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  • Mercoledì 14 agosto 2024

I media americani hanno documenti riservati sulla campagna di Trump, ma non li stanno pubblicando

A differenza del 2016, quando pubblicarono le mail di Hillary Clinton: ma da allora molte cose sono cambiate

Donald Trump durante una conferenza stampa nella sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida (AP Photo/Alex Brandon)
Donald Trump durante una conferenza stampa nella sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida (AP Photo/Alex Brandon)
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Negli scorsi giorni tre giornali statunitensi hanno ricevuto documenti riservati del comitato elettorale di Donald Trump, il candidato Repubblicano alle elezioni presidenziali, trafugati probabilmente a seguito di un attacco informatico: ma nessuno dei tre ha deciso di pubblicarli, almeno per ora.

È un cambiamento di approccio evidente rispetto a quanto accaduto durante la campagna elettorale del 2016, quando i giornali pubblicarono con grande risalto moltissimi dettagli anche frivoli dalle migliaia di email scambiate dal comitato elettorale di Hillary Clinton, l’allora candidata del Partito Democratico, che erano state diffuse da Wikileaks e ottenute probabilmente da hacker di stato russi. Quella vicenda, sebbene conclusa senza alcuna accusa formale, ebbe un enorme impatto sulla campagna e in parte compromise la candidatura di Clinton, che poi perse proprio contro Trump.

I tre giornali che hanno ricevuto da una fonte anonima i documenti relativi all’attuale campagna di Trump sono Politico, il New York Times e il Washington Post. Il primo a darne notizia è stato Politico, la settimana scorsa. In seguito, il comitato elettorale di Trump ha dichiarato di aver subìto un attacco informatico, e ha accusato l’Iran. Il comitato non ha fornito prove precise, ma ha presentato a sostegno delle proprie accuse un report, pubblicato giovedì scorso, in cui l’azienda tecnologica Microsoft imputava all’Iran di aver portato avanti diverse attività online per influenzare il risultato della campagna elettorale. L’FBI ha aperto un’indagine sul presunto attacco informatico.

Non si conosce esattamente il contenuto dei documenti ricevuti dai giornali, ma si sa che includono un dossier di 271 pagine preparato a febbraio dai collaboratori di Trump su J.D. Vance, che poi è diventato il candidato alla vicepresidenza del partito. Questi dossier fanno parte del cosiddetto “vetting”, cioè dell’attività di valutazione e controllo che i comitati elettorali fanno quando devono decidere nomine importanti come quella del candidato vicepresidente. Alcune fonti anonime hanno confermato ai giornali l’autenticità del dossier su Vance, che tra le altre cose contiene alcuni potenziali punti deboli della sua candidatura.

Per ora Politico è il giornale che ha fornito più informazioni riguardo ai documenti. Ha detto di averli ricevuti a partire dal 22 luglio via email da una fonte anonima che si è identificata come “Robert”. Quando i giornalisti gli hanno chiesto come avesse ottenuto i documenti, questa persona ha risposto: «Vi suggerisco di non essere curiosi riguardo a dove li ho presi. Qualsiasi risposta a questa domanda mi comprometterebbe e vi vieterebbe, dal punto di vista della legge, di pubblicarli».

Ci sono diversi motivi per i quali i giornali potrebbero aver deciso di non pubblicare i documenti. In primo luogo, questi potrebbero non essere così interessanti: il dossier contiene per esempio le critiche che Vance fece in passato a Trump, che però sono già note e sono state ampiamente documentate nelle ultime settimane. In questo caso quindi il fatto che ci sia stato un presunto tentativo di hackeraggio ai danni della campagna elettorale di Trump sta risultando essere più interessante del contenuto effettivo dei documenti.

I media sono anche diventati più attenti alla pubblicazione di documenti sulle campagne elettorali ricevuti da fonti anonime nell’ambito di presunti attacchi informatici, soprattutto dopo i gravi scandali che nel 2016 contribuirono a danneggiare la candidatura di Clinton.

Semplificando molto, tra il 2015 e il 2016 il Partito Democratico americano e il comitato elettorale di Clinton furono vittime di due gravi attacchi informatici, nei quali furono rubate grandi quantità di documenti, soprattutto email. Si stabilì ben presto che gli attacchi erano stati compiuti da hacker di stato russi, ma intanto il loro contenuto fu diffuso online da Wikileaks, l’organizzazione fondata da Julian Assange. Quelle email non contenevano in realtà niente di molto scandaloso, ma diventarono comunque un caso nazionale anche a causa delle moltissime attenzioni mediatiche che ricevettero.

Nel 2016 i giornali si sentirono maggiormente in dovere di trattare la faccenda delle email, dato che il loro contenuto era già disponibile al pubblico a causa delle rivelazioni di Wikileaks. Ora invece «tutti i media hanno fatto un respiro profondo e hanno aspettato, pensando a chi potrebbe esserci dietro la fuga di documenti, quali potrebbero essere le motivazioni degli hacker, e se questo sia davvero una notizia», ha detto Matt Murray, il direttore del Washington Post. Inoltre, visti gli ormai noti e recenti tentativi di interferenze nella politica statunitense da parte di stati esteri, oggi «è più rischioso per le organizzazioni editoriali» decidere di pubblicare documenti riservati ottenuti da fonti anonime, «perché non vogliamo aiutare un altro paese a mettere in pericolo la nostra democrazia», ha detto Kelly McBride, public editor della radio pubblica NPR.

Anche l’impostazione del comitato elettorale di Trump è radicalmente cambiata: mentre nel 2016 Trump fu tra i primi a beneficiare dello scandalo delle email, ora la sua campagna elettorale ha detto ai giornali che pubblicare i documenti ricevuti dalla fonte anonima significa «fare un favore ai nemici dell’America». Secondo Ben Smith, direttore del sito di notizie Semafor, «sarebbe ironico se Trump, tra tutti, beneficiasse di una lezione che i media hanno imparato grazie a una situazione che lui ha sfruttato».