La Corea del Nord era fortissima nel calcio femminile, e vuole ripetersi
È tornata da poco nelle competizioni internazionali, dopo un grosso scandalo di doping, ma continua a essere uno strumento di propaganda del regime
Per molti anni la nazionale femminile di calcio della Corea del Nord è stata una delle più forti al mondo e il regime nordcoreano l’ha sfruttata come strumento di propaganda, anche perché quella maschile era più scarsa. La squadra è tornata solo recentemente nelle competizioni internazionali: prima era stata a lungo squalificata per doping e poi è rimasta tagliata fuori dalle severissime misure anti-Covid adottate in Corea del Nord, allentate in pratica solo quest’anno. Per questa ragione, oggi ci si chiede se riuscirà a tornare ai livelli d’eccellenza del passato.
A febbraio la Corea del Nord non era riuscita a qualificarsi alle Olimpiadi di Parigi, perdendo per 2-1 in due partite contro il Giappone, che soprattutto per ragioni storiche (è l’ex potenza coloniale che a inizio Novecento occupò la penisola coreana) è la squadra più detestata dai tifosi nordcoreani. Da quando nel 2023 la nazionale femminile è tornata a giocare a livello internazionale, ha comunque vinto la maggioranza delle partite che ha disputato – con la rilevante eccezione della finale dei Giochi d’Asia, persa l’anno scorso, sempre contro il Giappone – ed è tornata decima nel ranking globale.
Come ha raccontato BBC Sport, storicamente questa eccellenza si deve a una molto efficace pianificazione sportiva, ma è anche il risultato di una precisa volontà politica. Oltre a venire considerata una delle nazionali femminili più forti, negli ultimi vent’anni la Corea del Nord ha vinto diversi titoli: tre Coppe d’Asia e tre volte i Giochi d’Asia, a cui altre tre volte è arrivata seconda. I trofei più prestigiosi sono però arrivati a livello giovanile: la nazionale under-20 ha vinto il Mondiale nel 2006 e nel 2016.
Secondo la regista austriaca Brigitte Weich, che ha realizzato due documentari sulla nazionale nordcoreana, fu Kim Jong Il (il padre dell’attuale dittatore Kim Jong Un) a intuire a metà degli anni ‘80 il potenziale del calcio femminile in termini di soft power, la capacità di ottenere centralità e rilevanza culturale senza l’uso della forza. In vista della prima Coppa del Mondo femminile, che si sarebbe disputata nel 1991, il regime decise di investire nel calcio femminile.
Furono introdotti percorsi d’allenamento per le bambine e vennero mandati scout a girare il paese per scoprire le giocatrici con più talento. Le bambine più promettenti vennero mandate in un centro sportivo governativo e inquadrate nelle squadre di calcio dell’esercito, le uniche che consentissero loro di dedicarsi allo sport in modo professionistico. Questo sistema funziona ancora oggi.
Essere ammesse in una di queste squadre può tuttora cambiare la vita alla calciatrice e alla sua famiglia. Il principale incentivo non è direttamente economico, ma consiste in un trasferimento nella capitale Pyongyang, in complessi abitativi dove le condizioni di vita sono leggermente migliori di quelle disastrose del resto del paese, dove mancano il cibo, il riscaldamento e l’assistenza sanitaria.
Il trailer del secondo documentario di Brigitte Weich sulla nazionale femminile di calcio nordcoreana
C’è poi il prestigio sociale. Le calciatrici della nazionale «sono delle star. I fan le riconoscono e chiedono loro autografi», ha detto Weich a BBC Sport. È stata persino realizzata una serie tv sulla nazionale femminile nordcoreana di calcio, che in generale è circondata da un certo entusiasmo: un po’ perché è effettivamente più forte delle nazionali nordcoreane di altri sport; un po’ perché il regime, per usare un eufemismo, incentiva il pubblico ad andare a vedere le sue partite.
La società della Corea del Nord resta comunque profondamente patriarcale. Anche nello sport: nel 2023 furono atlete donne a vincere la maggior parte delle 39 medaglie ottenute dalla Corea del Nord ai Giochi d’Asia (una competizione sportiva simile alle Olimpiadi a cui partecipano 45 paesi asiatici), ma per la cerimonia di chiusura il regime scelse come portabandiera l’unico atleta uomo che aveva vinto un oro (contro i 10 vinti da atlete).
Il regime non si è fatto problemi però a sfruttare la nazionale femminile di calcio a fini propagandistici. Per esempio il suo soprannome è “Chollima”, cioè la figura mitologica di un cavallo in grado di trasportare un carico di 400 chilogrammi in un solo giorno. Questo cavallo è un elemento ricorrente della propaganda del regime, che celebra l’abnegazione e lo stakanovismo dei cittadini, e infatti portava lo stesso nome un movimento centrato sul culto della personalità di Kim Il Sung (il nonno di Kim Jong Un).
Gli highlights della partita per la qualificazione alle Olimpiadi persa dalla Corea del Nord
L’epopea della “Chollima”, molto raccontata dai media internazionali, entrò in crisi nel 2011, quando la nazionale fu coinvolta in un grave scandalo di doping. Cinque giocatrici risultarono positive a un tipo di steroidi e la spiegazione del regime fu poco convincente: le autorità nordcoreane sostennero che la cosa fosse dovuta a una medicina tradizionale ricavata dalle ghiandole dei cervi muschiati, somministrata alle calciatrici dopo che un fulmine aveva colpito il loro campo d’allenamento.
La nazionale fu quindi esclusa dal Mondiale del 2015 e in seguito non si qualificò a quello del 2019, saltando l’ultimo per via delle restrizioni anti-Covid imposte in Corea del Nord. A luglio ha giocato una delle sue ultime partite internazionali, un’amichevole, contro la Russia in quello che il Moscow Times ha definito «il derby dei pària internazionali», cioè tra stati ritenuti isolati dalla comunità internazionale.
L’isolamento della Corea del Nord, che a livello politico e diplomatico è pressoché totale, è però diverso da quello della Russia sul piano sportivo: i suoi atleti partecipano infatti alle competizioni, incluse le Olimpiadi, sotto la bandiera del proprio paese e anche la nazionale di calcio gioca nei tornei internazionali. Tanto che nel 2022 il presidente della FIFA Gianni Infantino – ai tempi molto criticato per la scelta di assegnare l’organizzazione dei Mondiali di quell’anno al Qatar, un paese accusato per lo scarso rispetto dei diritti umani – disse che la Corea del Nord avrebbe potuto un giorno ospitare un Mondiale di calcio.
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