Nella Striscia di Gaza non c’è più spazio per i civili
Dall'inizio dell'invasione israeliana quasi il 90% del territorio della Striscia è stato sottoposto a un ordine di evacuazione
Aggiornamento di venerdì 30 agosto: una versione audio di questo articolo, registrata dopo la pubblicazione, rende conto dei numeri aggiornati all’ultimo report dell’OCHA, pubblicato lunedì 26 agosto. Tra il 19 e il 26 agosto Israele ha emesso 6 nuovi ordini di evacuazione che hanno interessato nuove aree delle città di Gaza e di Deir al Balah. La porzione della Striscia che è stata interessata almeno una volta da un ordine di evacuazione, al 30 agosto, è quindi dell’88,5 per cento, e il totale degli ordini emessi ad agosto è di 16.
Dall’inizio della guerra lo spazio abitabile per i palestinesi nella Striscia di Gaza è diminuito drasticamente a causa dei numerosi ordini di evacuazione imposti alla popolazione da Israele, oltre che della creazione di “zone cuscinetto” occupate di fatto dai militari israeliani. Oggi i circa due milioni di palestinesi della Striscia sono concentrati in poche decine di chilometri quadrati: pochissimo spazio per un posto che già prima della guerra era uno dei più densamente popolati al mondo.
Un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato lunedì 19 agosto dice che dall’inizio dell’invasione israeliana l’86 per cento del territorio della Striscia è stato interessato almeno una volta da un ordine di evacuazione. Solo nei primi diciannove giorni di agosto l’esercito israeliano ha emanato nove ordini di evacuazione per la città di Khan Yunis e di Deir al Balah, dove si trovano due grossi campi profughi, e per alcune aree nel nord della Striscia, costringendo 213mila persone a spostarsi in cerca di un luogo sicuro che però spesso non c’è.
Oggi il 90 per cento dei palestinesi della Striscia di Gaza ha cambiato rifugio almeno una volta dall’inizio della guerra. La maggior parte dei civili si trova ad al Mawasi, una zona che l’esercito israeliano aveva designato come area umanitaria già nei primi giorni dell’invasione, ma che nel tempo ha ridotto sempre di più in termini di estensione: oggi misura 40 chilometri quadrati, l’11 per cento di tutto il territorio della Striscia di Gaza; solo il 22 luglio scorso era quasi dieci chilometri quadrati più grande.
La cartina qui sotto è stata realizzata dall’Institute for the Study of War. Le zone in marroncino indicano le aree che l’esercito israeliano ha detto alla popolazione palestinese di liberare. Quella in verde chiaro invece è l’area umanitaria di al Mawasi, con i confini aggiornati al 20 agosto scorso.
Questa cartina invece indica quanto era grande l’area designata come umanitaria dall’esercito israeliano soltanto il 6 maggio scorso. Come si vede, all’area umanitaria di Al Mawasi è stata sottratta una grossa porzione di territorio che l’esercito israeliano ha ordinato di evacuare, senza però fornire un’alternativa valida ai civili che si trovavano al suo interno.
Ai territori sottoposti a ordine di evacuazione, che quindi non ospitano o non dovrebbero ospitare civili palestinesi, bisogna poi aggiungere quelli che l’esercito israeliano occupa militarmente: è la zona cuscinetto lungo tutto il confine tra Israele e la Striscia di Gaza, e include anche due corridoi strategici, il corridoio Netzarim e il corridoio Philadelphi.
Il cosiddetto corridoio Netzarim è un collegamento strategico di circa sei chilometri che si trova poco sotto Gaza e che collega l’area cuscinetto con il mare, dividendo sostanzialmente la Striscia di Gaza in due. Il corridoio Philadelphi, ampio circa 100 metri e lungo 14 chilometri, corre invece lungo tutto il confine con l’Egitto e comprende anche il valico di Rafah, che prima di essere chiuso era l’unico punto di collegamento tra la Striscia di Gaza e il resto del mondo che non fosse controllato da Israele (era controllato dall’Egitto). Israele ha occupato militarmente quest’area dal lato della Striscia di Gaza a maggio, quando ha avviato la sua operazione militare nella città di Rafah, e continua ad occuparla tuttora.
Mano a mano che si è ridotto lo spazio “sicuro” nella Striscia – che comunque nella realtà si è dimostrato poco sicuro, visto che Israele ha bombardato anche zone che aveva indicato come “umanitarie” – è aumentata la densità di popolazione, con tutti i rischi che questo comporta. Se ad esempio dieci mesi fa ad Al Mawasi abitavano 1.200 persone per chilometro quadrato, oggi si stima che ce ne siano tra le 30 e le 34mila. Per fare un paragone, per quanto complesso e da prendere con le molle, la città più densamente popolata in Italia è Napoli e ha 2.535 abitanti per chilometro quadrato.
L’incredibile densità di popolazione, insieme a tutte le difficoltà che derivano dai continui spostamenti di centinaia di migliaia di sfollati, sta aggravando in modo drammatico la crisi umanitaria dentro la Striscia di Gaza.
Nella Striscia non c’è l’acqua corrente, non esiste un sistema di trattamento delle acque reflue né di gestione dei rifiuti, ed è molto difficile trovare il sapone o qualsiasi altro detergente per lavarsi o lavare oggetti e vestiti. Tutto questo, sommato alla carenza di cibo dovuta alla sempre maggiore difficoltà di distribuire gli aiuti umanitari in un territorio quasi interamente interessato dai combattimenti, ha aumentato in modo notevole il rischio di diffusione di malattie molto pericolose.
Il 17 agosto scorso, dopo settimane di timori seguite al ritrovamento del virus nelle fognature della Striscia, è stato riscontrato il primo caso conclamato di poliomelite: un bambino di dieci mesi che si trovava a Deir al Balah, una cittadina sulla costa alla cui periferia sorge un grosso campo profughi. La poliomielite è una malattia molto grave, che nei bambini può provocare forme permanenti di paralisi e nei casi peggiori la morte.
Lo stesso giorno l’esercito israeliano ha emanato un ordine di evacuazione che ha interessato diversi quartieri della città, costringendo altre 13.500 persone a spostarsi verso il già sovraffollato centro di Al Mawasi. Nell’area erano state messe in piedi anche dieci strutture sanitarie improvvisate, alcune scuole e varie altre strutture per la popolazione, che dovranno essere spostate e ricostruite altrove.
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Come detto Israele ha colpito più volte zone considerate sicure, sostenendo che quelle operazioni militari fossero giustificate dalla presenze di miliziani di Hamas.
È successo per esempio ad Al Mawasi lo scorso 13 luglio: in un’operazione per uccidere Mohammed Deif, importante leader militare di Hamas ritenuto tra i principali responsabili dell’attacco del 7 ottobre, Israele ha sganciato sull’area otto delle cosiddette “2.000-pound bombs”, ossia bombe da duemila libbre (pari a circa 900 chilogrammi). Questi ordigni fanno parte dell’arsenale militare di molti paesi occidentali, ma a causa del loro effetto particolarmente devastante non vengono usati in aree densamente popolate da civili. In quell’operazione, secondo il ministero della Salute di Hamas, sono stati uccisi 90 civili palestinesi e sono stati colpiti anche operatori umanitari.
Gli operatori umanitari hanno raccontato che la costante sensazione di precarietà e il senso di insicurezza hanno fatto sì che oggi molti civili palestinesi si rifiutino di eseguire gli ordini di evacuazione dell’esercito e decidano invece di restare dove sono.
Un’altra conseguenza degli ordini di evacuazione che interessano un territorio sempre maggiore della Striscia è che la distribuzione degli aiuti umanitari viene interrotta o rallentata. È successo per esempio ad alcune parti della Salah ad Din, la principale autostrada della Striscia che collega il nord con il sud, che il 17 agosto Israele ha detto di evacuare. L’ordine ha creato grossi problemi alla consegna degli aiuti umanitari, perché l’unica alternativa a questa strada era la costa, che però è occupata dai campi informali improvvisati che rendono molto difficile il passaggio dei convogli.