L’ultima volta che ho visto Enzo Baldoni

«Non ho mai amato la retorica dell’eroe. Non c’è dubbio, però, che in Iraq Enzo Baldoni si sia comportato da eroe, cercando di testimoniare quello che accadeva e portando aiuto, a rischio della vita. Si prese in carico il destino di un ragazzo amputato, che poi fu curato da Emergency, e guidò due missioni umanitarie per portare aiuti in una città assediata. Ma non c’è dubbio neppure che le istituzioni italiane abbiano scelto di dimenticarlo. Credo che Enzo Baldoni ne avrebbe riso perché aveva troppo senso dell’umorismo e amava troppo la vita per essere attratto dalle medaglie e dall’ideologia della bella morte. Lo aveva anche scritto per tempo, previdente e pignolo com’era, nelle disposizioni per il suo funerale»

Enzo Baldoni nel video di rivendicazione del suo rapimento trasmesso dalla tv del Qatar Al Jazeera il 24 agosto 2004
Enzo Baldoni nel video di rivendicazione del suo rapimento trasmesso dalla tv del Qatar Al Jazeera il 24 agosto 2004

L’ultima volta che ho visto Enzo Baldoni eravamo al bar Picchio in via Melzo a Milano. Erano i primi giorni del luglio 2004 e un mese e mezzo più tardi Enzo sarebbe stato rapito e ucciso in Iraq. Gli avevo appena commissionato un libro per Isbn edizioni, la casa editrice che allora dirigevo: si sarebbe dovuto intitolare Atlante della guerriglia e avrebbe raccolto schede e mappe sui conflitti in corso nel mondo. Avevo conosciuto Baldoni per i suoi reportage su Diario, il settimanale per cui lavoravo, e sapevo che aveva un’agenzia pubblicitaria, era il traduttore italiano dei fumetti di Doonesbury, aveva un blog e che per tantissimi anni aveva fatto il volontario della Croce Rossa.

Da giornalista, nel tempo libero, era riuscito a intervistare alcuni famosi capi militari, come il subcomandante Marcos nel Chiapas messicano, Manuel Marulanda Vélez, il leggendario comandante Tirofijo delle Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, e Xanana Gusmão, leader del Fronte rivoluzionario di Timor Est indipendente che, durante il loro incontro, gli aveva chiesto notizie dell’Inter. Quel giorno al bar Picchio mi aspettavo una prima bozza dell’indice del libro o un’idea grafica, invece Baldoni mi comunicò con una certa timidezza che quell’estate sarebbe andato in Iraq dove era in corso la seconda guerra del Golfo e dove si stava organizzando, soprattutto intorno alla città di Falluja, la guerriglia islamista sunnita contro gli Usa e i loro alleati, tra cui l’Italia.

Baldoni mi chiese un accredito stampa del giornale, gli risposi che non ci sarebbe stato problema, ma gli dissi anche che mi sembrava una cazzata, «non rovinarmi le vacanze, non voglio che qualcuno mi chiami in agosto per dirmi che sei stato rapito». Lui prima fece no con la testa, poi spalancò le braccia e sorrise con la bocca e con gli occhi, come faceva. Era preoccupato di non avere abbastanza tempo per studiare. Parlammo dell’ignoranza come metodo per vedere meglio le cose e come ragione in più per non fare scemenze. Oggi so che la mia reazione fu simile a quella di suo fratello Sandro che, quando venne a sapere del viaggio, lo sconsigliò ben sapendo che non sarebbe servito. Era evidente che quell’idea si era messa in moto e che nulla l’avrebbe fermata. Sono passati vent’anni, ma ricordo benissimo che la cosa che mi colpì di più allora fu il modo in cui quell’uomo univa in un miscuglio che non avevo mai e non avrei più rivisto, fatalismo e ottimismo – direi quasi umorismo –, una sua programmatica allegria con la piena consapevolezza del male del mondo.

Qualche giorno più tardi sul blog di Enzo Baldoni (a quei tempi i blog non erano consueti) lessi questo post:

Sabato 24 luglio. «Ancora una volta, prima di una partenza, mi sono sdraiato sotto le stelle, nella Romagna dei miei nonni e della mia infanzia, in cima a Monte Bora, sulla terra notturna ancora calda del sole di luglio. La terra, sotto, mi riscaldava il corpo. La brezza, sopra, lo rinfrescava. Lucciole, profumo di fieno tagliato, il canto di milioni di grilli. (…) Guardando il cielo stellato ho pensato che magari morirò anch’io in Mesopotamia, e che non me ne importa un baffo, tutto fa parte di un gigantesco divertente minestrone cosmico, e tanto vale affidarsi al vento, a questa brezza fresca da occidente e al tepore della Terra che mi riscalda il culo. L’indispensabile culo che, finora, mi ha sempre accompagnato». Monte Bora, Cesena, Italia

Era andato sul Monte Bora perché era lì che si fermava prima di ogni viaggio. Tornava nella casa della famiglia di sua madre Gabriella, che morì alla fine del 1959 a 34 anni – Enzo ne aveva 11 – per la coda di un’epidemia di polio che tra l’estate del 1958 e l’inizio del 1960 colpì migliaia di persone. Enzo, che era il maggiore di quattro fratelli, Ida, Sandro e Raffaele, fu mandato a Cesena dalla nonna e dalle zie. Gli anni della sua infanzia a Preci, il paesino della Valnerina in Umbria dov’era cresciuto, sono raccontati, pur nella trasfigurazione della fantasia, nel romanzo Occhi selvaggi di suo fratello Sandro. «Nostro padre non c’era mai, stavamo sempre da soli», ricorda oggi Sandro, «Enzo mi portava nei boschi a costruire capanne, fare il fuoco, una volta cademmo in un fiume ma non lo dicemmo a nessuno. Era nato nel 1948, aveva sei anni più di me. Era un rompipalle, molto pignolo, se sbagliavo qualcosa me lo faceva rifare finché non veniva. Leggeva Emilio Salgari e Jack London, e aveva una grande capacità di organizzare le bande degli altri bambini. Quando tornava a casa da Cesena, e poi da Milano, mi portava sempre qualcosa, fotografie, macchine da presa, libri e dischi».

Enzo e Sandro Baldoni in colonia a Cesenatico, circa 1962

La meticolosità spiega perché già il 3 agosto, quando gli propongono di entrare in Iraq in auto da Amman in Giordania, Baldoni scrive sul blog che non gli passava neanche per la testa di incontrare Abu Musab al-Zarqawi, il capo della guerriglia islamista contro gli americani che avrebbe poi portato alla nascita dell’Isis, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante.

Martedì 3 agosto 2004. «L’amico che mi aveva assicurato un posto sull’aeroplanino delle ONG per Baghdad mi dice che le cose sono cambiate e non può più farlo. Mi suggerisce una traversata in auto. Non ci penso neanche di striscio: in auto si passa per Falluja. Lì c’è Al Zarkawi: non aspetta altro che un ostaggio prezioso per alzare il livello del ricatto. (…) Già mi immagino il posto di blocco: “Italiano? Vieni con noi, bello: per te abbiamo un programma che ti farà andar via di testa!” Per Falluja manco morto. Bisogna che mi inventi qualcosa». Amman, Giordania

Il 21 febbraio 2004 aveva scritto a Luca Sofri questa email:

«Bada che non sono un Rambo o uno sconsiderato. Metto sempre le cinture in auto, portavo il casco sul cinquantino anche quando non era obbligatorio e prendo sempre tutte le precauzioni necessarie. Ho solo imparato che chi ha paura della morte ha paura della vita. E a me la vita piace parecchio».

Sono testi che contraddicono l’immagine del dilettante allo sbaraglio che nei giorni del rapimento molta stampa italiana, purtroppo non solo di destra, gli cucì addosso. È rimasto famoso, come una pagina infima del giornalismo e della storia italiana, il titolo irridente che Libero mise sotto la faccia di Baldoni rapito nel video di Al Jazeera: “Vacanze intelligenti”. L’articolo era firmato dal vicedirettore Renato Farina, poi noto come “agente Betulla” stipendiato dai servizi segreti italiani. Definiva Baldoni un «giocherellone della rivoluzione» e un «vacanziere del brivido» che «in fondo giustifica chi spara ai marines». In un altro articolo intitolato “Il pacifista col kalashnikov” il direttore Vittorio Feltri ne parlò come di uno «spottaro strappato a via Monte Napoleone e a piazza San Babila». E ancora: «Baldoni è inebetito dalle ideologie nate dalle ceneri delle ideologie: legge davanti alla telecamera il comunicato dei suoi aguzzini, in cui si dà del criminale a Berlusconi, e ne gode, glielo leggi in faccia che gode; e il video non inganna». Alla faccia del patriottismo.

Ma anche Luca Fazzo, altro giornalista che a quel tempo era nell’elenco dei servizi segreti italiani, il 22 agosto scrisse su Repubblica: «Se Baldoni riapparisse, dice uno degli uomini che in queste ore si stanno dannando per salvarlo, sarebbe lui a doverci qualche spiegazione». Come avrebbe poi detto, sempre a Repubblica, Giusi Bonsignore, moglie di Enzo Baldoni: «Mentre era in mano ai rapitori mio marito non ha avuto in patria il sostegno che in Francia fu invece dato a Chesnot e Malbrunot, giornalisti sequestrati in contemporanea, e dagli stessi terroristi, poi liberati. Non voglio dimenticare i nomi di chi scrisse questi articoli: Vittorio Feltri e Renato Farina. Il secondo, probabilmente in preda a incubi notturni, ci scrisse poi un’inaccettabile lettera di scuse. Non abbiamo mai risposto».

Quello che invece colpisce, rileggendo il blog di quei giorni, è la costanza con cui Baldoni parla della morte. La paura è così presente da sembrare un presagio a cui ogni volta dare la stessa risposta del Monte Bora: la curiosità per la vita comporta sempre il rischio di morire.

Giovedì 29 luglio 2004. «La notte, fuori, è dolce, sa di deserto e di spezie. Di fronte la vita, con tutta una serie di nuove promesse, come pacchi regalo ancora da aprire. E se qualcuna non sarà positiva, pazienza. Vale sempre la pena di scoprire cosa c’è dentro i pacchi». Amman, Giordania

Dopo essersi diplomato perito agrario a Cesena, si trasferì a Milano per iscriversi a Scienze dell’alimentazione. «Non so cosa avesse in testa. Mollò presto. Gli piaceva fare fotografie», dice Sandro, «erano gli anni intorno al ’68 e lui era di sinistra ma anche un gran bastian contrario: per farli incazzare gli diceva di essere repubblicano. Quando capì che era possibile guadagnare mettendo in fila le parole, cominciò a collaborare con la pubblicità, per l’agenzia GGK, poi STZ, scrisse i testi della campagna “Bevo Jägermeister”, in una c’è anche lui. Se ho iniziato anche io a fare pubblicità è grazie a lui». (Sandro Baldoni è un regista pubblicitario, ma anche di un film di culto come Strane storie – Racconti di fine secolo).

Enzo Baldoni nella pubblicità dello Jägermeister, di cui era anche copy (archivio GGK e STZ)

Qualche anno dopo l’arrivo a Milano, Enzo Baldoni incontrò Giusi Bonsignore (è lei la G. tra Enzo e Baldoni con cui firmava gli articoli per i giornali per rendere merito al suo aiuto); si sposarono, nacquero Gabriella e Guido; con il suo amico Marco Andolfato fondò l’agenzia Le Balene; e intanto faceva il volontario sulle ambulanze della Croce Rossa, traduceva Doonesbury, una striscia mitica negli anni Settanta, creava Zonker Zone, uno dei primi blog e comunità virtuali italiane, e nel tempo libero intervistava guerriglieri e provava a raccontare il mondo. Fu anche questo che diede fastidio.

Quando fu rapito, a una campagna di delegittimazione a mezzo stampa, che rimane senza precedenti, si aggiunsero editoriali critici. L’idea che qualcuno, senza essere giornalista professionista, usasse le sue vacanze per andarsene in Iraq a raccontare la guerra e a criticare l’occupazione americana suscitò una reazione avversa, quasi corporativa. E questo anche se la vita di Baldoni è in effetti, in tutti gli ambiti, quella di un instancabile e geniale dilettante; un Candide intelligente, che attraversa i disastri del mondo cercando di sorridere e senza mai illudersi di vivere nel migliore dei mondi possibili. In Baldoni c’era davvero qualcosa che contraddiceva alla radice l’immagine eroica e un po’ machista dell’inviato di guerra. Me lo chiedo da vent’anni perché uno così pacifico e spiritoso fosse attratto dalla violenza e dalla guerra. Per Sandro suo fratello maggiore cercava il lato umano nel “minestrone cosmico”, l’aspetto cazzone delle persone che nessuno vede e racconta, la pipa del comandante Marcos o la smodata passione per l’Inter di Xanana Gusmão.

La copertina di Diario del 9 settembre 2004 con il disegno che Garry Trudeau, autore della striscia di Doonesbury, regalò a Enzo Baldoni, al centro con la camicia scura, per il suo cinquantesimo compleanno

A guidare Enzo Baldoni era lo stesso miscuglio di fatalismo e ottimismo che mi aveva così colpito quel giorno al bar Picchio: quella sua capacità unica di fare in modo leggero cose pesanti, avendo piena coscienza di quanto lo siano. Quello che oggi è ancora più stupefacente pensare – e che in Italia, il suo paese, non è stato riconosciuto – è la quantità di cose buone che Enzo Baldoni riuscì a fare in soli venti giorni di Iraq. Alla curiosità affiancava l’idea che bisognasse fare sempre qualcosa per gli altri. Il suo istinto giornalistico era intrecciato alla generosità, all’entusiasmo e all’idealismo del volontario della Croce Rossa.

Partecipò a due missioni umanitarie per portare acqua e medicinali a Najaf, la città santa sciita roccaforte dell’Esercito del Mahdi di Moqtada al-Sadr che in quei giorni era assediata dagli americani. In un testo ufficiale il governo italiano aveva chiesto al presidente americano George Bush di fermare l’assedio e di rispettare i luoghi santi degli sciiti. Le missioni in cui si impegnò Enzo Baldoni andavano nella stessa direzione, ma se ne negò addirittura l’esistenza.

La prima missione della Mezzaluna Rossa, ma con materiali della Croce Rossa italiana, fu domenica 15 agosto 2004. La seconda congiunta di Mezzaluna e Croce Rossa avvenne giovedì 19. In quell’occasione Enzo Baldoni, che nella prima missione si era lussato una spalla, riuscì a portare in salvo il convoglio, avanzando nei combattimenti con la bandiera bianca e la pettorina della Croce Rossa. E se fu rapito la mattina del 20 fu perché la Nissan scassata su cui viaggiava con il suo autista-amico e interprete Ghareeb, che in quel giorno fu ucciso e di cui nessuno ha mai citato il cognome, guidava il convoglio. Nei quattro giorni tra la prima missione e il rapimento, Enzo Baldoni trovò il tempo per prendersi a cuore un ragazzo a cui erano state amputate entrambe le gambe dal colpo di un carrarmato alleato.

A Baghdad Baldoni arriva venerdì 6 agosto. Prende una stanza al Palestine, l’hotel dei giornalisti. Domenica ha già incontrato Ghareeb.

Domenica 8 agosto. «Stasera, finalmente a cena fuori dal compound del Palestine – Sheraton, che è pesantemente controllato dagli americani e dalla neonata polizia irachena. Ceniamo in un kebab sulla strada, nessuno parla inglese, non esistono menù e nemmeno la birra, ma il pollo è delizioso (si mangia con le mani, chiaro). Ghareeb è ingegnere, è intelligente e molto colto, come gran parte dei palestinesi, parla un discreto inglese e conosce bene la storia. Una compagnia piacevole. E poi è più grosso di me e somiglia moltissimo a un certo Giodi di cui sono molto amico. Cosa chiedere di più alla vita?».

Il giorno dopo, lunedì 9, Enzo Baldoni accetta di accompagnare Ghareeb a Falluja. Sa che è pericoloso, ma si fida e si affida. «Ghareeb deve portare qualcosa a Falluja. Non indago, non voglio sapere niente, ma sono certo che si tratta di aiuti umanitari. Partiamo la mattina di buonora. Ghareeb è nervoso, non l’ho mai visto così teso», scrive. Nel resoconto che pubblica la sera stessa sul blog è spaventato: le milizie islamiche si stanno organizzando, c’è molta violenza, la popolarità degli americani nel paese comincia a crollare. Martedì 10 probabilmente viene a conoscenza della storia di Mohammed, il ragazzo amputato. Mercoledì 11 manda un’email alla presidente di Emergency, Teresa Sarti.

«Oggetto: I piedi spaiati di Mohammed. Lo so, di lettere così ne ricevi a dozzine, ma Mohammed, che vive in campagna, stava accompagnando la moglie a partorire giusto mentre gli americani stavano entrando a Baghdad. Un Bradley ha cannoneggiato l’ambulanza. M’med è stato sbalzato fuori senza le gambe e ha visto la moglie morire bruciata con il bambino che stava nascendo. Una qualche associazione benefica gli ha dato due piedi spaiati, un 37 e un 38, e gli manca una rotula. Si può fare qualcosa per questo ragazzo di Baghdad che mi sono preso a cuore? Si è appena risposato. Lui ha un sorriso che riempie il cuore d’allegria, ma la nuova moglie si vergogna di presentarlo ai genitori senza gambe. Ti abbraccio. e».

Teresa Sarti risponde il 13, due giorni dopo:

«Ciao, Enzo. Spero che il tuo viaggio stia andando bene, malgrado gli orrori che incontri. Per quanto riguarda il problema che poni, Emergency a Sulaymaniyya ha un centro protesi di alto livello. Prova a proporglielo. Si tratterebbe “solo” di spostarsi in nord Iraq, ma in tempi normali sono poche ore d’auto. Naturalmente tutte le cure e la protesi sono gratuite. Fammi sapere, buon lavoro, Teresa».

Baldoni le risponde il giorno stesso, annunciando la prima missione a Najaf:

«Sei un angelo, Teresa. Provvederò personalmente a trasportare Mohammed a Sulaymaniyya e a procurare tutti i lasciapassare. (Scusami: in questo momento mi stanno venendo i lucciconi. Stupida emotività). Sono in partenza per Najaf con un carico di acqua e medicinali. Con le autorità religiose tutto cleared, speriamo che gli americani non ci sparino addosso, d’altro canto non vogliamo la loro scorta armata. Dovrei tornare domani. Vuoi che invii una mail ad Hawar? (Il responsabile dell’ospedale di Sulaymaniyya, ndr) e».

Mohammed ed Enzo Baldoni in Iraq (Archivio Ansa/Kld)

L’idea della missione a Najaf è di Ghareeb. A coinvolgere la Croce Rossa italiana è Enzo Baldoni, che lunedì 16 dopo la prima missione ricapitola sul blog come sono andate le cose:

«(Vivo più velocemente di quanto riesca a scrivere. Riprendiamo l’ordine cronologico del racconto da quando nasce l’idea di portare medicinali a Najaf: siamo a venerdi 13 agosto.)
Najaf è assediata, Mouktada è ferito, la popolazione è senz’acqua e senza medicinali.
“E se glieli portassimo noi?” mi fa Ghareeb.
“Ma sei scemo?” gli rispondo.
“Per niente. Perché non chiami quel medico alla Croce Rossa? Peppi? Proviamo a chiedere a lui”.
“Beppe, si chiama Beppe. Già, ma se poi l’esercito del Mahdi vede le croci e ci spara addosso?”».

Giuseppe De Santis, il capo della Croce Rossa italiana a Baghdad, accetta. «Beppe chiede ovviamente la clearance all’esercito della coalizione: gli americani non spareranno sul convoglio, ma nemmeno lo scorteranno. Avviseranno i loro posti di blocco e le truppe. Speriamo bene». Ma alla mezzanotte di venerdì comunica a Baldoni che manca l’autorizzazione da Roma, ufficialmente per «problemi all’autoparco». Ghareeb prende contatti con la Mezzaluna Rossa, che procura i camion e consegnerà il materiale fornito e caricato dalla Croce Rossa italiana.

Ghareeb e Giuseppe De Santis, capo della Croce Rossa italiana a Baghdad (blog Enzo Baldoni)

Due giorni dopo, a Ferragosto, la missione della Mezzaluna Rossa parte per Najaf.

Domenica 15 agosto. «I due camion sono pronti, con le sole insegne sbiadite della Mezzaluna sulle portiere e il tetto bianco. Aprirà il convoglio quel catorcio che è la Nissan di Ghareeb, seguita dai due vecchi Ford della Mezzaluna. È un convoglio sgarrupato, ma porta 10 tonnellate di acqua imbustata litro per litro da Francesco, Lillo e Andrea assieme ai loro colleghi iracheni. E poi bende, antidolorifici, disinfettanti, flebo, aghi, anestetici: un minimo essenziale per la chirurgia di guerra».
«Passiamo Al Hillah, l’antica Babilonia: mi emoziono a pensare ai 6.000 anni di storia che ci guardano da quelle mura. E poi passiamo il grande Eufrate tranquillo, limpido e maestoso. Ghareeb si commuove al verde tenero dell’erba della Gran Terra Tra i Due Fiumi. E poi, dopo molta, molta strada e molti, molti posti di blocco – oops: a questo posto di blocco non ci sono le camicie azzurro ATM dei poliziotti iracheni.
Ci sono dei signori molto armati.
Vestiti di nero.
Con la fascia verde in testa.
Tana».

La Nissan bianca di Ghareeb (blog Enzo Baldoni)

Il convoglio raggiunge Najaf. Baldoni si lussa una spalla, scaricando casse di aiuti. Viene curato all’ospedale della Croce Rossa italiana di Baghdad.

Lunedì 16 agosto. «Tornato da Najaf, grande esperienza umana, consegnati medicinali operazione congiunta croce rossa italiana e mezzaluna rossa, portati fuori donne e bambini nascosti nel camion, stato in casa as sadr, entrato mausoleo ali, visto morire guerrigliero, incontrato comandante esercito al mahdi, cagato sotto causa torretta bradley che si spostava tenendomi di mira, incontrati marines che stavano pian piano entrando a piedi in najaf, lussata clavicola, ricoverato osped. italiano. grandi foto. scusate imprecisioni e stile telegrafico, scrivo solo mano sinistra, tutto bene. forse dovrò interrompere viaggio. presto racconto. vi voglio bene, grazie per starmi vicini».

È l’ultima email che Enzo Baldoni mi invia. Lo stesso testo, con piccole variazioni, viene postato sul blog e inviato a Teresa Sarti di Emergency. Per quattro giorni Baldoni riassume sul blog il viaggio a Najaf. Compare nei Tg italiani con il braccio al collo, intervistato da Pino Scaccia della Rai, e racconta a Radio Popolare l’incontro con la milizia di al-Sadr e il contatto con il leader sciita. Intanto prende accordi con Hawar, l’uomo di Emergency a Sulaymaniyya, per portare Mohammed in ospedale lunedì 23 agosto. Intanto prepara una seconda missione a Najaf, questa volta congiunta. Il volontario della Croce Rossa ha preso il sopravvento sul giornalista.

Enzo Baldoni in missione davanti a una bandiera della Croce Rossa (blog Enzo Baldoni)

Il convoglio con le insegne della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa parte da Baghdad giovedì 19 agosto. È formato da medici, infermieri, tecnici e autisti italiani, medici e interpreti iracheni, due «ambasciatori» di Moqtada al-Sadr che ne garantiscono la sicurezza ed è aperto come capocolonna, come dice il foglio di servizio, da Enzo Baldoni e dal suo interprete Ghareeb. Con loro viaggiano l’inviato della Rai Pino Scaccia, l’operatore Norberto Sanna, e la volontaria gallese Helen Williams con il suo interprete iracheno. A riferire come andarono le cose è Pino Scaccia, testimone oculare. Per due ore la missione rimane bloccata a Najaf da violenti scontri. Scrive Scaccia nel suo blog: «Poi pian piano siamo riusciti ad uscire da quell’imbuto grazie ad Enzo e a un amico iracheno che a piedi precedevano il corteo sventolando la bandiera bianca». Il convoglio raggiunge la vicinissima Kufa, dove i medici soccorrono i feriti.

La mattina di venerdì 20 agosto il convoglio riparte per Baghdad. Durante il viaggio, la Nissan di Baldoni e Ghareeb è colpita da una mina. Il resto del convoglio passa velocemente e avverte dell’incidente un check point della polizia irachena a un chilometro di distanza, chiedendo ai poliziotti di recuperare i passeggeri. La zona e il giorno sono gli stessi del rapimento dei due giornalisti francesi Christian Chesnot e Georges Malbrunot, liberati dagli americani l’11 novembre. Il primo a dare notizia della morte di Ghareeb in Italia è Justin Alexander, un pacifista inglese, con un commento sul blog di Baldoni. Sono le 19:40 ora di Baghdad, quindi le 17:40 ora italiana di venerdì 20 agosto.

«Enzo, please tell me it isn’t true that Ghareeb has been killed this morning. Call me 0044 7813 137171. Justin».

Un’ora dopo (le 18:30) Alexander conferma:

«Alcune ore fa ho sentito che uno dei miei più cari amici in Iraq è stato appena ucciso, mentre tornava da Najaf con un convoglio della Croce Rossa che aveva organizzato per fornire le medicine disperatamente necessarie. Ghareeb è (non riesco ancora a dire “era”) una delle persone più altruiste che abbia mai incontrato. A quanto pare, una bomba sul ciglio della strada ha danneggiato la sua macchina e poi degli uomini armati gli hanno sparato e hanno portato via il nostro comune amico Enzo Baldoni. Credo che debbano essere stati dei banditi, poiché nessun membro della vera resistenza avrebbe attaccato un convoglio della Croce Rossa o ucciso Ghareeb che era molto conosciuto in Iraq».

Un’Ansa delle 19:48 conferma che l’ambasciata italiana a Baghdad ha perso «da molte ore il cronista italiano Enzo Baldoni di “Diario”». Il cadavere di Ghareeb viene identificato martedì 24 agosto. Nel pomeriggio dello stesso giorno Al Jazeera, la più seguita tv di news del mondo islamico, trasmette il video di Enzo Baldoni rapito e in buona salute. Il rapimento è rivendicato dall’Esercito islamico in Iraq (lo stesso di Chesnot e Malbrunot) che dà al governo italiano guidato da Silvio Berlusconi un ultimatum per il ritiro delle truppe entro 48 ore.

Un fotogramma del video dei rapitori trasmesso dalla tv del Qatar Al Jazeera e ritrasmesso in Italia dal Tg1 (TG1 – ANSA – KRZ-LI). Il video originale non è più online

Nei giorni che seguono la delegittimazione dell’ostaggio comincia. Il 23 agosto al meeting di Rimini il commissario della Croce Rossa Maurizio Scelli dice: «Il fatto che non ci fosse il corpo di Baldoni, induce a pensare che Baldoni sia da un’altra parte. Auguriamoci che sia in giro a fare quegli scoop che tanto ama». Il pomeriggio del 25, sempre a Rimini, il senatore a vita Giulio Andreotti minimizza: «Non è per minimizzare questo avvenimento, ritengo però che l’opinione pubblica italiana dovrebbe dedicare la stessa attenzione a tutte le persone rapite o uccise ogni giorno in Iraq». Naturalmente dice che «il giornalista deve essere liberato al più presto». Mercoledì 25 agosto è anche il giorno in cui Maurizio Scelli convoca Sandro e Raffaele Baldoni per annunciare un contatto con i rapitori e la liberazione prossima. Scelli intende convocare una conferenza stampa, a cui i fratelli si oppongono per paura che la notizia intralci le trattative. Il 26 agosto Al Jazeera riceve e trasmette un videomessaggio del ministro degli Esteri, Franco Frattini: «Siamo pronti a ritirarci dall’Iraq anche domani se il governo del signor Allawi ce lo chiede». È tardi.

Durante la notte con una telefonata il ministero degli Esteri italiano comunica ai familiari che Enzo Baldoni è stato ucciso. La prova è un fermo immagine del suo cadavere, mai mostrato ma confermato il 30 agosto da Al Jazeera che parla di un video di 15 secondi in cui si vede «la testa, il collo e parte della spalla di Baldoni sporgere da un fosso sabbioso». Il particolare è importante perché Al Jazeera definisce «un’assoluta invenzione» il video della colluttazione con l’ostaggio dettagliatamente descritto il 28 da Libero, in un articolo sempre a firma Renato Farina. È la stessa scena raccontata un anno prima per Fabrizio Quattrocchi, il contractor rapito e ucciso in Iraq nell’aprile 2003, ma allora interpretata come atto eroico e patriottico – «ti faccio vedere come muore un italiano» –, questa per suggerire che l’avventatezza di Baldoni avrebbe vanificato l’accordo raggiunto dai servizi segreti italiani per la liberazione.

Insomma, Baldoni sarebbe stato pirla tre volte, ad andare in Iraq, a farsi rapire e a impedire, ribellandosi, la propria liberazione. Racconta oggi Sandro Baldoni: «Un anno dopo la morte di mio fratello, mi sono presentato a un incontro dove sapevo ci sarebbe stato Nicolò Pollari, il capo del Sismi di allora. Riuscii a ottenere un appuntamento e fui convocato in un palazzo a Roma. La sala sembrava un film dei Monty Python. Sulla scrivania c’era una fila di telefoni fissi e appeso al muro un grande bassorilievo in gesso che riproduceva una mappa politica dell’Africa. Mi ricordo che mentre aspettavo che arrivassero si staccò un pezzo, un piccolo lembo del Corno d’Africa, mi pare, e cadde per terra. C’era Pollari, poi arrivò anche Marco Mancini, quello al centro del rapimento dell’imam di Milano Abu Omar, dello scandalo Telecom Sismi e della liberazione di Giuliana Sgrena in cui morì Nicola Calipari. Gli chiesi del video della colluttazione. Non risposero. Erano imbarazzatissimi». È sempre sconsolante osservare che una delle attività principali dei servizi segreti italiani sia sul fronte mediatico, un riflesso condizionato che spinge al “depistaggio preventivo”.

Non ho mai amato la retorica dell’eroe. Ho sempre annusato qualcosa di mortifero nel gesto di chi consapevolmente si sacrifica: un bisogno ambiguo di farsi piangere e applaudire più forte della voglia di vivere. Non c’è dubbio, però, che in Iraq Enzo Baldoni si sia comportato da eroe, cercando di testimoniare quello che stava accadendo e portando aiuto dove poteva, a rischio della vita: prendendosi in carico il destino di un ragazzo amputato, che poi fu curato da Emergency, partecipando e guidando due missioni umanitarie di aiuti in una città assediata. E non c’è dubbio che in Italia il suo coraggio non sia stato riconosciuto, neppure nell’ottica patriottica che oggi va per la maggiore, ma che non mi appartiene e soprattutto non gli apparteneva.

Non c’è più nulla che lo ricordi in Italia, a parte una canzone di Samuele Bersani, un auditorium, un evento dell’associazione degli art director italiani, cinque vie e un piazzale, a Licata, Agrigento, che sembra di stare a Baghdad. Dice il fratello Sandro: «Gli hanno solo intitolato qualche piazzetta o stradina, mi ricordo di essermi ritrovato in un vicolo nella periferia di Avola, in Sicilia, di aver alzato gli occhi e letto: via Enzo Baldoni». Le istituzioni italiane hanno scelto di dimenticarlo. Credo che Enzo Baldoni avrebbe riso anche di questo perché nel suo “minestrone cosmico” non c’era posto per le medaglie. Aveva troppo senso dell’umorismo e amava troppo la vita per essere attratto dall’ideologia della bella morte. Ne era troppo curioso. Lo aveva anche scritto per tempo, previdente e pignolo com’era, nelle disposizioni per il suo funerale.

«Ordunque, trascurando il fatto che io sono certamente immortale, se per qualche errore del Creatore prima o poi dovesse succedere anche a me di morire – evento verso cui serbo la più tranquilla e sorridente delle disposizioni – ecco le mie istruzioni per l’uso.
La mia bara posata a terra, in un ambiente possibilmente laico, ma va bene anche una chiesa, chi se ne frega. Potrebbe anche essere la Casa delle Balene, se ci sarà già o ci sarà ancora. L’ora?
Tardo pomeriggio, verso l’ora dell’aperitivo. (…)
Se non sarà stato possibile recuperare il cadavere perché magari sono sparito in mare (non è una cattiva morte, ci sono stato vicino: ti prende una gran serenità) in uno dei miei viaggi, andrà bene la sedia dove lavoro col mio ritratto sopra.
Verrà data comunicazione, naturalmente per posta elettronica, alla lista EnzoB e a tutte le altre mailing list che avrò all’epoca. Si farà anche un annuncio sui miei blog e su qualsiasi altra diavoleria elettronica verrà inventata nei prossimi cent’anni.
Vorrei che tutti fossero vestiti con abiti allegri e colorati. (…)
Voglio che si rida – avete notato? Ai funerali si finisce sempre per ridere: è naturale, la vita prende il sopravvento sulla morte – .
E si fumi tranquillamente tutto ciò che si vuole. Non mi dispiacerebbe se nascessero nuovi amori. Una sveltina su un soppalco defilato non la considererei un’offesa alla morte, bensì un’offerta alla vita».

Per vent’anni, lo confesso, sono stato arrabbiato con lui. Gli avevo commissionato un innocente manualetto e lui è andato a farsi ammazzare. Oggi mi sento di rimproverargli una sola cosa, di avermi rovinato le vacanze (ma solo alla fine).

Nel luglio 2005 la Croce Rossa entrò in possesso del frammento di un suo osso. Nell’aprile 2010, dopo sei anni di attesa, qualcosa del suo corpo tornò in Italia. I funerali si celebrarono il 27 novembre 2010 a Preci, dove Enzo Baldoni era stato bambino. Oltre alla famiglia, agli amici e ai colleghi c’era il sindaco del paese con il gonfalone del Comune. Avevano mandato anche una corona della Provincia di Milano. Sulla sua tomba a forma di balena è stato inciso un epitaffio di Marguerite Yourcenar:

«Ho avuto la buona vita di un cane al sole».

Giacomo Papi
Giacomo Papi

È nato a Milano. Il suo ultimo romanzo si intitola La piscina. Dirige il Laboratorio Formentini per l'editoria della Fondazione Mondadori. Cura la sezione Storie/Idee del Post.

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su