Finite le Olimpiadi, per molti atleti arriva la tristezza

E in certi casi la depressione, anche e soprattutto quando si vince una medaglia: Michael Phelps e Simone Biles sono tra quelli che ne hanno parlato

(AP Photo/Natacha Pisarenko)
(AP Photo/Natacha Pisarenko)
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Lo scorso maggio Michael Phelps, il più forte nuotatore di sempre e l’atleta che ha vinto più medaglie olimpiche al mondo, è tornato a parlare della sua depressione post Olimpiadi in un’intervista con la rete televisiva statunitense NBC. Come già in passato, ha raccontato di averne sofferto nel 2004, quando vinse sei medaglie d’oro e due di bronzo ad Atene, e poi di nuovo nel 2008, dopo gli otto ori a Pechino, e nel 2012, dopo altre sei medaglie a Londra. All’origine della sua depressione, ha detto, c’era il fatto di non riuscire a trovare una risposta alla domanda «e ora?», oltre al pensiero fisso «di dover aspettare altri quattro anni» per rivivere l’esperienza appena vissuta.

Nel documentario su di lei uscito alcune settimane fa, anche Simone Biles, la ginnasta statunitense più vincente di sempre, ha raccontato di aver provato lo stesso smarrimento dopo le Olimpiadi di Tokyo. Dopo aver vinto due medaglie di bronzo nel 2021 la judoka tedesca Anna-Maria Wagner aveva raccontato di aver perso ogni desiderio «di fare judo o sport, volevo solo stare a casa, non uscivo e piangevo molto per nessun motivo». E dopo una medaglia di bronzo a Pechino la nuotatrice britannica Cassie Patten aveva detto di essersi «sentita persa: andavo a nuotare e mi sedevo a bordo piscina a piangere».

Non esistono studi solidi che permettano di dire quanto frequente e diffusa sia la cosiddetta “depressione post olimpica” negli atleti: al momento, quello che se ne sa viene soprattutto da osservazioni aneddotiche e questionari fatti su campioni ridotti di atleti in determinati paesi. Inoltre molti esperti fanno notare che, sebbene in alcuni casi si possa parlare correttamente di depressione, perché i sintomi corrispondono a un quadro patologico, altre esperienze di calo dell’umore raccontate dagli atleti non sono in realtà tali da poter essere definite in questo modo e hanno magari una durata ridotta.

L’impatto psicologico della fine delle Olimpiadi sugli atleti è insomma una cosa che è documentata da varie testimonianze, ma racchiude al suo interno sintomi ed esperienze molto diverse. Nel 2019 il Comitato olimpico internazionale (CIO) aveva però ufficialmente riconosciuto il problema all’interno di un progetto sulla salute mentale nello sport, parlando della “crisi post olimpica” come di qualcosa che affligge, oltre ai casi più noti, «molti altri atleti» e che può avere conseguenze anche gravi, fino a pensieri suicidi.

La Commissione olimpica e paralimpica degli Stati Uniti (USOPC) è una di quelle che negli ultimi anni ha investito di più in servizi per la salute mentale dei suoi atleti. Karen Cogan, psicologa della USOPC, ha detto che dal 2010 ha sentito un numero crescente di atleti lamentarsi di un periodo di «frustrazione» dopo i Giochi. Il motivo, spiega, è che «tutta l’eccitazione e l’intensità che girano intorno al fatto di essere alle Olimpiadi scompaiono molto rapidamente» quando queste finiscono. Atlete e atleti passano dall’avere un rigido programma di allenamenti quotidiani, oltre che motivazione, obiettivi e pressioni molto forti, a un periodo in cui non hanno più nulla di tutto ciò e si sentono persi.

Karen Howells, ricercatrice e psicologa sportiva che da anni studia quella che in inglese si definisce anche post-Olympic blues, ha detto al New York Times che «non ha ancora mai incontrato un atleta olimpico che non abbia provato la tristezza post Olimpiadi». Nel 2018 Howells aveva fatto uno studio intervistando quattro atleti olimpici britannici e aveva concluso che «le emozioni negative sono una risposta normale al ritorno a casa, ma gli atleti non si aspettano di provarle perché sono incapaci di concentrarsi su quello che verrà dopo i Giochi prima che finiscano». Le cose non cambiano di molto tra atleti vincenti e perdenti: anzi, la ciclista su pista britannica Victoria Pendleton aveva raccontato dopo le Olimpiadi del 2012 (dopo aver vinto un oro sia lì che nel 2008) che «la gente pensa che sia difficile quando perdi, ma è quasi più facile arrivare seconde perché hai qualcosa a cui aspirare quando tutto finisce. Se vinci, ti senti improvvisamente persa».

L’impatto psicologico della fine dei Giochi è poi aggravato nel caso di atleti che si trovano a dover decidere se continuare a competere o ritirarsi, decisione che viene spesso rimandata proprio a dopo le Olimpiadi. La fine delle Olimpiadi può avere effetti di grande sofferenza anche perché per molti atleti di alto livello l’attività sportiva coincide con la propria identità. In alcuni sport in cui l’età media è molto bassa gli atleti dedicano allo sport gran parte della propria infanzia e adolescenza, e magari hanno una sola occasione nella vita per partecipare alle Olimpiadi. Quando quell’occasione passa, sia che abbiano vinto sia che abbiano perso, la loro vita cambia drasticamente e così la propria percezione di sé. Parlando della sua depressione, Michael Phelps disse di aver pensato a lungo a se stesso «solo come a un nuotatore, e nient’altro».

C’è poi un altro aspetto che spesso viene trascurato: quello dell’enorme attenzione che gli atleti olimpici ricevono improvvisamente dai media e sui social network, dopo essere rimasti a lungo personaggi sconosciuti e quindi non essendo in nessun modo preparati. Quest’anno l’atleta di tiro sudcoreana Kim Ye-ji, i cui video sono diventati virali sui social ancora prima che vincesse la medaglia d’argento a Parigi, è svenuta durante una conferenza stampa e ha spiegato di essere stata male per via dell’eccessivo stress. Alcuni giorni fa la ginnasta statunitense Jordan Chiles ha scritto su Instagram che avrebbe smesso di usare i social per un po’ «per la mia salute mentale», dopo la notizia che la medaglia di bronzo nel corpo libero le sarebbe stata tolta per un errore nella presentazione del reclamo che aveva fatto per ottenerla.

Psicologi e psicoterapeuti sono entrati a far parte delle équipe mediche degli atleti di alto livello in molti paesi già da tempo, ma negli ultimi anni l’attenzione alla salute mentale nel mondo dello sport è cresciuta particolarmente, così come è avvenuto anche in altri settori. Ha cominciato a succedere più di frequente che grandi atleti di fama mondiale raccontassero dell’impatto negativo delle pressioni e delle aspettative prima delle gare, portando federazioni e organizzazioni sportive a occuparsene più seriamente. Per le Olimpiadi di Parigi il CIO ha detto di aver messo a disposizione oltre 150 esperti di salute mentale di diverse lingue e nazionalità.

In questo quadro ultimamente sono stati avviati anche programmi specificamente pensati per prevenire la tristezza post olimpica. Nel Regno Unito per esempio il British Institute of Sport aveva studiato un programma di “decompressione” già prima delle Olimpiadi di Tokyo del 2021 proprio per dare agli atleti degli appuntamenti che li aiutassero a gestire il ritorno alla normalità. Il programma si basa su ricerche in ambito militare (sul ritorno dei membri dell’esercito alla vita da civili) e su studi condotti su atleti olimpici negli anni, e si compone di diverse fasi: una valutazione “a caldo” subito dopo la gara, un periodo di pausa in cui gli atleti vengono incoraggiati a tornare alla propria vita e a vivere le proprie emozioni dopo la fine dei Giochi, una valutazione psicologica delle esperienze vissute e infine una valutazione della performance sportiva.

Secondo la maggior parte degli esperti, per evitare il calo di umore post Olimpiadi è fondamentale che gli atleti arrivino preparati a tutto quello che gli succederà: è quindi un lavoro che bisogna cominciare a fare con anticipo, cosa che però è più difficile di quello che può sembrare. Nell’intenso programma di preparazione a cui vengono sottoposti gli atleti in vista delle Olimpiadi, infatti, tutta la concentrazione è sul risultato, e parlare di ritiri, pensionamenti ed elaborazione della vittoria o della sconfitta risulta spesso strano e inappropriato. Andrew Friesen, un consulente sentito da Scientific American, ha spiegato che è come «chiedere a qualcuno che si sta sposando se ha un buon avvocato divorzista».