniga (a destra, in rosa) intervista Timothée Chalamet (a sinistra, in rosso) sul red carpet per la prima di Bones and All di Luca Guadagnino alla 79° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia (fotogramma Rai Movie)
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Quando mi è stato chiesto «Mi scrivi una cosa sui maledetti outfit di Venezia?» (sic), la prima cosa a cui ho pensato è stata la valigina della mia amica M., piccolissima e però dentro c’è tutto, una specie di borsa di Mary Poppins da cui a ogni Venezia, ogni Cannes, ogni festival, tira fuori, non so come, smanicati leggeri, trench da pioggia, abitini da cocktail, e mille paia di scarpe e scarpine, dove le mette non si sa. E poi ho pensato a me col mio valigione all’arrivo, appena sceso dal treno, la chiesa di San Simeon Piccolo di fronte, e quella sindrome di Stendhal o forse di Katharine Hepburn in Tempo d’estate per cui ti senti tutto il fiato levato, e poi però vedi il tuo valigione, e pensi al vaporetto, o al taxi se ti dice culo (a Venezia, in quei giorni, si parla perlopiù romano), e se piove tiri tutti i San Simeoni del mondo ma nulla puoi fare, ti butti sotto l’acqua e finché non arrivi al Lido penserai «che due coglioni», e penserai «che meraviglia».

Ieri notte ho sognato che non avevo la giacca. Cioè ce l’avevo, ma era quella sbagliata. Panico. È una giacca nera!, non c’entra niente con questa camicia!, qui ci voleva lo smoking! Chiamavo G., la custode di tutte le mie giacche e molto di più, e non mi rispondeva, giustamente, chissà dov’era. Mancano pochi minuti al “carpet”, come lo chiamiamo in gergo. Vale a dire il tappeto rosso. Con Angelina Jolie? No, lei l’ho sognata un’altra volta, dovevamo decidere se fare il dibattito a Milano prima o dopo il film. Chissà che giacca avevo lì.

Faccio sempre questi sogni con le star, da ben prima di questa botta di mitomania da tappeti rossi. Una volta ero fidanzato con Meryl Streep, relazione osteggiatissima da tutti. Un’altra Tarantino raccontava solo a me il suo prossimo film (spoiler: era sempre su Hollywood, ma con un’attrice italiana). Tornando al sogno di partenza: mancano pochi minuti, ho la giacca sbagliata, forse addirittura le scarpe da ginnastica, ma siamo impazziti? E poi probabilmente mi sveglio, non sudato ma solo perché qui dove sono ora le temperature son ben diverse da quelle che mi accoglieranno a fine mese al Lido, dove come si sa (o non si sa), comincerà l’ottantunesima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Un’amica, tutte le mattine dall’inizio di agosto, posta il countdown della Mostra, -28, -21, -16… E io tutte le mattine penso: anche quest’anno ho solo un giorno per le lavatrici, che il meteo milanese me la mandi buona. È così da sempre, son quasi vent’anni oramai. Dopo un mese e più in giro, faccio un pit stop a casa più veloce dei meccanici della Ferrari, e riparto per Venezia. Non ho praticamente mai assistito a una di quelle “proiezioni di cortesia”, come le chiamiamo in gergo, cioè quando ti fanno vedere qualche giorno prima della Mostra i film, perlopiù italiani, che poi saranno presentati alla Mostra.

Questo non cambia mai, molte cose sono cambiate negli anni. Ho scritto per riviste specializzate, per femminili, maschili (intersessuali ancora no, ma è solo questione di tempo). Ho recensito, intervistato, scritto i pezzi di colore, come li chiamiamo in gergo. Sono andato alle feste quando ancora si potevano definire tali, ho scoperto la trattoria migliore (al Lido è un miracolo) e ho bevuto lo spritz peggiore (al Lido è la prassi). Ho stretto amicizie, le ho perse, le ho ritrovate. Ho seguito i consigli degli amici autoctoni, e non ne ho fatto parola con nessun forestiero. Ho visto dive americane, belle come il sole, chiedere champagne a tarda notte, ancora belle come il sole, e starlette italiane, imbronciate senza poterselo permettere, fare le bizze prima di una conferenza stampa, a cui poi si sarebbero presentate ancor più imbronciate. Ho litigato, flirtato, dormito poco, dormito in sala. Ma non mi sono mai domandato: come mi sono vestito, a Venezia, in tutti questi anni?

E già. Come mi sono vestito, in tutti questi anni di Mostra? E allora penso a come si vestono gli altri. Un’immagine-lampo: ho visto il documentario più bello di tutti i tempi – cioè The Last Emperor di Matt Tyrnauer – con il suo protagonista – cioè Valentino – in sala, e attorno a lui centinaia di accreditati con le ciabatte e la maglietta Marvel (no, a quei tempi non era ancora tutto così marvellizzato, ma insomma ci siamo capiti). Era una proiezione in Sala Grande, sì, ma del pomeriggio, e alle proiezioni del pomeriggio possono entrare tutti senza dress code, pure gli ultimi blogger – che ovviamente, ricordo oggi come allora, schifarono quel capolavoro, invece di venire schifati loro, così conciati.

Vedo, nei vecchi film dell’Istituto Luce, le Mostre di una volta e son tutti così lindi, decorosi, distinti (diceva mia nonna), le giacche bianche con il cravattino nero per i signori, le gonne taglio Dior per le invitate, e i cronisti con le polo ben stirate e i pantaloni con le pinces e la cinturina di cuoio sottile. Parlo di tutti, non solo di Alain Delon nelle foto postate dalla Biennale l’altro giorno. Sarebbe troppo facile. Lungi da me crogiolarmi nella nostalgia per epoche mai vissute, in un Midnight in Venice di Woody Allen con Peggy Guggenheim al posto di Gertrude Stein, ma come fai a non chiederti: dove siamo finiti?

È, senza dubbio alcuno, pure colpa delle mie Birkenstock, per quanto oggi approvatissime. E dunque: come mi sono vestito, in tutti questi anni di Mostra? Ricordo la giacca grigia che m’ha accompagnato a molte cene e molte feste. Quei pantaloni neri che ancora incredibilmente mi stanno, devo ricordarmi di ficcarli nel valigione anche quest’anno. Poi è arrivato “il carpet” – inciso per chi, comprensibilmente, non lo sa: con la portentosa squadra di Rai Movie, da qualche anno accolgo registi, registe, attori, attrici e tutti quelli che passano sul tappeto rosso, prima del loro ingresso in Sala Grande – e i relativi abiti, che sono un altro lavoro. C’è stata, al principio, l’intuizione di E., poi l’incontro con M. (o anche per esteso: Maurizio Miri, che il dio delle stoffe e delle forbici l’abbia in gloria). E la gita in atelier, la scelta dei colori, e quella del racconto, come lo chiamiamo in gergo – storytelling, in Rai, ancora non è entrato, per fortuna.

C’è stato il lavoro sugli outfit maschili da red carpet che, negli anni, sono cambiati, anche al di là del gender e delle pandemie, che hanno scombinato o informalizzato tutto. È cambiato, anche lì, il racconto. Un’immagine-lampo: il primo anno di carpet, tra gli attori attesi c’è Timothée Chalamet. E io dico: mica posso competere con Chalamet. E allora mi vesto di nero (total black, questo invece si può dire), e lui si presenta vestito di nero (ma sbrilluccicante). L’anno dopo c’è di nuovo Chalamet. E io dico: ormai io e Timmy siamo una cosa sola, stavolta possiamo sparigliare. E allora mi vesto di rosa (ma molto tenue, per chi mi avete preso!), e lui si presenta vestito di rosso (e con schiena nuda). Questo per dire, ancora, del racconto; e, ancora, della mia, giustamente calpestata, mitomania.

Timothée Chalamet sul red carpet per l’anteprima di Bones and All di Luca Guadagnino al 79° Festival del cinema di Venezia, 2 settembre 2022 (Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

Che però è la mitomania generale della bolla, di ogni bolla, e la Mostra è la bolla delle bolle, l’isola nell’isola dove, per due settimane, esistono solo i film, o quel che ne resta. Dove vedi sfilare, come su una terrazza della Grande bellezza, la grande bruttezza dei wannabe-qualsiasi-cosa, dove passi dall’haute couture ai bermuda, tutto in meno di un chilometro quadrato, a ogni ora del giorno. Il più elegante di sempre alla Mostra? Forse, a bruciapelo, David Byrne, giurato non so più in che anno. Andava avanti e indré sul lungomare con la sua biciclettina e le sue giacche di un blu che non ho più rivisto, tra sosia di Pavarotti e tronisti di Uomini e donne.

Forse non ho risposto alla consegna – «mi scrivi una cosa sui maledetti outfit di Venezia?» – ma so che, a questo punto, i cartoni con i miei vestiti da “carpet” son già partiti, li troverò nella mia stanza quando arriverò al Lido. Che avrò un giorno, e (spero) parecchie lavatrici, per decidere tutto. Che ora, ogni sera di Mostra, son diventato questa specie di Cenerentola da tappeto rosso e allora, anche se di giorno sono in borghese, forse non sta bene portarmi le Crocs che non mettevo da vent’anni e che ho riesumato questa primavera col trasloco, e adesso tutti i giorni mi chiedo come ho fatto a vivere senza. O forse sì, perché Venezia è così. Alla fine, comunque vada, comunque sarai vestito tu e saranno vestiti tutti, penserai sempre «che meraviglia».

Mattia Carzaniga
Mattia Carzaniga

Brianzolo classe 1983, si occupa di cinema per Rolling Stone Italia. Ha collaborato e collabora con diverse testate, e ha scritto i saggi L’amore ai tempi di Facebook (con Giuseppe Civati, Baldini Castoldi Dalai, 2009) e Facce da schiaffi (add editore, 2011). Dal 2021 per Rai Movie accoglie registi e attori sul tappeto rosso dei festival di Venezia e Roma.

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