Le case in stile scandinavo sono state soppiantate, ma da cosa?
L’arredamento minimal e funzionale in voga negli anni Dieci ha lasciato il posto a molte microtendenze, più massimaliste e personali
Nel 2016, quando a determinare le nuove tendenze era la generazione dei millennial e dominavano il colore rosa, i fenicotteri gonfiabili e le scritte a neon sulle pareti, il New Yorker pubblicò un pezzo spiegando che era stato l’anno della hygge, una parola danese intraducibile in inglese (e in italiano) ma usata continuamente per indicare lo stile di vita a cui si aspirava allora: un senso di benessere domestico e di intimità rassicurante che si traducevano sui social network con immagini di libri circondati da tazze e dolcetti e di case bianche, luminose e accoglienti, tra montagne di cuscini, strati di coperte, tappeti pelosi, graziosi cactus e festoni di lucine alle pareti.
Anche le case reali delle persone erano ispirate a quelle immagini, riprodotte centinaia di migliaia di volte su Instagram, su Pinterest, su blog di interior design e successivamente sui siti delle aziende di arredamento. Era uno stile in voga già da qualche anno ma era diventato preponderante perché era quello che i grandi produttori di mobili di massa, come la svedese Ikea, offrivano a prezzi accessibili ai venti-trentenni di allora, che avevano un potere di acquisto limitato ma che spadroneggiavano su Internet, finendo per influenzarsi e vicenda e creare un mondo di appartamenti, negozi e ristoranti tutti uguali.
Quello stile omologato – per cui un bar di Los Angeles e uno a Tunisi potevano avere gli stessi tavoli di legno, le stesse lampade con bulbo a vista e servivano muffin, granola e avocado toast – divenne noto come AirSpace, come lo definì per primo sul sito The Verge il giornalista Kyle Chayka. Fu reso ancora più popolare da Airbnb (la nota piattaforma digitale che offre affitti brevi), dove l’uniformità di stile degli appartamenti garantiva il tipo di esperienza che si stava cercando.
L’estetica AirSpace ha prodotto spazi spogli e finti ma era nata ispirandosi a una tradizione importante del design, cioè lo stile scandinavo, nato in Svezia, Danimarca e Norvegia a inizio Novecento e con un intento non così diverso dal design industriale italiano: offrire mobili e arredi belli, funzionali e accessibili a tutti. Ispirato ai principi del Bauhaus degli anni Trenta, è uno stile funzionale, con pezzi di arredamento ergonomici e pratici e con molti posti per immagazzinare e contenere. Per la stessa ragione è uno stile minimalista, che libera da accumuli ed eccessi e facilita la gestione, l’utilizzo e la pulizia delle cose.
Il suo minimalismo, però, non è scarno ma accogliente: fa molto uso del legno, dei colori caldi come la salvia e l’avorio, della luce, delle tende per separare gli spazi e creare nicchie, e di graziose decorazioni come piantine, quadretti e candeline. Spesso viene confuso con lo stile nordico, che ha una diffusione geografica più vasta, i paesi freddi, ed è più rustico, un po’ da chalet, non necessariamente funzionale, con colori terrosi e molto artigianato. Entrambi ricercano una certa idea di hygge e fanno molta attenzione alla sostenibilità ambientale: nei metodi di produzione, nei materiali e nell’utilizzo di mobili di recupero e vintage, soprattutto di modernariato, cioè di pezzi prodotti tra il Secondo dopoguerra e gli anni Sessanta.
Questo gusto ha dominato per 10-15 anni, soprattutto grazie alla forza amplificatrice di Internet: era quello della classe media e giovane, la più visibile su Internet, e non necessariamente quello di chi poteva permettersi case più ricche e lussuose. Anche nel momento della sua maggiore diffusione, infatti, in altri contesti erano apprezzati progetti eccentrici e massimalisti.
Nel 2014 per esempio la designer franco-iraniana India Mahdavi ridisegnò la sala “Gallery” del famoso ristorante sketch di Londra utilizzando soltanto il colore rosa – per le pareti, le poltroncine, i divanetti e i soffitti – che diventò il ristorante più condiviso su Instagram al mondo. Oggi quelle immagini non sembrano così innovative ma all’epoca, dopo anni di case bianche e squadrate, lo furono.
Fu significativo anche l’arrivo dello stilista Alessandro Michele alla direzione creativa dell’azienda di moda Gucci perché riportò al centro lo stile massimalista – fatto di accumulo, eccessi, contrasti e recupero di pezzi storici – non solo nell’abbigliamento ma anche nell’interior design. Nel 2017 Michele aprì Gucci Decor, la linea dedicata all’arredamento per la casa del marchio, dove si trovavano porcellane della prestigiosa azienda Richard Ginori, fondata a Sesto Fiorentino nel 1735, paraventi, decorazioni animalier, velluti, tazze ispirate all’art déco, riproduzioni di stampe di erbari, e contribuì a far apprezzare un arredamento sontuoso e al limite del kitsch anche alle masse, non perché i prezzi fossero accessibili ma per le immagini diffuse ovunque.
– Leggi anche: Con il rosso tornerà anche il massimalismo nella moda?
Nel 2018 al Salone del mobile di Milano, la più grande fiera del settore al mondo, lo stile scandinavo era ancora preponderante ma su internet e sulle riviste specializzate si scriveva che stava per essere soppiantato dal massimalismo. Aiutò anche l’anniversario dei 40 anni del gruppo Memphis, il movimento di interior design fondato a Milano nel 1981 da Ettore Sottsass, celebrato con mostre e pubblicazioni in tutto il mondo, che ne fecero conoscere i colori accesi, le forme sorprendenti, lo spirito ironico, diffondendo l’idea che un oggetto non dovesse essere soltanto funzionale ma avere anche un significato simbolico e affettivo.
Oggi non esiste una tendenza unica che abbia sostituito lo stile scandinavo degli anni Dieci, che nel frattempo si è molto legato a quel periodo storico e appare un po’ vecchio e in certi casi addirittura ridicolo (come i tic e le fisse di quelli a cui piaceva): come un po’ per tutto, ci sono tante microtendenze che si susseguono rapidamente sui social network.
Da qualche anno però c’è più decoratività: il muro più fotogenico non è bianco, ma colorato anche se con toni pastello, è tornata la boiserie (cioè i pannelli di legno alle pareti), le linee sono più curve, c’è molta attenzione alla sostenibilità ambientale e al gusto personale e, soprattutto, con il diffondersi di hobby e tempo libero dopo il Covid, c’è stata una riscoperta del do it yourself, cioè gli oggetti e i mobili fatti in casa.
Si spende molto nell’oggettistica e soprattutto nelle lampade, i cui costi contenuti consentono di comprare un oggetto di design riconoscibile. Secondo Studiopepe, fondato a Milano nel 2006 e considerato tra gli studi di interior design più rappresentativi del momento, «c’è più voglia di contaminazione, a volte di colore, o all’opposto di nero»; «stanno anche tornando gli anni ’90, con ambienti minimal, un po’ duri, metalli freddi al posto di caldi, come l’oro, e pelle al posto di velluto».
Intanto molte aziende storiche di design, come Cassina, Zanotta, B&B, stanno rieditando pezzi storici molto richiesti sul mercato del vintage, come la linea di divani e poltrone Bambole, il divano Onda e il divano Soriana.
La poltrona Bambola progettata da Mario Bellini del 1972 per B&B
In generale, poi, c’è un po’ di tutto, come testimoniano le riviste di settore e account Instagram di interior design di successo tra cui Tat London e Josh & Matt: dalla villona dal minimalismo asettico allo stile scandinavo, che si è evoluto in una direzione più pop, giocosa e divertente, resa possibile dalla sua natura minimalista ma non spoglia: la differenza rispetto al massimalismo è che qui ogni cosa è curata e al suo posto, con una certa armonia di fondo.
La casa massimalista dell’interior designer Kate Hielema Morgan
Tra le tendenze più interessanti tra chi può permettersi di progettare una casa c’è quella rappresentata da Dimorestudio, studio di design fondato a Milano nel 2003: una casa ricca e decorata, con pezzi su misura, boiserie, velluto, ottone e pezzi vintage, non di modernariato ma più antichi, dal Barocco in poi. È un gusto che si ritrova anche nel lavoro di Daniele Daminelli che, dopo sette anni da Dimorestudio, ha fondato il suo Studio 2046 a Treviglio, nel 2017, dove mescola stili ed epoche diverse partendo spesso dalla personalizzazione e da pezzi di antiquariato.
Daminelli prova a spiegarsi il lungo successo dello stile scandinavo come «una reazione all’accumulo di oggetti nelle case dei nostri genitori e il desiderio di avere un ambiente completamente diverso facendo piazza pulita della tradizione». Svuotando e seguendo le tendenze, però, si finisce per «avere case senz’anima e senza identità: allora io preferisco le case della nonna», aggiunge.
Inoltre avere poche cose «funziona nelle foto ma non nel vivere quotidianamente nella propria casa: le vere case sono massimaliste perché chi le abita ha voglia di circondarsi di ricordi» ed è con questo spirito che progetta delle «case-scatole» per contenere gli oggetti collezionati da chi le abiterà. Anche la sua casa è così: sul comodino, racconta, ha una foto della nonna non per una «scelta stilistica ma perché mi ricorda di quando ero piccolo e rende il mio comodino romantico: un oggetto può essere bello o brutto ma quando ha una storia, una provenienza o un racconto, questo diventa più importante della sua estetica».