Il Gamergate fu l’inizio del peggio di internet

Dieci anni fa una campagna d'odio organizzata contro sviluppatrici e giornaliste di videogiochi diventò un modello per molte delle dinamiche più tossiche e violente della vita online

di Alessandro Zampini

(Jens Schlueter/Getty Images)
(Jens Schlueter/Getty Images)
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Dieci anni fa una violenta campagna d’odio contro alcune sviluppatrici, attiviste e giornaliste femministe che lavoravano nel mondo dei videogiochi «cambiò il modo in cui si litiga online», come riassunse il sottotitolo di un famoso editoriale sul New York Times. Quella campagna d’odio, a cui ci si riferisce ancora oggi come “Gamergate”, divenne poi il modello di un modo di comportarsi online e sui social network, soprattutto negli ambienti legati all’estrema destra, basato su menzogne e teorie del complotto, minacce e attacchi a obiettivi individuati all’interno di angoli remoti e a volte spaventosi di internet.

Per parlare di certe dinamiche di internet si dice talvolta tra esperti di cultura online che “tutto è Gamergate”, perché da allora quel modo di comportarsi online è uscito dal mondo dei videogiochi ed è arrivato ovunque. Charlie Warzel scrisse già cinque anni fa, sempre sul New York Times, che sono legati al Gamergate anche il modo in cui oggi le «potenze straniere usano profili automatici per manipolare l’opinione pubblica», le tecniche con cui Donald Trump usa Twitter (e ora Truth, il social network di sua proprietà) o le dinamiche del cosiddetto Pizzagate, una famosa teoria del complotto che scaturì in una sparatoria negli Stati Uniti.

Il Gamergate iniziò su un blog chiamato The Zoe Post, nel quale Eron Gjoni, uno sviluppatore di software allora ventiquattrenne, sfogò la sua frustrazione per la fine della relazione con Zoë Quinn, una programmatrice di videogiochi. Le 9.425 parole che componevano il primo post di quel blog non erano, però, un modo per provare a elaborare la fine della relazione, ma un’invettiva personale nei confronti di Quinn: nel post venivano infatti raccontati dettagli molto personali, pubblicati estratti di mail, messaggi, foto private e anche indicazioni sugli spostamenti dell’ex fidanzata.

Come ha detto lo stesso Gjoni in un’intervista al Boston Magazine, tutto all’interno di quel post era stato accuratamente pensato per causare quanto più danno possibile alla reputazione di Quinn all’interno del suo mondo, quello dei videogiochi. In un breve passaggio del post veniva menzionato anche il fatto che Quinn avesse tradito Gjoni con diverse altre persone, e che uno di questi fosse Nathan Grayson, al tempo un giornalista del sito Kotaku, con cui a suo dire avrebbe avuto una relazione al solo scopo di ottenere una recensione favorevole di Depression Quest, il videogioco che aveva pubblicato poche settimane prima.

Questo singolo passaggio diventò l’elemento centrale di una teoria del complotto chiamata “Quinnspiracy” (sarebbe diventato Gamergate solo qualche settimana dopo, grazie a un tweet dell’attore Adam Baldwin) secondo la quale la mancanza di etica dei critici che si occupano di videogiochi stava mettendo a repentaglio l’essenza (o la supposta “purezza”) dei videogiochi stessi.

Un piccolo gruppo di utenti (all’inizio soprattutto giovani maschi bianchi molto appassionati di videogiochi) vide in quel passaggio una conferma a quello che credeva da tempo, e cioè che il mondo dei videogiochi fosse corrotto o comunque governato da dinamiche poco trasparenti e che la causa principale di questo fosse il lavoro di donne come la stessa Quinn o Anita Sarkeesian, che volevano renderlo più aperto e inclusivo. Proprio in quei giorni Sarkeesian, critica e attivista femminista, aveva pubblicato un episodio della sua serie Tropes vs Women in Video Games intitolato “Women as Background Decoration – Part 2”, che la rese, insieme a Quinn e alla sviluppatrice Brianna Wu, uno dei principali obiettivi del movimento.

In quegli anni il mondo dei videogiochi e la sua utenza stavano vivendo una fase di grande cambiamento. Grazie alla diffusione sempre crescente delle console e soprattutto degli smartphone, che stavano trasformando in videogiocatore chiunque fosse in grado di scaricare Angry Birds, Candy Crush o FarmVille, gli editori si ritrovarono a dover creare prodotti per un pubblico totalmente nuovo, che cercava nei videogiochi qualcosa di diverso o che semplicemente aveva iniziato a giocare proprio in quegli anni e con quei giochi. Una parte sempre più significativa del bacino di clienti, insomma, aveva idee diverse su cosa dovesse essere o offrire un videogioco rispetto a chi invece li frequentava già da decenni.

«L’industria videoludica», ha scritto Matteo Lupetti sulla rivista Lucy, «nasce in uno specifico contesto culturale, quello dei campus statunitensi negli anni della guerra fredda, dove allo sviluppo dell’informatica a scopo militare si mescolano immaginario fantasy e fantascientifico in ambienti per lo più frequentati da uomini». Come riassume Lupetti, nonostante i videogiochi siano stati all’inizio proposti come un tipo di intrattenimento adatto a tutta la famiglia, negli anni Novanta si concentrarono su quella che le ricerche di mercato dell’epoca individuarono come la loro audience predominante: «il gamer maschio, adolescente, eterosessuale, cisgenere e, per lo più, bianco».

Nel 2014 però il mercato era già estremamente cambiato: secondo un sondaggio fatto da Ipsos MediaCT per conto di ESA (Entertainment Software Association, l’associazione di categoria degli editori statunitensi) la percentuale delle videogiocatrici nel 2014 era del 48%, in crescita costante sin dal 2007 (quando era del 38%).

L’allargamento dell’utenza femminile e la contemporanea diffusione dei software di sviluppo, diventati sempre più accessibili e semplici da usare, cominciò a favorire la creazione di videogiochi più vari e coraggiosi, che proponevano storie e personaggi più diversi, complessi e moderni, allontanandosi sempre di più da alcuni stereotipi tradizionali come la principessa da soccorrere, il salvatore maschio e bianco o l’eroina molto procace.

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In questo specifico contesto, videogiochi come Depression Quest di Zoë Quinn (2014), o Gone Home di The Fullbright Company (2013), che trattavano temi molto delicati come la depressione o il rifiuto di una famiglia che scopre l’omosessualità di una figlia, furono visti da una rumorosa minoranza reazionaria e misogina come un segnale che i videogiochi stavano perdendo la loro identità, e che quindi fosse arrivato il momento di organizzarsi in un movimento che ripristinasse la tradizione, fatta di eroi bidimensionali che prima sparano e poi parlano.

«Oggi è più accettato che una donna giochi ai videogiochi», dice Lorena Rao, che si occupa di videogiochi su Fanpage e Wired Italia, «ma solo in alcuni generi, come quelli che vengono definiti “cozy” [quelli cioè nei quali non si deve uccidere, competere o sopravvivere, ma solo passare del tempo a costruire oggetti, ambienti o anche relazioni] o che abbiano invece una forte componente narrativa. Non a caso sono questi giochi story-driven ad aver abbracciato una maggiore varietà rappresentativa. Ci sono poi altri generi, come gli sparatutto, che richiedono riflessi e sopraffazione del nemico, dove la donna è ancora percepita come outsider».

Sempre per Rao, «se una donna gioca a Final Fantasy XIV, Baldur’s Gate 3 o Animal Crossing [che sono giochi definiti “story-driven”, cioè nei quali la storia è l’elemento principale e che si fanno perlopiù da soli] non crea alcuno scalpore. Se però la donna si cimenta in giochi reputati maschili per antonomasia – sparatutto come Call of Duty o competitivi moba [cioè multiplayer online Battle arena, un genere che si gioca solitamente online e in squadre] come League of Legends – allora lì scatta quella misoginia che non accetta l’esterna».

Secondo Rao il problema è quindi perlopiù culturale e trova la sua origine con la nascita della stessa industria dei videogiochi: «le prime aziende di videogiochi», dice citando il saggio No-Collar del sociologo Andrew Ross, «sono nate all’interno di una mentalità del lavoro anti-autoritario, basata sulla non conformità, cooperazione e autogestione. Una visione che si è formata nella sottocultura hacker e nei campus universitari di materie STEM, ossia spazi quasi esclusivamente maschili. I primi studi di sviluppo nascono quindi come delle confraternite di stampo collegiale, improntate sulla frat-boy culture, dove poter fare bisboccia e lavorare alle proprie passioni, ossia tech e videogiochi».

Questo tipo di mentalità sopravvive ancora oggi in diversi studi di sviluppo ed editori (il grosso caso legato alle molestie all’interno di Activision-Blizzard ne è forse l’esempio più lampante) ed è la principale causa del fatto che ancora oggi «professioniste del settore siano soggette a molestie, fisiche e verbali, da parte di colleghi o superiori uomini», dice Rao.

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Tutti questi elementi storici, culturali e contingenti crearono le condizioni perché un piccolo ma organizzato gruppo di persone gettasse le basi per quello che sarebbe diventato il Gamergate. Le prime vittime di questi attacchi organizzati e mirati furono individuate non tanto per la loro prominenza nel settore, quanto perché apertamente femministe o sviluppatrici di giochi che i sostenitori del Gamergate non ritenevano abbastanza fedeli alla loro concezione del medium.

Nel giro di poche settimane Quinn, Sarkeesian e Wu ricevettero numerose minacce di morte, i loro spostamenti, contatti e indirizzi vennero pubblicati online e subirono diversi attacchi informatici. Quinn ha raccontato di non essere potuta tornare nella sua casa di Boston perché qualcuno trovò e diffuse il suo indirizzo online (lo aveva aggiunto a un registro pubblico che serviva per offrire ospitalità a chi poteva averne bisogno in seguito all’attentato alla maratona di Boston).

Sarkeesian cancellò un suo intervento alla Utah State University dopo che qualcuno scrisse che nel caso si fosse presentata ci sarebbe stata una strage, citando il femminicidio di massa della École Polytechnique a Montreal, quando nel 1989 Marc Lépine sparò a 28 donne e ne uccise 14. Brianna Wu, sviluppatrice e fondatrice dello studio Giant Spacekat, fu presa di mira dopo essersi mostrata estremamente critica nei confronti del Gamergate, ricevendo minacce di stupro e morte che la costrinsero a scappare da casa e a rinunciare a mostrare il proprio gioco all’E3 (quella che al tempo era la più grande fiera di videogiochi del mondo) del 2015.

Brianna Wu fotografata alla sua postazione di lavoro nel 2016. (AP Photo/Elise Amendola)

Gli episodi di sessismo e gli attacchi nei confronti delle donne nel mondo dei videogiochi non erano iniziati però con il Gamergate: nel 2007 la sviluppatrice Kathy Sierra, che si era espressa a favore della moderazione dei commenti su internet, era stata costretta a rinunciare del tutto alla sua presenza online dopo aver ricevuto minacce di morte. La stessa Anita Sarkeesian nel 2012 aveva già ricevuto minacce per aver avviato una campagna di successo su una piattaforma di crowdfunding per lanciare il progetto Tropes vs. Women in Video Games, una serie di video dedicati all’analisi degli stereotipi e della rappresentazione femminile all’interno dei videogiochi.

Diversamente dal passato, però, il Gamergate «strisciò fuori da certe paludi del web e divenne mainstream», ha scritto il New York Times: dalle imageboard come 4chan prima e 8chan dopo, rudimentali forum anonimi nei quali le persone coordinavano gli attacchi e producevano una grande quantità di notizie false e meme offensivi, il movimento arrivò a essere menzionato e analizzato anche dalla stampa generalista di tutto il mondo, spinto soprattutto dagli ambienti della estrema destra americana (alt right) e dal fatto che i social network stessero diventando sempre più popolari, ma poco o nulla moderati.

Steve Bannon, allora direttore di Breitbart News, un sito di estrema destra famoso per i toni allarmistici e i contenuti falsi, intuì da subito che non sarebbe stato così difficile cooptare i “gamergaters”. «Potevi proprio attivare un esercito», ha detto in un’intervista a Joshua Green contenuta nel libro Devil’s Bargain: Steve Bannon, Donald Trump, and the Storming of the Presidency, «arrivavano per il Gamergate o chissà cos’altro, e poi li si poteva far restare con la politica e Trump». A occuparsi del Gamergate per conto di Breitbart News, e a normalizzare le posizioni dei suoi animatori per un certo pubblico, ci fu soprattutto Milo Yiannopoulos, un personaggio a metà tra l’attivista e il giornalista con idee notoriamente sessiste e di estrema destra, che avrebbe fatto parlare di sé fino alla sua caduta in disgrazia nel 2017 a causa di una dichiarazione sulla pedofilia all’interno di un podcast.

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Il modo in cui il Gamergate ha cambiato certe dinamiche su internet è stato profondo, ed è stato il punto di partenza di tantissime campagne di odio e diffamazione che, dietro un’apparenza di esagerazioni consapevoli e ironia, nascondevano «un reale desiderio di violenza e cambiamento radicale», come ha scritto la la giornalista del sito Vox Aja Romano in un articolo del 2021. Contenuti e dinamiche tipici del Gamergate, come tweet pieni di hashtag, meme offensivi e razzisti, boicottaggi pretestuosi e attacchi coordinati, notizie false diffuse all’interno di cerchie ristrette che arrivano fino ai media tradizionali, composero una sorta di guida su come organizzare campagne d’odio online, che da allora viene riproposta in maniera pressoché identica soprattutto dai movimenti più reazionari e misogini.

Il Gamergate raggiunse il suo momento di massima violenza nel 2015, ma in realtà da allora non se n’è mai realmente andato. «Le sue posizioni, i suoi concetti e il lessico dell’estrema destra statunitense di cui si era imbevuto», scrive Matteo Lupetti, «fanno ora intimamente parte della cultura di internet, sono in ogni polemica per un film con un’attrice nera, in ogni campagna di trolling organizzata per cacciare un artista sgradito».

Lo scorso marzo Ash Parrish ha ricostruito sul sito The Verge la storia delle molestie e degli attacchi di cui è stata oggetto Sweet Baby Inc., una società di consulenza che aiuta gli sviluppatori di videogiochi nella scrittura delle storie e nella costruzione dei personaggi. Questa nuova incarnazione del Gamergate è partita da un utente di Steam, il più grande negozio online di videogiochi, che ha creato una lista chiamata “Sweet Baby Inc Detected”, nella quale ha raccolto i giochi nei quali, secondo lui, Sweet Baby Inc. aveva spinto gli sviluppatori a inserire temi legate alla diversità, l’uguaglianza e l’inclusione.

Se il Gamergate usò l’etica nel giornalismo come pretesto per poter attaccare le sviluppatrici, questa sua nuova versione ha individuato nella cosiddetta “cultura woke” la causa principale dei cambiamenti avvenuti all’interno del mondo dei videogiochi, che cercano di allontanarsi sempre di più dagli stereotipi del passato a cui però sono tanto affezionati i “gamergaters”. Come 10 anni fa, anche in questo caso tutto è partito da un presupposto di base falso: le società come Sweet Baby Inc. non hanno potere decisionale all’interno degli studi di sviluppo, ma si limitano a consigliarli seguendo le linee guida che gli stessi sviluppatori gli danno.

Quello che è cambiato rispetto a 10 anni fa è però la risposta dell’industria a questo tipo di comportamento. Durante il Gamergate diversi importanti editori preferirono allontanare alcune delle loro sviluppatrici o impiegate pur di non correre il rischio di diventare a loro volta bersaglio del movimento. Fu il caso di Alison Rapp, una dipendente di Nintendo licenziata nel 2016 dopo essere stata a lungo molestata online, o dell’editore ArenaNet, che nel 2018 licenziò due suoi dipendenti (definendoli oltretutto “ostili”) che avevano avuto una discussione su Twitter con uno streamer temendo che questo potesse creare troppo risentimento nella community del gioco. Sweet Baby Inc. invece, nonostante si sia trovata al centro dello stesso tipo di campagna d’odio, non ha perso nessuno dei suoi contratti e anzi diversi studi gli hanno da subito dimostrato solidarietà.

Nonostante ci sia ancora un percepibile problema di sottorappresentazione femminile tra i protagonisti di videogiochi, dal Gamergate la situazione è in grande e costante miglioramento. Nel 2012 una ricerca di EEDAR (un’azienda specializzata in ricerche di mercato e analisi dei dati per l’industria dei videogiochi) rilevò che su oltre 700 videogiochi usati come campione solo il 3,6 per cento aveva come personaggio principale un avatar esclusivamente femminile, mentre secondo i dati raccolti da Statista dal 2015 al 2020 questa percentuale è salita al 18 per cento. «I femminismi lavorano sotto traccia costantemente», dice Giulia Blasi, scrittrice e attivista femminista, «e con costanza erodono gli assetti culturali. La storia del Gamergate ci mostra sia il maschilismo che pervade il settore del gaming, sia la reazione che i femminismi sono stati in grado di generare».

Anche la stampa, che nel 2014 faticò a capire la portata del cambiamento che stava avvenendo con il Gamergate e lo trattò spesso con superficialità e sufficienza, è oggi generalmente più preparata e attenta nel far notare quando in un gioco c’è assenza di rappresentazione. Per Lorena Rao però la situazione è ancora confusa, perché da una parte «sono in aumento le firme e i contenuti editoriali sensibili alle questioni politiche e sociali racchiuse nei videogiochi», ma dall’altra c’è una certa passività (e forse paura per le possibili conseguenze) nel marginalizzare le frange più tossiche ed estreme dei propri lettori e delle community legate ai videogiochi.

Dice Rao: «assistiamo ancora a articoli che osannano i team di sviluppo asiatici come baluardo contro la “dittatura politically correct” o alle controversie esplose dopo l’annuncio dei protagonisti di Assassin’s Creed Shadows, Naoe e Yusuke, una shinobi donna e un samurai nero. Una cosa è il dovere di cronaca, una cosa è sfruttare una polemica nata nei social per costruirci sopra articoli che triggerano la community, sia reazionaria che progressista».

«I femminismi non inventano meccanismi, li rivelano», conclude Giulia Blasi, «danno una lettura della realtà che cambia la prospettiva, non la realtà in sé. Ognuno di noi può leggere qualsiasi fenomeno sociale dal punto di vista del patriarcato (quindi: le donne non sono interessate ai videogiochi, le donne che entrano in un ambiente come quello dei videogiochi devono provare di esserne all’altezza e accettarne le regole, e se ti succede qualcosa di brutto o spiacevole in quell’ambiente è al limite colpa di pochi e non responsabilità di tutti) oppure da quello di vista femminista, che ribalta tutto, inclusa l’idea che le donne esistano solo in relazione ai desideri, alle necessità e all’appagamento degli uomini. E con “donne” intendo sia quelle in carne e ossa, sia i personaggi di finzione».

Negli ultimi anni infatti, sia come reazione allo stesso Gamergate sia come presa di coscienza di un nuovo e più vario pubblico, le donne hanno iniziato a essere le protagoniste dei videogiochi e non le damigelle da salvare, nelle grandi produzioni dei più importanti editori, come nel mondo dello sviluppo indipendente. Anche se a livello numerico la maggior parte dei giocatori, dei protagonisti dei videogiochi e degli sviluppatori corrisponde tendenzialmente a uomini bianchi ed eterosessuali, l’attenzione alla rappresentazione femminile e delle minoranze è molto cambiata e gli editori «si stanno dando un gran daffare per rendere i loro giochi sempre più rappresentativi», scrive Aja Romano.

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In The Last of Us Parte II, uno dei più importanti giochi degli ultimi anni, sviluppato da Naughty Dog e pubblicato da Sony, la protagonista Ellie è una donna lesbica. Nella serie Horizon, pubblicata sempre da Sony ma sviluppata da Guerrilla Games, la protagonista si chiama Aloy ed è una donna non ipersessualizzata, la cui evoluzione emotiva è coerente con il suo passato e le relazioni che stabilisce all’interno del gioco con gli altri personaggi.

Persino Nintendo, la cui serie più famosa, Mario Bros., si è sempre basata sul tropo della damigella in pericolo, negli ultimi anni sta cercando di rendere le proprie serie più adatte alle nuove sensibilità, e ha annunciato che il prossimo gioco della serie Zelda (The Legend of Zelda: Echoes of Wisdom) avrà come protagonista per la prima volta in 38 anni la principessa Zelda e non Link, lo storico personaggio principale. «Costruire giochi che propongano personaggi in cui le donne possono riconoscersi, che non siano solo una rappresentazione dello sguardo maschile», dice sempre Blasi, «è vantaggioso anche dal punto di vista del mercato».