Il più importante leader palestinese è da oltre 20 anni in carcere in Israele
Marwan Barghouti sta scontando cinque ergastoli, ma da molti è considerato l'ultima speranza del processo di pace
Da più di vent’anni tutte le volte che si parla di scambi di prigionieri tra israeliani e palestinesi uno dei nomi che vengono fatti con maggiore insistenza è quello di Marwan Barghouti. Benché non sia molto noto in Occidente, Barghouti, che ha 65 anni, è di gran lunga il leader più carismatico e popolare di tutta la Palestina, e il suo nome è emerso molte volte in questi mesi di negoziati su Gaza: Israele vuole che Hamas restituisca gli ostaggi presi durante l’attacco del 7 ottobre scorso, e Hamas chiede in cambio un certo numero di prigionieri palestinesi. Tra questi, potrebbe esserci anche Barghouti.
Un’eventuale liberazione di Marwan Barghouti sarebbe importante perché il leader palestinese è considerato da molti un moderato e un intellettuale laico, che in passato ha sempre sostenuto la soluzione della convivenza tra due stati, uno israeliano e uno palestinese. Anche in Israele è ritenuto l’unico leader palestinese in grado di far raggiungere un accordo di pace tra le due parti. In questi anni Barghouti è stato definito «il prigioniero più importante del mondo», e «il Nelson Mandela palestinese», dal nome del famoso leader sudafricano.
Al tempo stesso, Barghouti è un leader che non ha mai rinunciato alla lotta armata, e che sta scontando cinque ergastoli per aver progettato numerosi omicidi quando era un leader politico palestinese durante la seconda Intifada: secondo i suoi critici, questo mostrerebbe che non è davvero interessato alla pace. E poiché Barghouti è isolato dalla scena pubblica da oltre vent’anni, e le comunicazioni con lui si sono progressivamente ridotte nel corso del tempo, oggi è quasi impossibile capire chi sia davvero, almeno finché rimarrà in carcere.
Questo ha contribuito a conferirgli uno status quasi mitico soprattutto in Palestina, dove la sua immagine è raffigurata in murales e dove la sua popolarità è ancora eccezionale.
La popolarità di Barghouti è uno degli elementi più solidi della sua attuale figura politica: un sondaggio recente ha mostrato che se ci fosse un’elezione tra i palestinesi, tanto nella Striscia di Gaza quanto in Cisgiordania, Barghouti sarebbe di gran lunga il politico più votato, e prenderebbe più voti dei suoi principali rivali messi assieme.
È popolare non soltanto tra i palestinesi, ma anche all’interno della leadership israeliana. Da anni molti politici e intellettuali israeliani ne chiedono la liberazione, sostenendo che sarebbe il leader giusto (anzi: l’unico) con cui costruire un percorso di pace. Di recente per esempio Ami Ayalon, ex direttore dello Shin Bet, i servizi segreti interni israeliani, ha chiesto la sua liberazione definendolo «l’unico leader capace di condurre i palestinesi alla costituzione di uno stato che conviva con Israele».
Non tutti però sono d’accordo e c’è chi ritiene che Barghouti sia un leader più radicale di quello che la sua figura pubblica lascia intendere.
Marwan Barghouti è nato nel 1959 a Ramallah, in Cisgiordania, qualche anno prima che l’esercito israeliano occupasse la regione a seguito della guerra dei Sei giorni. Da ragazzo militò nei movimenti comunisti palestinesi, che allora avevano una certa influenza, poi entrò nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), la principale organizzazione politica e armata palestinese, che era guidata da Yasser Arafat e perseguiva la causa del popolo palestinese anche tramite la lotta armata e attacchi terroristici.
Barghouti fu arrestato da Israele per la prima volta a 18 anni, accusato di azioni terroristiche. Trascorse poco più di quattro anni in prigione. Dopo essere uscito, si iscrisse all’Università di Bir Zeit, frequentata dall’élite palestinese del tempo, e studiò Storia, Scienze politiche e Relazioni internazionali. Si sposò con Fadwa, un’avvocata che in futuro avrebbe gestito la sua difesa e sarebbe diventata la sua portavoce pubblica.
Negli anni Ottanta entrò e uscì di prigione più volte, e durante i prolungati periodi di prigionia imparò un perfetto ebraico, che parla praticamente senza accento. In quel periodo aumentò inoltre la sua influenza dentro all’OLP e dentro a Fatah, il partito che dominava l’organizzazione, fino a diventarne uno dei principali dirigenti.
Nel 1987, assieme a parte della dirigenza di Fatah, fu espulso dal paese e si trasferì con sua moglie in Giordania. Nello stesso anno cominciò in Palestina la prima Intifada (parola araba che significa “rivolta”), un lungo periodo di sollevazioni popolari, anche violente, contro l’occupazione israeliana. La prima Intifada durò sei anni: furono uccisi 160 israeliani e oltre 2.000 palestinesi. Barghouti ne divenne uno dei leader più riconosciuti, benché si trovasse ancora in Giordania.
L’Intifada finì nel 1993, quando il leader dell’OLP Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin firmarono gli accordi di Oslo, rimasti a tutt’oggi il più importante tentativo di trovare un accordo di pace tra israeliani e palestinesi. L’OLP, dopo decenni di lotta armata, riconobbe infine lo stato israeliano, e si trasformò nella ANP, cioè l’Autorità nazionale palestinese, sempre dominata dal partito Fatah. Israele non riconobbe lo stato palestinese, ma aprì la strada a quello che avrebbe dovuto essere un lungo processo di negoziati per la creazione di due stati capaci di convivere pacificamente in Palestina.
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In qualità di dirigente di Fatah, Barghouti partecipò al lunghissimo processo negoziale, che coinvolse importanti politici palestinesi e israeliani e si protrasse per anni. Fu in questo contesto che costruì la sua immagine di negoziatore moderato, che credeva davvero nella soluzione dei due stati e nella possibilità di raggiungere una pace duratura tra israeliani e palestinesi. In particolare grazie al suo ottimo ebraico Barghouti stabilì rapporti di collaborazione e, a volte, di amicizia con i negoziatori israeliani.
Meir Sheetrit, un ex ministro ed ex parlamentare del Likud, il partito israeliano di Benjamin Netanyahu, ha detto all’Economist: «Era a favore della pace, completamente. Una pace vera con Israele. Avevamo rapporti molto amichevoli».
In quel periodo, Barghouti cominciò a essere percepito come il probabile successore di Arafat, che stava diventando sempre più anziano, e lui stesso aveva cominciato a comportarsi come il successivo leader palestinese.
Dopo gli accordi di Oslo, i negoziati di pace tuttavia si prolungarono eccessivamente, al punto che Barghouti cominciò a pensare che Israele non avesse mai avuto l’intenzione di consentire la nascita di uno stato palestinese. Nel 2000, durante l’incontro di Camp David alla presenza del presidente americano Bill Clinton, fallì l’ultimo tentativo di salvare il processo di pace. Poco dopo Ariel Sharon, un ex militare e politico di destra noto per essere molto duro con i palestinesi, entrò nella Spianata delle Moschee di Gerusalemme, un luogo sacro tanto per musulmani quanto per gli ebrei ma dove, sulla base di accordi decennali, gli ebrei non possono pregare.
La visita di Sharon fu seguita da scontri e proteste tra israeliani e palestinesi che si trasformarono presto in una seconda Intifada, molto più violenta della prima. Alcuni gruppi di estremisti palestinesi organizzarono attentati suicidi in varie città israeliane, a cui l’esercito israeliano rispose con una durissima repressione.
A quel punto Barghouti abbandonò il negoziato e si trasformò in un leader della resistenza militare, diventando di fatto uno dei capi della rivolta. Alla fine del 2000 contribuì a fondare la Brigata dei martiri di al Aqsa, che divenne il braccio militare di Fatah e che oggi è considerato un gruppo terroristico da vari paesi, compresa l’Unione Europea: i martiri di al Aqsa organizzarono vari attentati sanguinosi, compresi molti attacchi suicidi contro i civili israeliani.
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Barghouti entrò in clandestinità e partecipò all’organizzazione di operazioni armate contro l’esercito israeliano. Due anni dopo, in un editoriale sul Washington Post, scrisse: «Se i palestinesi devono negoziare sotto l’occupazione [israeliana], allora Israele deve negoziare mentre noi resistiamo a questa occupazione. Non sono un terrorista, ma non sono nemmeno un pacifista. […] Non voglio distruggere Israele, ma voglio porre fine all’occupazione del mio paese».
Barghouti fu arrestato nell’aprile del 2002, e i suoi avvocati dissero in seguito che fu torturato in prigione. Fu processato e dichiarato colpevole di cinque omicidi avvenuti durante un attacco a cui lui non partecipò direttamente, e fu condannato a cinque ergastoli più altri 40 anni di prigione.
Da quel momento, Barghouti cominciò un’intensa attività di attivismo politico in prigione. Entrò in conflitto con Fatah, da cui uscì dopo la morte di Arafat e quando fu scelto come nuovo leader Mahmoud Abbas, che ancora oggi guida il partito e l’Autorità palestinese. Fondò un nuovo partito, organizzò scioperi della fame, scrisse editoriali per i giornali. Per anni ha ricevuto costantemente visite da politici israeliani, mentre sua moglie, che ancora abita in Cisgiordania, ha sempre dovuto sottoporsi a lunghe trafile burocratiche per poter visitare il marito in carcere in Israele.
In carcere Barghouti organizzò anche vari cicli di corsi universitari per gli altri carcerati, grazie al contributo di professori esterni: aiutò a far laureare più di 1.200 persone.
Nel corso degli anni attivisti israeliani, palestinesi e occidentali hanno portato avanti numerose campagne per la sua liberazione, senza ottenere grossi risultati. Tutte le volte che Israele e qualche gruppo palestinese hanno intrattenuto negoziati per scambi di prigionieri, il nome di Barghouti è sempre stato fatto, ma lui non è mai stato scarcerato.
Il suo nome è stato fatto anche in questi mesi di negoziati per un cessate il fuoco a Gaza, ma ancora con un certo scetticismo. Secondo molti, la liberazione di un politico palestinese estremamente popolare non converrebbe a nessuno. Né a Fatah né ad Hamas, che ne sarebbero minacciate, ma nemmeno al governo israeliano di Netanyahu, che ha sempre fatto di tutto per mantenere la leadership palestinese divisa e debole.
Nel frattempo, le notizie su Barghouti sono state sempre meno. Dal 2017 le autorità carcerarie israeliane hanno ridotto le visite alla sua prigione, dopo che Barghouti aveva organizzato un grande sciopero della fame a cui avevano partecipato migliaia di carcerati. Perfino sua moglie, Fadwa, che negli anni è diventata la sua portavoce, ha detto che non lo vede ormai da un anno. L’ultima fotografia ufficiale che abbiamo di lui risale al 2012, l’ultima volta che fu chiamato in tribunale.
Questa progressiva e sempre maggiore lontananza dalla scena pubblica ha alimentato il mito di Barghouti, ma al tempo stesso ha aumentato le incertezze sulle sue condizioni, sulla sua ideologia e sulla sua posizione nei confronti della guerra. È difficile dire se Barghouti sia ancora il leader disposto al negoziato che tanti ricordano, oppure se più di vent’anni in carcere l’abbiano reso più intransigente. E poiché la sua popolarità tra i palestinesi si basa soprattutto su un mito lontano e sulla nostalgia, non è davvero chiaro se, anche se dovesse uscire di prigione, potrebbe davvero riuscire a ottenere la leadership di un popolo con cui ha perso i contatti ormai vent’anni fa.
Nonostante questo, per molti Barghouti è ancora una speranza. Di recente Efraim Halevy, ex direttore del Mossad, l’intelligence estera israeliana, ha detto: «Se vogliamo davvero trovare una soluzione, è lui che dobbiamo cercare».