Perché il prezzo di un vino può variare così tanto

Cosa passa tra un buon Chianti classico da 50 euro e un Leroy Musigny Grand Cru da 41mila dollari?

di Mariasole Lisciandro

(AP Photo/Rick Bowmer)
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Chi non è molto esperto di vini ha pochi strumenti per orientarsi su che bottiglia scegliere per una cena. In molti si fanno guidare da una bella etichetta che per qualche motivo li ispira, altri potrebbero decidere in base al prezzo, ritenuto spesso un indice di qualità: più è alto il prezzo, più sarà pregiato il vino. È un principio con un fondo di verità, perché presuppone che dietro a un vino che costa di più ci siano materie prime di migliore qualità o processi di produzione più lunghi, che si riflettono su un costo di produzione più elevato e dunque su un prezzo finale più alto.

Ma non è sempre così. Il prezzo di un vino può dipendere da molte cose che non sono legate alla qualità. Lo si nota soprattutto sui prodotti agli “estremi del mercato”, cioè i vini più cari e quelli che invece costano pochissimo. Un cartone di vino da tavola può limitarsi a costare solo qualche euro, mentre esistono vini da centinaia di euro, e alcuni parecchio rari, invecchiati o da collezione che vengono venduti alle aste anche a decine o centinaia di migliaia di euro. Questo, tuttavia, non significa che la loro qualità sia migliaia di volte superiore, perché il prezzo di un vino può essere legato ad alcune caratteristiche più intangibili che condizionano anche il valore di altre cose, come i vestiti, gli orologi o le opere d’arte. Riflette cioè il prestigio di chi quel vino lo produce, del suo marchio, del territorio da cui proviene, ma anche la rarità e l’età.

Secondo Andrea Gori, giornalista, sommelier e ristoratore, il prezzo del vino dipende al cinquanta per cento dalla qualità e al cinquanta per cento dall’attività di promozione e da aspetti immateriali: questi ultimi incidono maggiormente quanto più un vino è costoso, come se oltre una certa soglia di prezzo la qualità smettesse di essere un fattore.

Non si compra cioè un vino da collezione da centinaia di migliaia di euro solo perché è buono, e anzi se un vino è molto invecchiato è probabile che sia imbevibile perché non si è conservato bene. Si compra un vino da collezione perché ha un valore derivato dall’annata che magari era stata molto apprezzata, per il prestigio collegato al produttore, ma anche come investimento. Per esempio sono più queste caratteristiche, rispetto alla qualità, ad aver contribuito a fissare il prezzo del lotto di vini più costoso venduto all’asta da Sotheby’s nel 2023, cioè una cassa di cinque magnum di Romanée-Conti del 1999, aggiudicata per 275 mila dollari: sono 55 mila dollari per ogni magnum (cioè bottiglie da 1 litro e mezzo).

Per questo se si parla del prezzo di un vino bisogna distinguere due livelli, quello dei vini “normali”, che si comprano per il consumo, anche pregiato ma comunque per consumo, e quello dei vini da collezione o investimento.

(Brandon Bell/Getty Images)

Fin qui potrebbe sembrare che il vino non sia poi così diverso da altri beni di lusso: anche un orologio d’epoca di Audemars Piguet costa molto di più di uno Swatch, o di un altro orologio dello stesso marchio ma più comune. A differenza degli altri prodotti però il vino ha determinanti di prezzo più peculiari e imprevedibili, perché fa parte di quei beni definiti experience good, il cui uso è un’esperienza di cui sappiamo poco al momento dell’acquisto, essendo la bottiglia sigillata.

Questo condiziona di conseguenza il modo in cui funziona il mercato del vino, almeno per quanto riguarda i vini “normali”: a fronte del rischio di trovare una bottiglia non di suo gusto, un consumatore tendenzialmente è disposto a pagare meno per il suo acquisto, che dal punto di vista puramente economico è quasi una scommessa. Ed è per questo che i produttori devono mettere in atto una serie di accorgimenti commerciali per far conoscere il loro prodotto, per costruirsi una reputazione: più l’incertezza sulla qualità si riduce e più potranno spuntare un buon prezzo.

In questi casi il prezzo è determinato soprattutto dai costi di produzione di chi lo fa, che sono un indice abbastanza fedele della qualità delle materie prime e della raffinatezza o artigianalità dei processi. Basti pensare a quanto saranno alti i costi di produzione di quei vini fatti con l’uva di un territorio circoscritto dove si fa la cosiddetta «vendemmia eroica», cioè a mano in posti difficili da raggiungere. È il caso per esempio del Conegliano Valdobbiadene prosecco superiore DOCG, che si produce solo nelle colline intorno a Conegliano, in Veneto, e che ha un prezzo generalmente più elevato del prosecco prodotto con l’uva della pianura.

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I costi di produzione sono dunque legati alla qualità del prodotto, che è però un parametro difficile da misurare, e risente inevitabilmente dei gusti personali, della facilità di abbinamento con il cibo, o di certe caratteristiche organolettiche che rendono un vino di più facile comprensione per il pubblico meno esperto. «Il termine qualità è scivoloso, molto scivoloso quando si parla di vino», dice il presidente di Unione Italiana Vini Lamberto Frescobaldi. Sarebbe più corretto dunque parlare di «soddisfazione» procurata a chi lo beve.

Ci sono comunque alcune caratteristiche oggettive che possono dare qualche indizio sulla “qualità” del prodotto e che ne influenzano il prezzo, come l’annata (cioè l’anno in cui le uve sono state vendemmiate) o l’invecchiamento. Ma entrambe queste caratteristiche le sanno valutare perlopiù solo gli esperti e gli appassionati.

Un vigneto a Piverone, in Piemonte, nel 2022 (Marco Alpozzi/LaPresse)

Tornando alle caratteristiche meno tangibili, un esempio è l’appartenenza o meno di un’etichetta a una denominazione di origine o a una indicazione geografica: sono un segnale importante per il consumatore per capire a grandi linee che tipo di prodotto sta acquistando, visto che per ottenere il riconoscimento il produttore deve rispettare delle regole molto precise sui processi. Comprando una bottiglia di Chianti classico si sa che l’appartenenza del vino alla DOCG (denominazione d’origine controllata e garantita, cioè quella con il disciplinare più rigido) è già una sicurezza del fatto che il prodotto rispetta certi standard minimi di qualità.

In generale i consumatori si trovano meno spaesati di fronte a vini del genere, e sono anche disposti a pagare un po’ di più per acquistarli. Stefano Castriota, professore associato di economia dell’Università di Pisa nonché esperto del settore del vino, sta per pubblicare una ricerca che ha rilevato proprio l’esistenza di un sovrapprezzo per i vini protetti da denominazioni di origine. Lo studio ha analizzato varie zone d’Italia, come quella in cui è prodotto il Barolo e quella in cui si fa il Brunello di Montalcino, e ha considerato le aziende lungo il confine del territorio della denominazione d’origine, alcune dentro e alcune fuori: ci sono differenze di prezzo anche molto significative tra i prodotti che rientrano nel perimetro e quelli appena fuori, che non possono sfruttare la notorietà della denominazione nonostante i pochi chilometri di distanza. Le differenze sono tanto più ampie quanto più è famosa la denominazione di origine: «È come una lotteria, qualche produttore ha avuto fortuna e qualcun altro no», dice Castriota.

Bottiglie di vino frizzante della cantina Canelli, in Piemonte (Giorgio Perottino/Getty Images)

Lo stesso vale per i vini inseriti nelle guide più prestigiose al mondo, che hanno fatto la loro fortuna grazie alla menzione di critici enologici. Tra quelli più seguiti e accreditati c’è lo statunitense Robert Parker, forse il più influente e conosciuto al mondo, ora in pensione. Nel 1975, quando ancora lavorava come avvocato, creò la sua prima guida di vini, e il suo nome iniziò a circolare nell’ambiente grazie ad alcuni giudizi in controtendenza rispetto ai gusti dell’epoca. Oltre alla sua newsletter, Wine Advocate, Parker creò un sistema di 100 punti utilizzato per classificare i vini che ebbe un notevole impatto sul mercato: è stato stimato che una bottiglia che otteneva il massimo riusciva a quadruplicare il suo prezzo. I suoi giudizi venivano solitamente pubblicati in primavera, prima che venissero stabiliti i prezzi: era un particolare esperto dei vini della regione francese del Bordeaux, ed era capace di influenzare i prezzi dei vini locali en primeur, cioè quelli venduti ancor prima della fine del processo di invecchiamento e consegnati solo anni dopo l’acquisto.

Questi aspetti influenzano il prezzo di un vino “comune”, dal prezzo di qualche euro a 400-500 euro, un livello che può sembrare già molto alto ma che non lo è per i mercati più cari, come quello francese o quello dei cosiddetti “super tuscany”, come il Sassicaia. Ma secondo Castriota esiste una soglia – difficilmente quantificabile con esattezza – oltre la quale certi ragionamenti non valgono più, e il prezzo del vino si slega in parte dalla qualità e dalle determinanti oggettive: il secondo livello del mercato del vino.

Secondo Gori il vino è tra i prodotti di lusso più alla portata, se l’obiettivo è guadagnarsi un certo status: «per avere un orologio degno di nota, diciamo un Rolex, devi spendere 20 mila euro, con una bottiglia di vino puoi già fare bella figura con una bottiglia da mille euro». E poi anche per chi colleziona vini l’intenzione è di berli, prima o poi: «Si comprano vini e si mettono via per i compleanni o le lauree dei figli, o per berli con gli amici».

Per Frescobaldi decidere di stappare e assaggiare il vino di una bottiglia molto vecchia e pregiata fa vivere un’esperienza che non ha solo a che vedere con il gusto del vino che si beve (che non è neanche detto si sia ben conservato), ma anche con tutte le emozioni e i ricordi legati a quando quel vino fu imbottigliato. Frescobaldi fa l’esempio di stappare e assaggiare del vino messo da parte per i propri figli nell’anno della loro nascita: «Si può sindacare molto sul fatto che ci piaccia o che non ci piaccia, ma il vino riesce a prenderti per mano e ti porta indietro nel tempo, facendoti ricordare le cose belle del tuo passato».

Una dipendente della casa d’aste Sotheby’s tiene in mano una jeroboam – come si chiamano in gergo le bottiglie da 3 litri – di Chateau Mouton Rothschild del 1953, venduta nel 2012 a Londra (Oli Scarff/Getty Images)

La tendenza ad accumulare vini è in parte giustificata anche da motivi economici, cioè dal fatto che i vini più pregiati possano essere anche un investimento nel lungo termine. Ci sono alcune etichette, dice Gori, il cui valore difficilmente scenderà nel tempo, come nel caso dei grandi vini francesi come Chateau Margaux e Romanée-Conti. Sono proprio i vini francesi quelli che hanno la reputazione di vini più costosi al mondo. Secondo la classifica di Wine-Searcher, un noto motore di ricerca per l’acquisto di vini online, tra i primi 10 vini più costosi al mondo 9 sono francesi, e tra i primi 50 sono 45 i francesi; gli altri cinque sono due tedeschi, due portoghesi e uno statunitense. Il vino con il prezzo più alto è il Leroy Musigny Grand Cru, della regione della Borgogna, il cui formato da 0,75 litri (la bottiglia classica, per intenderci) è venduto in media a 41 mila dollari, ma che ha raggiunto anche i 183 mila dollari.

Generalmente un vino ha buone probabilità di acquisire un così alto valore se l’etichetta ha una reputazione solida e ben conosciuta, se il vino in sé ha una buona capacità di invecchiamento e conservazione, se l’annata è ritenuta ottima dagli esperti, e se è stato prodotto in piccolissime quantità. Sono tutte caratteristiche che il Leroy rispetta in pieno, collegate anche a una cospicua richiesta.

Un elemento di pregio sono anche le edizioni limitate. Per esempio a inizio luglio un’enoteca svizzera di vini di lusso ha venduto per 100 mila franchi (poco più di 103 mila euro) una bottiglia primat (un formato da 27 litri, l’equivalente di 36 bottiglie da 0,75 litri) di Colore del 2016, un vino toscano molto prestigioso prodotto a Fiesole, nelle colline intorno a Firenze, dall’artista e viticoltore Bibi Graetz. È un prezzo eccezionale per un vino italiano, tra i maggiori a cui ne sia mai stato venduto uno. Ed è il risultato non solo della qualità del vino, ma anche del formato originale in cui è stato venduto: la primat era custodita in una cassa fabbricata appositamente in acciaio e con legno della botte usata per l’invecchiamento. Sulla confezione c’è la firma di Graetz e sull’etichetta della bottiglia è raffigurato un quadro che l’artista ha realizzato proprio per questo vino.

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Queste bottiglie si possono trovare tramite vari canali, come le aste o i rivenditori specializzati, ma il mercato di rivendita del vino può essere anche più informale: funzionano molto bene i forum (in Italia uno dei più frequentati e sicuri è quello di Gambero Rosso) e il semplice passaparola tra appassionati. Sono queste le caratteristiche che rendono il mercato della rivendita del vino pregiato molto allettante, anche rispetto ai classici mercati finanziari: le trattative sono veloci e riservate, e i pagamenti sono solitamente in contanti. Non partecipano a questo giro di compravendite solo i collezionisti, ma anche i ristoratori con una cantina ben fornita, che vendendo una bottiglia possono facilmente reperire liquidità.

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