La mitologia greca che citiamo ogni giorno
Personaggi come Adone, Dedalo e Stentore sono entrati nel linguaggio comune, spesso senza che si ricordi di preciso cosa si racconta di loro
Che la mitologia greca sia un riferimento fondamentale della cultura occidentale, oltre che un caposaldo dell’istruzione e della formazione umanistica, è un dato che emerge banalmente dalla lingua. Utilizziamo tutti i giorni e senza nemmeno farci caso decine di parole ed espressioni – “titanico”, “stentoreo”, “vaso di Pandora” – che provengono da storie raccontate e tramandate da migliaia di anni, prima nel mondo greco e poi in quello latino, dove sono state assorbite, rimodellate e a loro volta tramandate. Alcune le conosciamo per sommi capi, da reminiscenze scolastiche, magari senza ricordare da quali testi siano tratte. Oppure ne conosciamo un’unica versione, ritenendola l’unica esistente e corretta, quando in realtà anche lo stesso mito può avere decine di versioni leggermente diverse. Altre, invece, non le conosciamo per nulla.
Le conoscenze sono ancora più limitate, e i ricordi più nebbiosi, nei casi in cui la memoria non sia stata rafforzata nel tempo da prodotti culturali di grande successo come film, fumetti o videogiochi a tema mitologico, molti dei quali incentrati principalmente sulle divinità dell’Olimpo e sugli eroi dei poemi omerici dell’Iliade e dell’Odissea.
Nel Novecento, molto prima di film come Troy e videogiochi come God of War, a occuparsi di mitologia greca in maniera divulgativa era stato il poeta e saggista inglese Robert Graves nel libro I miti greci, uscito a metà degli anni Cinquanta e tradotto in diverse lingue. In Italia, nei primi anni Novanta, il filosofo e scrittore Luciano De Crescenzo aveva ideato e condotto una fortunata trasmissione televisiva Zeus – Le gesta degli dei e degli eroi, diventata una delle più citate opere di divulgazione nel suo genere, i cui testi confluirono nel libro del 1999 I grandi miti greci.
Né Graves né De Crescenzo avevano approfondite conoscenze filologiche o erano davvero esperti di mitologia, e nel caso di Graves la cosa fu notata da subito dai classicisti: entrambi trattarono i miti greci alla stregua di favole per bambini o parabole evangeliche, prendendosi molte libertà. Come del resto, però, avevano fatto molti autori prima di loro: il repertorio mitologico della Grecia antica è talmente vasto e vario che si è sempre prestato a operazioni di questo tipo. Anche perché non è mai stato sanzionato da un clero religioso interessato alla diffusione di un’unica versione, e per secoli è stato tramandato soprattutto oralmente.
Alcune delle espressioni che mostrano l’enorme influenza della mitologia greca sulla cultura occidentale riguardano personaggi che vivono esperienze familiari o in cui comunque è facile immedesimarsi: catastrofi improvvise, mutazioni repentine della propria fortuna, e altri eventi arbitrari e inspiegabili. Tutti questi elementi hanno reso la mitologia una materia che si presta moltissimo alle interpretazioni psicologiche e alla rappresentazione di modelli di personalità e di comportamento. È il motivo per cui alcuni nomi della mitologia vengono utilizzati con una certa frequenza, per esempio, nella psicologia, pur con un’aderenza alla realtà storica, filologica e sociologica spesso discutibile.
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La storia di Narciso per esempio nella psicologia clinica è associata a un preciso disturbo della personalità: un chiaro e noto esempio di quanti elementi mitologici utilizziamo ogni giorno senza pensarci. La sua storia la conosciamo principalmente attraverso il racconto che ne fa nelle Metamorfosi Ovidio, poeta romano del I secolo a.C., una delle principali fonti latine della mitologia greca.
Nella versione del mito trascritta da Ovidio, Narciso è figlio della ninfa Liriope e di Cefiso, che i greci conoscevano come uno degli dei dei fiumi. Si racconta che Narciso fosse un bambino di una tale bellezza che sua madre, preoccupata per lui, consultò il famoso indovino Tiresia, altra figura molto presente nei miti greci, per chiedergli se il figlio sarebbe vissuto abbastanza da diventare vecchio. La risposta di Tiresia tramandata da Ovidio è assai obliqua: «Se non conoscerà sé stesso».
Una volta adolescente, prosegue il racconto, Narciso respinse tutte le persone di ogni genere ed età che si innamoravano di lui ma che lui ignorava e disprezzava. A un ragazzo particolarmente ostinato, chiamato Aminia, Narciso donò una spada e chiese come pegno d’amore di usarla per uccidersi, secondo una versione del mito tramandata dal grammatico greco Conone, contemporaneo di Ovidio. Nella versione di Conone fu proprio un’invocazione della giustizia divina da parte di Aminia prima di trafiggersi a causare le sventure di Narciso, mentre in quella di Ovidio è la ninfa Eco ad avere un ruolo centrale.
Secondo un altro mito Eco – uno dei tanti esempi di nome proprio che deriva dalla mitologia – era stata punita da Giunone, moglie di Giove, perché aveva utilizzato una certa sua abilità nella confabulazione e nel pettegolezzo per distrarla mentre il marito trascorreva il tempo con altre ninfe sue amanti. La punizione fu che Eco avrebbe dovuto ripetere in eterno parole ascoltate da altri. La versione prevalente del suo mito racconta che un giorno, dopo averlo incontrato, anche Eco si innamorò di Narciso. Anche lei fu respinta dal giovane. Non potendo fare molto di più che ripetere le sue parole, si dice che si afflisse per quel rifiuto fino a consumarsi. Di lei quindi non rimase altro nel mondo che la voce: o meglio, l’eco.
È a questo punto della storia che, secondo Ovidio, interviene «la terribile Nemesi», la dea ritenuta responsabile della distribuzione della giustizia. Secondo numerose fonti sia greche che latine il centro del suo culto fu la città di Ramnunte, nell’Attica, dove era venerata come figlia del dio Oceano e, secondo altre fonti, madre di Elena di Troia. Il fatto che finisse per punire soprattutto re e condottieri troppo arditi favorì nel tempo la diffusione di espressioni come «nemesi storica», utilizzata ancora oggi per intendere avvenimenti che sembrano riparare antiche ingiustizie di popoli e nazioni. Ma in generale si utilizza “nemesi” anche senza questa accezione, per definire eventi a cui si attribuisce un qualche valore di giustizia compensativa e ineluttabile.
Nel caso di Narciso, si racconta che Nemesi fece in modo di condurlo verso uno specchio d’acqua in cui per la prima volta lui si innamorò follemente di qualcuno, vedendo appunto la propria immagine riflessa. «Per la prima volta vide i suoi occhi, e li scambiò per una coppia di stelle», e «ignaro, cominciò a bramar sé stesso», scrive Ovidio. Secondo questa versione del mito, Narciso pianse fino a fare increspare l’acqua sotto di lui: travolto dal dolore per la sparizione dell’immagine, si uccise.
Proprio per la sua popolarità la storia di Narciso è un esempio di quanto le varie versioni di uno stesso mito tramandate nei secoli possano divergere in modo più o meno esteso e creativo. Secondo Pausania, scrittore greco del II secolo d.C., Narciso riconobbe nell’immagine riflessa non la sua immagine ma quella di una sua sorella gemella, morta di malattia e di cui lui era stato molto innamorato. Nel Novellino, una raccolta di novelle toscane del Duecento, Narciso muore perché annega nella fonte in cui si lascia cadere dopo i falliti tentativi di abbracciare quel ragazzo nello specchio d’acqua.
La ricerca a ritroso nel tempo delle fonti letterarie della mitologia tende a mostrare da un lato una certa variabilità delle versioni esistenti, dall’altro un’origine probabilmente comune di miti tramandati in culture che tendiamo a considerare molto distanti tra loro.
Un caso abbastanza significativo è quello dei fratelli Castore e Polluce, conosciuti come i dioscuri (da Diòs, “di Zeus”, e kùroi, “fanciulli”, in greco antico). Una delle principali fonti letterarie del mito greco-romano è la Biblioteca, un manuale di mitografia tramandato fin dall’Alto Medioevo e per lungo tempo erroneamente attribuito al grammatico greco del II secolo a.C. Apollodoro di Atene. I dioscuri furono venerati come divinità benefiche e protettori dei naviganti. Nell’arte antica erano riconoscibili perché rappresentati sempre in coppia, di solito nudi, a cavallo o su un carro, spesso con un mantello sulle spalle.
Proprio l’ampia diffusione di immagini simili nell’arte preistorica ha permesso agli studiosi di mitologia di associare la figura dei gemelli divini, figli del dio del cielo, a diverse altre mitologie e di ricondurle a una probabile origine comune protoindoeuropea, che cioè apparteneva a un gruppo umano che arrivò in Europa intorno al 3.000 a.C. dalle steppe eurasiatiche portandosi dietro l’antenato di moltissime lingue che parliamo ancora oggi, appunto il protoindoeuropeo. Insieme alla lingua quelle persone si portarono dietro anche un notevole ricettacolo di miti e leggende.
Anche nei Veda, gli antichissimi testi sacri dell’Induismo, sono descritti gemelli divini domatori di cavalli, identificati con la costellazione dei Gemelli (come anche i dioscuri nella mitologia greca). E figure equivalenti si trovano anche nella mitologia baltica e in quella germanica, entrambe eredi di quella protoindoeuropea. Il fatto che le persone che parlavano protoindoeuropeo fossero arrivate in Europa perlopiù a cavallo, oltre alla presenza di un mito simile in varie tradizioni indoeuropee, conferma che il mito ha origini protoindoeuropee. Il mito dei dioscuri peraltro fu popolarissimo anche nell’antica Roma, forse anche per la vicinanza col mito dei fondatori Romolo e Remo: ancora oggi nel foro repubblicano di Roma si possono osservare le rovine di un tempio dedicato a Castore e Polluce.
La loro estrema malleabilità è ciò che ha permesso ai miti di durare nel tempo, fornendo un linguaggio condiviso per comprendere il mondo: linguaggio che rifletteva inevitabilmente la varietà geografica, politica e culturale dei luoghi e delle epoche che i miti cercavano di interpretare. In Occidente molti manuali pubblicati tra il XIX e il XX secolo, inclusi diversi compendi per bambini, si concentravano ancora soprattutto sulla figura degli eroi, in grado di fornire modelli di virtù maschile, e su personaggi femminili stereotipati (il più delle volte rapite, sposate o recuperate da uomini), come osservato dalla scrittrice e giornalista inglese Charlotte Higgins, autrice del libro Greek Myths: A new retelling of your favourite myths that puts female characters at the heart of the story.
Alcuni di quegli eroi e di quelle figure femminili sono nomi molto familiari, anche se le loro storie non si ricordano con precisione o non si conoscono affatto. Dell’eroe Perseo per esempio, mai esistito davvero, si racconta fosse nato dall’unione di Zeus e della principessa Danae della città di Argo. È ricordato soprattutto come l’eroe che, su ordine del re (Polidette) che aveva ospitato lui e sua madre, uccise Medusa, l’essere mostruoso con la testa coperta di serpenti. Secondo diversi autori greci antichi, tra cui il poeta Esiodo e il drammaturgo Eschilo, era l’unica mortale delle tre Gorgoni, leggendarie figlie delle divinità marine Forco e Ceto, in grado di pietrificare le persone con lo sguardo. Ancora oggi per definire qualcosa di terrificante o mostruoso si possono usare aggettivi arcaici e un po’ lirici come “meduseo” e “gorgoneo”.
In una delle versioni del racconto, come descritto da Graves nel libro I miti greci, Perseo decapita Medusa in volo, in un modo molto simile a come l’eroe mitico babilonese Marduk uccide il mostro marino Tiamat, la divinità degli oceani, mettendo ordine al caos primordiale. Nel mito greco Perseo è ricordato peraltro perché libera proprio da un mostro marino la principessa Andromeda, che poi sposa. È possibile che miti del genere rappresentassero gli sforzi di controllare le forze naturali e atmosferiche dell’epoca, da cui ovviamente dipendevano società legate soprattutto all’agricoltura, all’allevamento e alla pesca.
Una delle difficoltà per i lettori e le lettrici della mitologia nel XXI secolo, secondo Higgins, è che gli eroi dell’antica letteratura greca non somigliano al tipo di persona a cui loro pensano quando utilizzano la parola “eroe”. Erano piuttosto personaggi di estrema violenza, inquietanti, spesso semi-divinità. A voler applicare standard moderni, Achille sarebbe «un criminale di guerra che profana il cadavere del suo nemico» e Teseo, uno dei mitici sovrani di Atene, «uno stupratore».
Di Teseo si racconta che fosse figlio del re di Atene Egeo e di sua moglie Etra (o di lei e del dio del mare Poseidone, secondo un’altra versione). È possibile, fra l’altro, che una persona col suo nome abbia davvero regnato su Atene verso la fine dell’Età del Bronzo. In uno dei miti che lo riguardano Teseo fece parte di un gruppo di giovani ateniesi inviati a Creta per essere condotti in un labirinto – costruito dall’architetto Dedalo – come sacrificio umano per il Minotauro, un essere mostruoso con il corpo umano e la testa di toro, per ordine del re di Creta Minosse, che aveva vinto la guerra contro Atene. Arrivato a Creta, secondo una versione notissima della leggenda, Teseo uccise il Minotauro e riuscì a uscire dal labirinto facendosi guidare dal filo di un gomitolo di lana che gli aveva procurato la figlia di Minosse Arianna, che si era innamorata di lui.
Sembra possibile che il mito riflettesse un qualche dominio di Creta sul mare greco, in un periodo compreso fra il 1.700 e il 1.400 a.C., quando a Creta effettivamente si sviluppò una civiltà fiorentissima e al centro dei commerci dell’epoca (ancora oggi la chiamiamo “minoica” per via del mito di Teseo, Minosse e Arianna).
In un successivo episodio del mito si dice che Arianna sia stata poi abbandonata da Teseo sull’isola di Naxos (o Nasso, come viene chiamata in italiano). Secondo un’etimologia chiaramente posticcia da questo episodio mitologico deriverebbe l’espressione “piantare in asso” . Tra le gesta mitiche di Teseo si ricordano anche la guerra contro le Amazzoni combattuta insieme a Eracle (Ercole): alcune scene di questa leggendaria guerra furono scolpite anche nelle metope del lato ovest del Partenone, il più famoso tempio di Atene, mentre Teseo è raffigurato sul lato sud mentre combatte contro la popolazione mostruosa dei centauri. La decisione di rappresentare Teseo e gli ateniesi come in guerra contro malvagi esseri mostruosi era fondata sulla propaganda diffusa dal governo cittadino nel V secolo a.C., in un momento storico in cui Atene si proponeva come la leader politica delle città greche.
Un altro rapimento, ma solo tentato, attribuito a Teseo e al suo migliore amico Piritoo fu quello di Persefone, mitica figlia di Zeus e Demetra, nonché moglie del dio degli Inferi Ade. Scesi nell’oltretomba per rapirla, si racconta che i due rimasero intrappolati fino all’arrivo di Eracle, che riuscì a liberare soltanto Teseo. Anche il mito di Persefone più conosciuto riguarda un rapimento: si racconta che Ade stesso l’avesse costretta a diventare sua moglie dopo averla rapita mentre raccoglieva dei fiori. I vari miti di Persefone hanno diversi elementi in comune con altre mitologie, tra cui quella mesopotamica, che tratta più o meno lo stesso argomento nell’antico poema sumero Discesa di Ištar negli Inferi, risalente al II millennio a.C (i rapimenti delle donne erano del resto frequentissimi in varie civiltà in età preistorica).
C’entra ancora Ade, per esempio, nel mito di Tantalo – ripreso, tra gli altri, dal filosofo tedesco Arthur Schopenhauer nel libro Il mondo come volontà e rappresentazione – e nell’origine dell’espressione «supplizio di Tantalo», utilizzata per indicare un tormento per qualcosa di irraggiungibile.
Figlio di Zeus e della ninfa Pluto, nella versione più nota del mito Tantalo fu un re della Lidia (un antico regno dell’Anatolia occidentale) che si rese responsabile di molte offese agli dei. Tra le altre cose, uccise suo figlio Pelope e servì le sue carni agli dei durante un banchetto, a loro insaputa, per dimostrare la loro onniscienza. Per le sue colpe, secondo la versione di Omero, Tantalo fu condannato ad avere per sempre negli Inferi una fame e una sete insaziabili.
Sia il furto agli dei che la pena infinita accomunano peraltro Tantalo a un personaggio della mitologia più noto, Prometeo, il cui mito nella sua versione più conosciuta fu raccontato da Esiodo nella Teogonia. La leggenda più famosa lo descrive come un semidio che rubò il fuoco agli dei per donarlo agli uomini, da lui forgiati su incarico di Zeus. Per punirlo del furto, Zeus stesso lo condannò a rimanere incatenato a una colonna mentre un’aquila gli divorava il fegato, che ricresceva ogni notte.
È definita “prometeica” una qualsiasi azione sufficientemente audace e innovativa, che rifletta come quella di Prometeo un qualche senso di ribellione verso l’autorità. Anche “titanico” è utilizzato a volte in questo senso, ma più spesso per indicare genericamente azioni – quasi sempre “sforzi” o “imprese” – che sembrano sovrumane per la forza che richiedono: i Titani, generati dal Cielo (Urano) e dalla Terra (Gea), erano infatti considerati forze naturali, divinità ancora più antiche rispetto agli dei dell’Olimpo.
Al mito di Prometeo è legato anche quello di Pandora. È il nome con cui nella mitologia greca venne chiamata la prima donna mortale, forgiata da Efesto su incarico di Zeus. Il poeta greco Esiodo nel poema Le opere e i giorni racconta che fu proprio Zeus a donarla agli uomini. Una volta arrivata sulla terra Pandora avrebbe avuto con sé un vaso che le aveva regalato Zeus, con l’ordine esplicito di non aprirlo. Ma una volta sposata dal fratello di Prometeo, Epimeteo, Pandora disobbedì e aprì il vaso, da cui secondo la leggenda fuoriuscirono tutti i mali del mondo: vecchiaia, gelosia, malattia, dolore, pazzia e vizio. È facile intravedere in questo mito una tendenza maschilista a biasimare l’intraprendenza delle donne, che in molte civiltà antiche erano relegate a ruoli subalterni.
Un altro nome mitologico contenuto in una parola comune è Stentore, un eroe greco citato nell’Iliade per la sua voce poderosa, paragonata a quella di 50 uomini messi insieme: da cui “stentoreo”, per indicare una voce tonante o potente. Altri nomi propri sono infine diventati nel tempo, per antonomasia, parole che indicano eminentemente alcune qualità dei personaggi mitologici che le possedevano.
Mentore, citato da Omero nell’Odissea, era il maestro a cui secondo il mito Ulisse aveva affidato suo figlio Telemaco prima di partire per Troia, e che accompagna Telemaco alla ricerca del padre. Adone, un antico personaggio mitologico di origine semitica, nella tradizione greca era una divinità che per la sua bellezza straordinaria fu oggetto di contesa tra Afrodite e Persefone.