L’Italia e le sue 72 procedure d’infrazione con l’Unione Europea

Le più antiche sono del 2003, le più recenti di luglio: le più gravi ci sono costate finora circa un miliardo di euro e il contenzioso sui balneari potrebbe aggravare la situazione

La protesta dei balneari in uno stabilimento di Ostia, a Roma, il 7 agosto 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
La protesta dei balneari in uno stabilimento di Ostia, a Roma, il 7 agosto 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
Caricamento player

Nelle ultime settimane il governo italiano sta definendo un provvedimento per avviare le procedure di messa a gara delle concessioni balneari. Non se ne conoscono ancora i dettagli, ma la norma dovrebbe essere approvata a settembre e ha l’obiettivo di concludere un lunghissimo contenzioso con la Commissione Europea, che rimprovera da anni all’Italia di non avere applicato la cosiddetta direttiva Bolkestein del 2006: quello che impone tra le altre cose di aprire il mercato balneare alla concorrenza, rimettendo a gara la licenze che i gestori detengono ininterrottamente da decenni a prezzi molto bassi grazie alle proroghe approvate nel tempo da governi di diverso orientamento politico.

Introdurre delle misure in sintonia con le norme europee in quest’ambito consentirebbe all’Italia di evitare una sanzione da parte delle istituzioni europee, nonché di avviare l’iter per risolvere almeno una delle 72 procedure d’infrazione attualmente aperte dall’Unione Europea nei confronti dell’Italia. Le procedure d’infrazione sono atti con cui la Commissione Europea sollecita gli Stati membri a rispettare e ad attuare il diritto comunitario. Quelle dell’Italia sono contenziosi di varia natura, che riguardano diversi settori e coinvolgono quasi tutti i ministeri: alcune si trascinano fin dal 2003, altre sono più recenti. A seconda del grado di avanzamento della procedura d’infrazione – che ha iter lunghi e articolati, che prevedono negoziati tra la Commissione e i governi e il coinvolgimento della Corte di Giustizia – il contenzioso può portare al pagamento di sanzioni da parte dello Stato membro, se non si risolve prima.

Il numero di procedure d’infrazione varia nel tempo, a seconda che lo Stato commetta nuove violazioni del diritto europeo o che si adegui risolvendo le vecchie inadempienze. A fine luglio la Commissione ha stabilito l’apertura di sette nuove procedure contro l’Italia. Sei sono quelle più gravi, per cui l’Italia deve pagare sanzioni. Fonti del dipartimento per gli Affari europei spiegano che nel complesso, dal 2012 a oggi, l’Italia ha dovuto pagare all’Unione Europea poco più di un miliardo di euro di sanzioni.

Il responsabile di questa materia è il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto. Da tempo si sta occupando molto delle concessioni balneari, che sono uno dei temi più importanti e discussi tra quelli su cui è in corso una procedura d’infrazione contro l’Italia. Fitto sta cercando di convincere i colleghi di governo della necessità di fare un compromesso con le istituzioni europee su questo tema. Se non si dovesse trovare una soluzione, infatti, nei prossimi mesi ci sarà una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il cui esito sarebbe scontato: la Corte obbligherebbe l’Italia ad adeguarsi immediatamente alla direttiva europea Bolkestein o a pagare subito una sanzione che potrebbe essere di decine di milioni di euro.

Anche per questo il governo sembra infine essersi deciso ad agire, dopo due anni di vaghi e confusi tentativi di prorogare con vari espedienti la durata delle concessioni, scadute di fatto all’inizio del 2024. Per la destra, del resto, dover attuare la direttiva Bolkestein equivale a tradire una battaglia storica a difesa della piccola ma potente lobby dei gestori di stabilimenti balneari, e questo genera un certo imbarazzo tra gli esponenti della maggioranza di governo. Non a caso, lo scorso 9 agosto, gli operatori del settore hanno promosso uno sciopero di due ore, ritardando l’apertura mattutina degli stabilimenti, proprio per protestare contro quella che considerano un tradimento da parte di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, che fin qui hanno sempre difeso i loro interessi.

D’altro canto, per il governo è molto importante evitare l’apertura di nuove procedure d’infrazione o l’inasprimento di quelle esistenti. È una questione sia politica sia economica: da un lato aprire nuovi contenziosi con le istituzioni europee è sempre sconsigliabile, e lo è tanto più in una fase come questa in cui il governo è impegnato in delicati negoziati sia per la composizione della prossima Commissione Europea, sia per questioni economiche e finanziarie; dall’altro lato, le procedure d’infrazione si traducono presto o tardi in sanzioni, e queste sanzioni hanno un costo rilevante, anche se non esorbitante, che sottrae preziose risorse dal bilancio dello Stato (per l’Italia peraltro già piuttosto disastrato).

Non è un caso che uno dei provvedimenti a cui Fitto ha dato maggior risalto da quando è in carica sia stato proprio il cosiddetto “decreto Infrazioni”, un decreto-legge approvato definitivamente nell’agosto del 2023 tramite il quale il governo cercava di ridurre il numero di procedure d’infrazione già a carico del nostro paese e di evitare che se ne aprissero di nuove. All’epoca, l’Italia aveva 84 procedure d’infrazione, ed era tra gli Stati membri col maggior numero di contenziosi aperti insieme a Spagna e Polonia: il decreto mirava ad agevolare l’archiviazione di almeno 16 casi, col proposito di ridurre progressivamente i contenziosi a 65, in linea con la media europea. Nel maggio scorso l’obiettivo era stato raggiunto. Poi, con l’apertura delle nuove sette procedure decisa dalla Commissione Europea, il numero è salito appunto a 72.

Il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto alla Camera, Roma, il 25 luglio 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Le sanzioni sono solo l’esito conclusivo delle procedure d’infrazione, che seguono iter lunghissimi e un po’ contorti, e che variano a seconda di molti elementi. La procedura inizia in verità con una lettera che la Commissione Europea invia al singolo Stato membro quando ritiene che questo stia violando o non applicando correttamente una norma europea. Le inadempienze in questo senso possono essere di diverso tipo: l’approvazione di una legge che confligge col diritto europeo; il mancato recepimento di una direttiva; una parziale o ritardata applicazione di un regolamento comunitario. Sono considerate inadempienze sia quelle commesse dallo Stato centrale che quelle delle amministrazioni locali. In tutti questi casi, la prima cosa che fa la Commissione fa è inviare un richiamo ufficiale: la cosiddetta “lettera di messa in mora”, appunto, con la quale concede allo Stato membro due mesi di tempo per adeguarsi alle segnalazioni oppure presentare le proprie osservazioni.

Trascorso questo periodo, se la risposta del governo non è arrivata o non è giudicata soddisfacente, la Commissione emette di solito un cosiddetto parere motivato, con il quale certifica ufficialmente l’inadempienza dello Stato, e impone a quest’ultimo un termine entro il quale deve rimediare. Se anche di fronte a questo richiamo lo Stato non interviene, la Commissione presenta ricorso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, l’organo che supporta la Commissione nel vigilare sul rispetto dei trattati e delle norme comunitarie da parte di tutti gli Stati membri. È a questo punto che si conclude la fase negoziale della procedura, chiamata in gergo “precontenzioso”, e inizia il contenzioso vero e proprio.

La Corte, al termine di un’istruttoria piuttosto approfondita, emette una sentenza nella quale, se ritiene fondato il ricorso della Commissione, impone allo Stato di sanare il contenzioso. Da quel momento in poi, la Commissione può agire per chiedere alla stessa Corte di Giustizia di imporre una sanzione, chiedendo il pagamento della multa. Questo è in sostanza il momento di una procedura d’infrazione di massimo conflitto tra lo Stato membro e le istituzioni europee.

L’entità della sanzione viene stabilita sulla base di un algoritmo che tiene conto della gravità dell’infrazione, della sua durata, delle capacità economiche dello Stato e del numero di rappresentanti che esprime al Parlamento Europeo, in modo che i paesi più ricchi e importanti paghino sanzioni più alte: viene così individuata una somma giornaliera (per l’Italia, la somma minima è di 8.500 euro al giorno) che lo Stato deve pagare fino all’archiviazione della procedura. Ma oltre alla sanzione giornaliera, c’è poi da aggiungere una cifra forfettaria, pure questa calcolata sulla base di parametri che tengono conto della gravità del contenzioso e delle disponibilità finanziarie del paese: per l’Italia, la sanzione forfettaria minima è di poco più di 7 milioni di euro.

Grosso modo ogni mese, la Commissione Europea aggiorna lo stato delle procedure, si pronuncia per stabilire quali contenziosi sono stati risolti, quali sono in discussione e quali invece vanno aperti. L’Italia, come detto, ne ha al momento 72: meno di Polonia (90), Spagna (87) e Grecia (78), ma più dei paesi più importanti come Francia (54), Germania (63) e Paesi Bassi (56). Di queste 72 procedure, 53 riguardano la violazione del diritto dell’Unione Europea, cioè l’esistenza di norme italiane che sono incompatibili con quelle europee; 19 invece hanno a che fare col mancato recepimento di direttive, cioè col fatto che l’Italia non ha attuato dei provvedimenti vincolanti a livello europeo. La più antica è del 2003, e riguarda la violazione delle norme sullo smaltimento dei rifiuti; le più recenti, quelle avviate a fine luglio, hanno a che vedere con la gestione dei gas serra, di nuovo dei rifiuti (ordinari e di apparecchi elettronici), col diritto d’autore, col diritto bancario e con l’amministrazione del traffico aereo.

Giorgia Meloni accoglie Ursula von der Leyen a Borgo Egnazia, per il G7 a presidenza italiana, il 13 giugno 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)

Solo 6 sono arrivate finora allo stadio finale, quello che prevede il pagamento di sanzioni. Sono le più vecchie, che l’Italia si trascina dietro dalla metà degli anni Duemila. Due riguardano una cattiva gestione dei rifiuti e delle discariche, e una nello specifico si concentra sull’emergenza dei rifiuti in Campania e sull’incompatibilità con le norme europee di alcune misure straordinarie adottate dai governi italiani di quegli anni per affrontarla; due si concentrano sulla gestione delle acque reflue, cioè quelle di scarto, e in particolare sul fatto che l’Italia non ha predisposto adeguati sistemi fognari e di depurazione per tutti i centri urbani con più di 2mila abitanti; un’altra procedura sanziona l’Italia per non aver recuperato gli aiuti di Stato, cioè i contributi pubblici concessi perlopiù a imprese private in occasione di emergenze o calamità naturali; un’altra, infine, riguarda analoghi casi di mancato recupero di aiuti di Stato concessi in quegli anni a operatori che promuovevano l’occupazione e percorsi di formazione per il lavoro, con una concessione di risorse pubbliche che secondo la Commissione sarebbe avvenuta in violazione delle norme sulla libera concorrenza.

Il numero più significativo di procedure d’infrazione, sulle 72 totali, riguarda l’ambiente, con 22 contenziosi; 9 sono quelle che hanno a che fare coi trasporti, 7 con questioni economiche e finanziarie, 6 con il lavoro e le politiche sociali e 4 con gli affari interni, l’energia e la giustizia.