La prima rockstar della storia
I concerti del pianista ungherese Franz Liszt generavano isterie di massa come quelle che si sarebbero viste oltre un secolo dopo per i Beatles: era la “Lisztomania”
Alla cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Parigi di domenica scorsa la band rock francese dei Phoenix ha suonato la sua canzone più famosa, “Lisztomania”, pubblicata nel disco Wolfgang Amadeus Phoenix del 2009. Il testo racconta la disillusione e l’astio di un ragazzo nei confronti del romanticismo, inteso sia come l’atteggiamento di chi è innamorato, sia, per analogia, come il grande movimento artistico ottocentesco. Nella canzone è rappresentato da uno dei suoi esponenti più illustri: il grande pianista ungherese Franz Liszt, descritto talvolta come la prima rockstar della storia.
Anche se non ne parla direttamente, quando “Lisztomania” uscì contribuì a rendere noto un momento della storia della musica classica ampiamente raccontato e studiato, e che secondo molti rappresentò uno dei primi casi di isteria di massa per un artista musicale. Negli anni Quaranta dell’Ottocento, in Europa, Liszt diventò infatti una celebrità capace di radunare ed entusiasmare folle di fan adoranti, grazie alle sue esibizioni vulcaniche e cariche di pathos, e anche grazie alla sua straordinaria bellezza. Oltre un secolo prima della “Beatlemania”, insomma, ci fu la “Lisztomania”. Non si tratta peraltro di un’espressione postuma inventata dagli storici: fu coniata da un contemporaneo di Liszt nel tentativo di descrivere quello che succedeva ai suoi concerti.
Il poeta tedesco Heinrich Heine inventò il termine nel 1844, in un saggio in cui parlò degli «svenimenti che sono scoppiati in Germania e in particolare a Berlino», «un’autentica follia, una mai vista negli annali del furore». Si riferiva a quando, negli ultimi giorni del 1841, Liszt era arrivato nell’allora capitale della Prussia nel grande tour europeo che aveva iniziato un paio di anni prima, e che in meno dieci anni lo avrebbe visto esibirsi circa un migliaio di volte. Il pubblico che lo ascoltò alla Singakademie dimostrò un trasporto e un fomento mai visti per un musicista, alimentando una fama che lo avrebbe reso il pianista più discusso e richiesto del secolo.
– Leggi anche: Cosa rende speciale una sala da concerto?
Liszt infatti portava in giro uno spettacolo inedito. Fu tra i primissimi pianisti a esibirsi da solo, senza un accompagnamento di archi, di cantanti o di attori. «Ho avuto l’ardire di fare una serie di concerti completamente solo, ispirandomi a Luigi XIV e dicendo senza pensarci troppo al pubblico “Le concert, c’est moi”» scrisse citando la celebre frase attribuita al re francese che accentrò su di sé i poteri dello Stato. A Liszt è riconosciuta l’invenzione dei “recital” pianistici, genere di spettacoli a metà tra il concerto, il teatro e l’intrattenimento, e che lui interpretava da solo: un one man show, come si sarebbe detto il secolo successivo.
Liszt era un virtuoso dello strumento, e dava spettacolo suonando con maestria e intensità passaggi tecnici e velocissimi, ma l’aspetto musicale rappresentava solo una parte del suo successo. Nei suoi concerti era solito fingere svenimenti, facendosi portare dietro al palco per poi ricomparire barcollando, suggestionando il pubblico che, secondo le descrizioni dei contemporanei, raggiungeva una specie di estasi mistica assistendo alle sue trovate e alle sue spacconate. «Era l’incarnazione di ciò che l’epoca agognava: l’artista come eroe, uomo di spettacolo, genio semidivino e virtuoso sovrumano» ha scritto il musicologo Jan Swafford nel saggio Il linguaggio dello spirito.
Nella monumentale biografia che gli ha dedicato, lo storico Alan Walker racconta che i fan e soprattutto le fan di Liszt si accapigliavano per raccogliere i fazzoletti che lasciava cadere dal palco o per strada, indossavano spille con il suo ritratto, si contendevano ciocche dei suoi capelli o le corde spezzate dei suoi pianoforti. Da Berlino la Lisztomania si diffuse in Europa, anche se le sue manifestazioni più attestate furono localizzate principalmente nelle città nordiche.
Ma Liszt non era solo un fenomeno pop. È ricordato infatti come il più grande innovatore del pianoforte dell’Ottocento insieme al polacco Fryderyk Chopin, che era suo amico. Fu incredibilmente prolifico come compositore, influenzando e ispirando profondamente la musica romantica, in particolare Richard Wagner, ma anche le generazioni successive di compositori, da Claude Debussy a Edvard Grieg, di cui fu mentore. A Liszt è riconosciuta l’invenzione del poema sinfonico, una composizione che tratta esplicitamente un tema letterario o filosofico che ebbe grande fortuna nella seconda metà dell’Ottocento. Composizioni come le Rapsodie ungheresi, la Sonata per pianoforte in si minore o il notturno in la bemolle maggiore del Sogno d’amore sono composizioni arcinote del repertorio romantico.
Tuttavia l’eredità di Liszt è ancora oggi discussa. «La sua musica può essere forte, innovativa e dai colori magnifici, e altre volte apparire fiacca, ampollosa e stucchevole» ha scritto Swafford, che per descrivere i suoi modi parla di «ciarlataneria». Il critico di musica classica del New Yorker Alex Ross lo ha descritto come un compositore che «non ha mai trovato un posto sicuro nel pantheon dei compositori».
Nel saggio Liszt and Bad Taste, il musicologo Richard Taruskin scrive che gli appassionati di musica classica più intellettuali sono sempre stati imbarazzati dalla «interpretazione del mondo dell’arte e di quello volgare» di Liszt, per la sua ambivalenza di avanguardista e di mero intrattenitore.
Questo punto di vista è diffuso sebbene nei suoi ultimi anni di vita, quando risiedette a lungo a Weimar, Liszt si sia dedicato a sperimentazioni nell’atonalità, una modalità di composizione che si sarebbe affermata all’inizio del Novecento e che stravolse i tradizionali principi dell’armonia musicale. E nonostante nella sua carriera abbia svolto anche un ruolo molto importante nella trasmissione e nella divulgazione della musica orchestrale di Bach, Beethoven, Berlioz e Schumann, trascrivendola per pianoforte ed eseguendola dal vivo, seppure sempre con reinterpretazioni che potevano apparire ai limiti del sacrilego.
– Leggi anche: I direttori d’orchestra ne dirigono sempre di più
Nato nel 1811 a Raiding, paese dell’attuale Austria, Liszt fu introdotto alla musica dal padre, e dimostrò un enorme talento fin da bambino, studiando e viaggiando tra Vienna, Londra e l’Italia, e stabilendosi infine a Parigi. Studiò con Antonio Salieri e Carl Czerny, e tra le sue ispirazioni maggiori ci fu il virtuoso del violino Niccolò Paganini, di cui diventò una sorta di versione pianistica. Passò molti anni in Italia, dove ebbe due figli con la contessa e scrittrice Marie d’Agoult, una delle quali, Cosima (dal Lago di Como, dove soggiornavano) sarebbe stata poi la seconda moglie e l’erede di Wagner. Proprio con Wagner Liszt ebbe un rapporto intenso, di grande ammirazione e influenza reciproca, tormentato in parte dalla relazione che ebbe con sua figlia.
Componente fondamentale dell’impatto di Liszt sulla cultura popolare dell’epoca e del secolo successivo furono la sua grande bellezza, le sue molte conquiste – ebbe una relazione tra le altre con la famosa danzatrice spagnola Lola Montez – e i suoi costumi libertini, che furono raccontati con toni iperbolici e demenziali dal regista britannico Ken Russell in Lisztomania, il film a episodi del 1975 in cui a interpretare il compositore era il cantante degli Who Roger Daltrey.
Ma nonostante il carattere eccentrico e mitomane, Liszt è ricordato anche come persona dal carattere gentile e di grande disponibilità: per tutta la vita si prodigò per aiutare e dispensare conoscenze a compositori più o meno giovani, e si dimostrò spesso disinteressato ai soldi che guadagnava, elargendoli a chi gli stava intorno. Con un ultimo colpo di teatro, nel 1865 diventò un religioso, almeno onorifico, ricevendo i quattro ordini minori e il titolo di Abbé Liszt. Si ammalò di polmonite durante il festival wagneriano di Bayreuth del 1886, organizzato dalla figlia Cosima, e morì il 31 luglio di quell’anno, a 74 anni.