L’inchiesta di Haaretz sull’uso dei palestinesi come “scudi umani” da parte dell’esercito israeliano
Include diverse testimonianze di soldati israeliani che hanno confermato l'uso sistematico di questa pratica, considerata un crimine di guerra
Il quotidiano israeliano Haaretz, l’unico grande giornale in Israele che racconta la guerra in corso assumendo anche posizioni molto critiche nei confronti del governo e dell’esercito israeliani, ha pubblicato un’inchiesta in cui ha raccolto diverse testimonianze di soldati e altre fonti interne all’esercito israeliano che confermano il ricorso sistematico a una pratica che è considerata un crimine di guerra: l’uso di prigionieri civili palestinesi come “scudi umani” durante le operazioni di perlustrazione nei tunnel sotto la Striscia o in altre aree considerate a rischio, per evitare il coinvolgimento di soldati israeliani nell’esplosione di mine o nelle imboscate compiute da Hamas.
Non è la prima volta che emergono testimonianze di questo genere (e in generale da quando è iniziata l’invasione le due parti si sono scambiate accuse reciproche sull’uso di “scudi umani”): a inizio luglio l’emittente qatariota Al Jazeera aveva pubblicato un montaggio di vari video in cui si vedevano civili palestinesi mandati in esplorazione tra i resti delle case distrutte, tra i corpi di altri civili uccisi dalle bombe e nei tunnel sotto la Striscia. Alcuni avevano le mani legate dietro la schiena, altri seguivano una corda che li guidava nei cunicoli sotterranei; alcuni erano in mutande, altri indossavano l’uniforme dell’esercito israeliano, altri ancora avevano una telecamera legata addosso per permettere ai soldati fuori di vedere che cosa c’era all’interno del tunnel.
Le testimonianze raccolte da Haaretz tra i soldati hanno confermato quanto si vedeva nel video di Al Jazeera. I militari hanno raccontato che vengono usati come “scudi umani” anche ragazzini e anziani scelti tra i prigionieri sotto la custodia dell’esercito israeliano. Un soldato israeliano ha detto che «c’è una forma di orgoglio» nel scegliere il prigioniero che lui ritiene possa svolgere meglio quel compito. Tra i prigionieri vengono scelti più spesso quelli che parlano anche ebraico, perché in grado di comunicare con gli ufficiali israeliani che aspettano in un punto sicuro la fine del giro di perlustrazione.
Tra i membri dell’esercito, i palestinesi usati come scudi umani vengono chiamati shawish, una parola turca che significa “sergente”. Quando vengono reclutati, viene detto loro che dopo l’operazione verranno liberati. Alcuni rimangono con le truppe israeliane in avanscoperta anche per giorni, durante i quali rimangono legati, bendati e controllati a vista. I soldati devono aiutarli a svolgere anche le attività più basilari, come andare in bagno o mangiare. Anche questa è una violazione del diritto internazionale: l’articolo 14 del trattato di Ginevra, per esempio, stabilisce che «i prigionieri di guerra hanno diritto, in ogni circostanza, al rispetto della loro personalità e del loro onore».
«Circa cinque mesi fa, ci hanno portato due palestinesi. Uno aveva vent’anni, l’altro 16. Ci hanno detto: ‘usateli, sono gazawi, usateli come scudi umani’», ha riferito un soldato di leva ad Haaretz. In quell’occasione, il soldato ha detto che alcuni di loro avevano provato a esprimere delle perplessità, ma non avevano ottenuto nulla. «Non credi che le vite dei tuoi amici siano più importanti delle loro? Non è meglio che i tuoi amici vivano e non saltino in aria a causa di una bomba, e che invece siano loro a saltare in aria per una bomba?»: è una delle risposte che i soldati hanno detto di aver ricevuto di fronte alle richieste di spiegazioni.
L’esercito israeliano ha negato l’esistenza di questa pratica, ma secondo i soldati sentiti da Haaretz è invece molto diffusa, e sono proprio i militari di più alto rango a promuoverla.
Due fonti interne all’esercito hanno detto ad Haaretz che sia il Capo di stato maggiore Herzl Halevi, sia il capo del comando meridionale Yaron Finkelman, due militari piuttosto importanti, sono a conoscenza della pratica e non l’hanno mai fermata. «In ogni riunione in cui è stato sollevato il tema ci sono stati dei comandanti che hanno avvertito delle conseguenze etiche e legali che sarebbero potute emergere se la questione fosse diventato di dominio pubblico», ha detto una fonte interna al comando meridionale dell’esercito. «Alcuni ufficiali hanno chiesto che la riunione fosse interrotta, in modo che loro potessero andarsene».