Con Cortázar, che oggi compirebbe 110 anni

«Da qualche anno ho preso l’abitudine di tradurre tenendo una foto dell'autore sullo schermo del pc. Nella foto che ho scelto per "Libro di Manuel", il romanzo più difficile che abbia mai tradotto, quasi tre anni di lavoro matto, gli occhi così particolari di Cortázar sono nascosti dietro un paio di occhiali neri. È in primo piano, occupa tutta la metà destra; altissimo, magro, sembra ancora un ragazzo. Accanto a lui, in secondo piano, di sguincio sull’angolino estremo della panchina, c’è una giovane donna molto bella. Si chiama Laure Guille-Bataillon, è la sua traduttrice francese»

Julio Cortázar sulla Senna, Parigi, 1969 (Pierre Boulat/Agency Focus)
Julio Cortázar sulla Senna, Parigi, 1969 (Pierre Boulat/Agency Focus)
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«Per gran parte della sua vita da adulto ha sbarcato il lunario traducendo libri di altri scrittori. Siede alla scrivania, legge il libro in francese, poi prende la penna e riscrive lo stesso libro in inglese. Si tratta e nel contempo non si tratta dello stesso libro, e la stranezza di quell’attività non ha mai cessato di stupirlo. Ciascun libro è un’immagine di solitudine, un oggetto concreto che si può prendere, riporre, aprire, chiudere, e le sue parole rappresentano molti mesi, se non molti anni, della solitudine di un individuo, sicché a ogni parola che leggiamo in un libro potremmo dire che siamo di fronte a una particella di quella solitudine. Un uomo solo è seduto in una stanza e scrive. Che parli di isolamento o di compagnia, di amicizia, il libro è necessariamente generato da una solitudine. A. siede nella sua stanza a tradurre il libro di un altro, ed è come se entrasse nella solitudine di quell’uomo facendola propria. Ma questo è irrealizzabile, perché quando si apre una falla nella solitudine, quando di una solitudine si impossessa qualcun altro, non è più solitudine, ma una specie di compagnia. Anche se nella stanza c’è una persona sola, in realtà ce ne sono due», spiega Paul Auster in L’invenzione della solitudine (traduzione di Massimo Bocchiola, Einaudi 1997); non stupirà quindi nessuno se racconto che da qualche anno, mentre ascolto la voce di questa seconda persona levarsi dalla pagina, ho preso l’abitudine di tenerne una foto sullo schermo del pc, per renderne più tangibile la presenza. Non solo, alle prese da traduttrice con l’irriducibile soggettività delle parole, spero di trovare in qualche modo appiglio nel corpo, la cosa più oggettiva che abbiamo. C’è un unico scrittore che non va e viene a seconda dei testi su cui lavoro, e che mi tiene sempre compagnia da una foto di carta, incorniciata, perché oltre ad aver tradotto ventisei libri suoi, Lucho e io eravamo amici.

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Nella foto che ho scelto per il Libro di Manuel, il romanzo più difficile che abbia mai tradotto, quasi tre anni di lavoro matto, Julio Cortázar guarda dritto nell’obiettivo. Argentino nato a Bruxelles il 26 agosto 1914, centodieci anni fa, e morto a Parigi nel 1984, fuoriclasse del boom latinoamericano, “il migliore” secondo Roberto Bolaño, è uno dei miei più antichi amori letterari.

(foto Ilide Carmignani)

A diciannove anni, nelle notti di giugno, al microfono di una radio libera inerpicata sopra i tetti di Lucca, leggevo con passione i suoi racconti neofantastici a un pubblico forse inesistente – case occupate da entità misteriose, traduttori che vomitano coniglietti, uomini che diventano pesci, tigri invisibili che passeggiano per casa – mischiandoli a languidi frammenti amorosi che turbavano l’amico a cui era affidata la cura dell’accompagnamento jazz:

«Tocco la tua bocca, con un dito tocco l’orlo della tua bocca, la sto disegnando come se uscisse dalle mie mani, come se per la prima volta la tua bocca si schiudesse, e mi basta chiudere gli occhi per disfare tutto e ricominciare, ogni volta faccio nascere la bocca che desidero, la bocca che la mia mano sceglie e ti disegna in volto, una bocca scelta tra tutte, con sovrana libertà scelta da me per disegnarla con la mia mano sul tuo volto, e che per un caso che non cerco di capire coincide esattamente con la tua bocca che sorride sotto quella che la mia mano ti disegna. Mi guardi, mi guardi da vicino, ogni volta più vicino e allora giochiamo al ciclope, ci guardiamo ogni volta più da vicino e gli occhi ingrandiscono, si avvicinano tra loro, si sovrappongono e i ciclopi si guardano, respirando confusi, le bocche si incontrano e lottano tepidamente, mordendosi con le labbra, appoggiando appena la lingua sui denti, giocando nei loro recinti dove un’aria pesante va e viene con un profumo vecchio e un silenzio. Allora le mie mani cercano di affondare nei tuoi capelli, carezzare lentamente la profondità dei tuoi capelli mentre ci baciamo come se avessimo la bocca piena di fiori o di pesci, di movimenti vivi, di fragranza oscura. E se ci mordiamo il dolore è dolce, se soffochiamo in un breve e terribile assorbire simultaneo del respiro, questa istantanea morte è bella. E c’è una sola saliva e un solo sapore di frutta matura, e io ti sento tremare stretta a me come una luna nell’acqua».

Nella foto che ho scelto, gli occhi così particolari di Cortázar, grandi, allungati, come distanti fra loro, sono nascosti dietro un paio di occhiali neri e la bocca è serrata in un mezzo sorriso d’impazienza; forse chi lo sta fotografando tarda a scattare, forse la traduttrice è lenta a tradurre, penso assurdamente io. Dallo sfondo si direbbe che è a Saignon, in Provenza, dove ha un buen retiro: alle sue spalle si vede una tipica casa provenzale, muri di pietra e finestre con le imposte di un colore che resta indefinito, perché la foto è in bianco e nero e io, che ho visitato la sua tomba a Montparnasse lasciandoci com’è uso un biglietto del metrò, a Saignon non sono mai riuscita ad andare. Proprio lì, nel 1972, con buone scorte di vino rosso, Cortázar rilegge il Libro di Manuel prima di darlo alle stampe, nel 1973, come racconta lui stesso nel divertente Correzione di bozze in Alta Provenza, tradotto da Giulia Zavagna, che SUR ha pubblicato insieme al romanzo, in appendice, questa primavera.

Seduto comodo su una panchina, chino in avanti, il gomito appoggiato sul ginocchio, Cortázar è in primo piano, occupa tutta la metà destra della foto; altissimo, magro, non un filo bianco nei capelli, le maniche della polo rimboccate, sembra ancora un ragazzo. Accanto a lui, in secondo piano, di sguincio sull’angolino estremo della panchina, c’è una giovane donna molto bella. Ha i capelli scuri raccolti dietro la testa, una maglietta bianca e pantaloni chiari. Guarda in basso mentre si sfila gli occhiali con un’espressione dolce abbastanza indecifrabile: sembra colta di sorpresa dallo scatto, forse è solo timida e ha scelto questo modo di sottrarsi. Occupa sì e no un quarto della foto, ma per me era importante che ci fosse, perché è la traduttrice francese di Cortázar. Si chiama Laure Guille-Bataillon e da un angolo della mia scrivania il suo Livre de Manuel mi ha offerto più volte conforto. Mentre traducevo li ho pensati tanto tutti e due, chini cinquant’anni prima sulle stesse righe: lui a scriverle (chissà se, come dice Susanna Basso, qualche volta non avrebbe voluto trovarle già scritte), lei subito dopo a tradurle (chissà se qualche volta non avrebbe preferito una pagina bianca), e poi di nuovo Julio che rilegge la traduzione di Laure, spiega, corregge, suggerisce. La mia è una terza solitudine, più solitaria davanti a un libro che è stato definito un incrocio di Joyce e Che Guevara.

Siamo appena entrati negli anni Settanta, a Parigi, e Cortázar sente ancora risuonare fuori dalle finestre le proteste degli studenti; sa di appartenere a un mondo ormai vecchio e ammira quei ragazzi che si dicono realisti e chiedono l’impossibile. Guarda con speranza, e già qualche inquietudine, alla Rivoluzione cubana, e con orrore alle violazioni dei diritti umani da parte delle dittature latinoamericane e degli Stati Uniti. Non è un militante, ma cerca in ogni modo di fare la sua parte per uscire da un orizzonte quotidiano “di zanne e dollari”. Tenta così per la prima volta di unire in un romanzo letteratura e politica e inizia a scrivere il Libro di Manuel raccontando le avventure del “Grancasino”, gruppo di latinoamericani a Parigi coi loro conflitti ideologici e sentimentali, le microagitazioni situazioniste e i sequestri rivoluzionari. Ovviamente non mancano le storie d’amore, e nemmeno pinguini a zonzo sulla Senna. Per lui è «il passaggio dall’io al tu. E dal tu a tutto il resto» e, sul piano letterario, la sua evoluzione sul piano personale. Confesso che mi ha fatto una certa tenerezza vederlo spingere Ludmilla, la donna di Andrés, protagonista alter ego, nel letto di un guerrigliero.

Julio Cortázar a due anni (Archivo General de la Nación Argentina, via Wikimedia)

Julio Cortázar a 55 anni, Parigi, 1969 (Pierre Boulat/Agency Focus)

Deciso a evitare sia la misera ortodossia del realismo socialista sia il narcisismo della torre d’avorio, Cortázar è consapevole che «i sostenitori della realtà in letteratura» troveranno il libro abbastanza fantastico mentre «quelli arroccati sulla letteratura di finzione deploreranno il suo deliberato contubernio con la storia dei nostri giorni»; contubernio che lo spingerà a devolvere i diritti d’autore ai prigionieri politici argentini. E tuttavia non arretra neppure di un centimetro davanti alle critiche che lo aspettano da ambo i lati, per motivi opposti. In Francia vince il prix Médicis, in Italia l’einaudiano Calvino giudica il libro superiore a Rayuela, ma non osa pubblicarlo. Oggi, nella nostra liquidissima società, risulta quasi incomprensibile tanta rigida osservanza e anzi colpisce la modernità di un impegno che salvaguarda l’individualità come parte di una collettività solidale.

Cortázar cerca nuove vie anche per la struttura narrativa. Le vicende vengono raccontate in forma quasi caleidoscopica fra salti temporali e cambiamenti di punto di vista, e mischiate in una sorta di collage a materiale autentico, articoli di quotidiani in diverse lingue, lettere e documenti raccolti dai militanti per creare un album sulla repressione nel mondo, un libro nel libro destinato alla formazione del piccolo Manuel, l’uomo nuovo di domani, ma anche alla controinformazione dei lettori, a cui la mise en abîme col suo straniamento brechtiano impedisce l’identificazione passiva coi protagonisti. Il linguaggio stesso non può che essere nuovo, esplorativo, rivoluzionario. Cortázar frantuma la sintassi tradizionale sul ritmo del fraseggio, gioca con l’ortografia e la punteggiatura, attinge ai repertori linguistici più eterodossi, si scatena in neologismi e giochi di parole che sono la delizia, e il terrore, di chi si trova a tradurlo.

Quanto mi sarebbe piaciuto lasciare la mia solitudine, sedermi con loro due, sul lato sinistro del tavolo, quello che non si vede, ascoltarli chiacchierare, fugare qualche dubbio di traduzione, brindare insieme al compleanno di Julio.

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La tomba di Julio Cortázar al cimitero di Montparnasse di Parigi con l’inizio della poesia Los perros romanticos di Roberto Bolaño scritta a pennarello: «En aquel tiempo yo tenía veinte años / y estaba loco. / Había perdido un país / pero había ganado un sueño. / Y si tenía ese sueño / lo demás no importaba. / Ni trabajar ni rezar / ni estudiar en la madrugada / junto a los perros románticos». (foto Ilide Carmignani)

Ilide Carmignani
Ilide Carmignani

È una traduttrice laureata in Lettere all’Università di Pisa e specializzata alla Brown University e all’Università di Siena. Di Julio Cortázar ha tradotto Il libro di Manuel, L'inseguitore, Disincontri e Animalia, che sta per uscire. Fra gli altri autori tradotti: Bolaño, Borges, García Márquez, Neruda, Sepúlveda e Soriano. Cura gli eventi sulla traduzione (l’AutoreInvisibile) del Salone del Libro di Torino. Collabora con TuttoLibri – La Stampa e Gli asini. Il suo ultimo libro è Storia di Luis Sepúlveda e del suo gatto Zorba, Salani 2021.

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