La sinistra latinoamericana non sa come comportarsi con Maduro
Dopo i brogli alle elezioni in Venezuela, il presidente cileno Boric ha avuto un approccio meno conciliante rispetto a quello di altri leader più anziani, tra cui Lula
Dopo che il presidente Nicolás Maduro ha nuovamente truccato le elezioni in Venezuela, ci sono state alcune differenze nell’approccio dei leader di sinistra degli altri paesi latinoamericani, molti dei quali lo avevano a lungo considerato un alleato regionale. Si è visto nei modi e nei tempi della loro risposta ai brogli del regime. In particolare, i leader di Messico, Brasile e Colombia hanno mantenuto un approccio più accomodante, finalizzato a mediare con Maduro, mentre il presidente cileno Gabriel Boric, il più giovane di loro, è stato il più intransigente.
La cosa è diventata evidente la settimana scorsa, durante la visita in Cile del presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. Il viaggio era già previsto ma, visto il contesto in cui avveniva, c’era molta attesa sulle dichiarazioni di Lula e Boric sulla situazione in Venezuela. Il regime venezuelano aveva infatti già fatto arrestare più di duemila persone che avevano partecipato alle proteste contro la vittoria elettorale che gli organi controllati dal governo avevano attribuito a Maduro senza pubblicare nessun dato (l’opposizione invece ha pubblicato i dati che hanno mostrato come Maduro abbia in realtà perso di oltre 20 punti percentuali).
«Non ho nessun dubbio che il regime di Maduro abbia provato a commettere una frode», ha detto il 7 agosto Boric, accusando il presidente venezuelano di violare i diritti umani con la repressione delle manifestazioni. Boric era stato anche uno dei primi leader a dirsi scettico sulla vittoria di Maduro, con un post su X (Twitter) la sera stessa del voto, il 28 luglio. Lula aveva invece aspettato due giorni prima di commentare, invitando Maduro a diffondere le ricevute del voto elettronico. Durante la conferenza stampa a Santiago, in Cile, il presidente brasiliano ha poi detto che «le differenze [nell’approccio alla crisi] ci arricchiscono»: una formula un po’ vuota che ha confermato però le divergenze di approccio tra i due governi.
Pochi giorni dopo è uscita la notizia, avvalorata dallo stesso Maduro, che si sarebbe tenuta una riunione virtuale tra lui, Lula e i presidenti di Colombia, Gustavo Petro, e Messico, Andrés Manuel López Obrador (che concluderà il suo mandato a ottobre, quando entrerà in carica la nuova presidente Claudia Sheinbaum). Inizialmente sembrava che il vertice potesse avvenire questa settimana, ma nessuno dei governi coinvolti ha prospettato tempistiche certe e martedì López Obrador ha detto che è ancora troppo presto.
Prima, secondo il presidente messicano, è necessario attendere la “convalida” dei risultati delle elezioni da parte della Corte suprema di giustizia venezuelana, che però è controllata da Maduro. Infatti Edmundo González Urrutia – il candidato dell’opposizione, che in realtà ha vinto le presidenziali con una percentuale intorno al 66 per cento – si è rifiutato di presentarsi alla Corte, spiegando che la cosa avrebbe «messo a rischio non solo la mia libertà, ma soprattutto la volontà espressa dai cittadini venezuelani il 28 luglio».
Le differenze tra l’approccio di Boric e quello degli altri presidenti di sinistra hanno diverse ragioni, secondo un’analisi di BBC Mundo. Un motivo è anagrafico: Boric, che ha 38 anni, appartiene a un’altra generazione politica rispetto a Lula (78 anni), Petro (64 anni) e López Obrador (70), che si sono formati politicamente durante la Guerra fredda. Un altro è pratico: il Brasile e la Colombia, a differenza del Cile, confinano con il Venezuela e quindi per loro è più importante mantenere buone relazioni diplomatiche.
In passato Boric aveva già preso pubblicamente posizioni simili. In un discorso piuttosto celebre del 2022 alla Columbia University di New York aveva detto: «Il rispetto dei diritti umani non conosce doppi standard. Mi dà fastidio quando sei di sinistra e condanni le violazioni dei diritti umani in Yemen o a El Salvador, però non puoi parlare del Venezuela o del Nicaragua». Storicamente i leader di sinistra del Latinoamerica sono infatti restii a criticare governi che avevano la loro stessa ideologia, e le stesse posizioni anti-statunitensi.
Al tempo stesso, secondo altre analisi, i leader latinoamericani di sinistra sono anche gli unici che hanno qualche strumento di pressione su Maduro. Lula e Petro hanno avuto un ruolo non secondario per l’accordo, concordato a Barbados lo scorso autunno, che prevedeva una riduzione delle sanzioni economiche degli Stati Uniti al Venezuela in cambio di elezioni libere e aperte all’opposizione. Ad aprile le sanzioni erano state poi reintrodotte perché Maduro non aveva rispettato i patti.
Maduro aveva infatti impedito alle due principali candidate indicate dall’opposizione, Corina Yoris e María Corina Machado, di partecipare alle elezioni. Per questa decisione sia Petro sia Lula lo avevano criticato pubblicamente: entrambi avrebbero anche contribuito a convincere Maduro a non escludere González dal voto.
Dopo le elezioni, però, questi stessi leader sono stati cauti nelle loro dichiarazioni. Il 31 luglio i governi di Messico, Colombia e Brasile si sono astenuti su una risoluzione dell’Organizzazione degli stati americani (un’organizzazione internazionale che comprende 35 stati delle Americhe) che chiedeva di tutelare i manifestanti.
Giovedì Lula e Petro hanno poi proposto di ripetere le elezioni. Questa possibilità è stata però già esclusa sia dall’opposizione, che teme che un nuovo voto non sarebbe comunque libero, sia dal regime, che sostiene non ci siano state irregolarità. «Se votiamo una seconda volta e a Maduro non piace il risultato cosa facciamo? Votiamo una terza volta e poi una quarta o una quinta? Abbiamo partecipato alle elezioni con le regole della tirannia e le abbiamo vinte, nonostante le critiche di molti», ha detto Machado.
Questo approccio improntato al dialogo può avere senso nell’immediato, ma non è detto che funzioni sul lungo termine. Maduro, infatti, non sembra avere alcuna intenzione di consentire una verifica indipendente dei risultati. Secondo il regime, tra l’altro, sarà “indipendente” anche il parere della Corte suprema, che però è un organismo controllato dal governo. «La sinistra latinoamericana deve prendere una decisione sul Venezuela: opporsi al tentativo totalitario di Maduro di restare al potere, oppure consentirglielo», ha scritto Will Freeman del think tank Council on Foreign Relations.
Secondo Freeman, infatti, le elezioni hanno segnato un punto di non ritorno: «Fino al 28 luglio, il paese era un’autocrazia con una patina di democrazia, che teneva elezioni periodiche e non libere. Ora che Maduro sa che non ha abbastanza consensi neppure per vincere un’elezione truccata, ha gettato la maschera ed è andato in modalità “piena autocrazia”». L’attuale repressione in Venezuela, ha fatto notare l’analista, dovrebbe ricordare a Lula, Petro, e López Obrador quella che i loro paesi hanno subìto in un passato recente, quando c’erano le dittature.
Il posizionamento di questi tre governi, per ora, ha avuto anche altre conseguenze.
Per esempio l’ambasciata argentina a Caracas, dove sono rifugiati sei oppositori politici di Maduro, è momentaneamente passata sotto la gestione del governo brasiliano, dopo che il suo regime aveva interrotto i rapporti diplomatici con l’Argentina e invitato il personale che lavorava al suo interno ad andarsene dal paese. C’è stato così un parziale riavvicinamento tra Lula e il presidente argentino Javier Milei, di destra radicale, che negli scorsi mesi si erano insultati a vicenda. Maduro descrive Milei come uno dei suoi principali nemici: per questo, per screditare Boric, le autorità venezuelane lo hanno tacciato di essere «a destra di Milei».
Vi ricordate di Juan Guaidó?
– Leggi anche: L’opposizione in Venezuela ha chiesto ai militari di fermare la repressione