Sulle elezioni regionali previste in autunno la destra sta un po’ cincischiando

A differenza delle scorse regionali i partiti della maggioranza stanno prendendo tempo o valutando candidati civici: le ragioni sono varie

(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
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In autunno, tra la fine di ottobre e la fine di novembre, si terranno tre elezioni regionali: in Umbria, in Emilia-Romagna e in Liguria si voterà per eleggere i nuovi consiglieri regionali e il nuovo presidente della giunta. In Liguria il voto è stato provvisoriamente fissato per il 27 e il 28 ottobre, in Emilia-Romagna per il 17 e il 18 novembre, mentre in Umbria non si è ancora deciso.

È piuttosto probabile che il governo di Giorgia Meloni scelga di indire un cosiddetto election day, cioè di concentrare tutte e tre le elezioni in una stessa data, cosa che permetterebbe di risparmiare sui costi connessi all’organizzazione del voto. I dirigenti dei partiti di maggioranza ci stanno ragionando: una decisione ufficiale in tal senso non è ancora stata presa, ma in molti, informalmente, la descrivono come scontata.

Sulla scelta dei candidati presidenti il quadro è invece ancora incerto. La coalizione di centrosinistra sembra decisamente orientata a candidare amministratori locali e dirigenti politici di rilievo, mentre i leader dei partiti di destra stanno evitando di esporsi per imporre le proprie scelte. Fra l’altro nel caso dell’Emilia-Romagna e della Liguria si sta muovendo nella direzione opposta al centrosinistra, proponendo persone meno legate ai partiti, espressione della cosiddetta “società civile”.

È una dinamica interessante, quella che muove le trattative tra Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, perché stride un po’ con quanto era avvenuto nei mesi scorsi, quando si era votato in altre regioni: in quel caso Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani avevano bisticciato non poco nel tentativo di esprimere candidati presidenti legati al proprio partito a discapito degli alleati, stavolta c’è invece una sorta di rinuncia preventiva. Siamo insomma in una situazione un po’ bizzarra in cui nessuno dei tre partiti pare voler rivendicare l’indicazione del leader della coalizione nelle varie regioni. Le ragioni che spiegano questa inclinazione sono diverse.

In maniera un po’ intangibile sembra che in tutte e tre le regioni la situazione per la destra non sia così favorevole: e dunque nessun partito tiene a esporsi e a intestarsi una candidatura a cui poi verrebbe inevitabilmente attribuita la responsabilità di una eventuale sconfitta. Tutti e tre i partiti inoltre stanno già pensando alle elezioni regionali che ci saranno nel 2025, che sembrano promettere meglio: per cui preferiscono passare la mano, per così dire, a questo turno per poi poter avanzare con maggiore forza le proprie pretese quando si dovrà decidere chi candidare in Veneto, Puglia e Campania.

I leader dei partiti della destra a Cagliari per il comizio conclusivo della campagna elettorale di Paolo Truzzu, esponente di FDI candidato presidente in Sardegna, il 21 febbraio 2024 (Gianluca Zuddas/LaPresse)

L’avvicinamento alle elezioni nelle tre regioni al momento è piuttosto diverso. In Umbria si voterà alla fine naturale del mandato quinquennale della leghista Donatella Tesei, prima storica presidente di destra in una regione che dal 1970, cioè da quando le regioni sono state istituite, aveva sempre votato a sinistra. L’Emilia-Romagna va invece a elezioni anticipate dopo che Stefano Bonaccini, presidente della regione per due mandati e da poco eletto europarlamentare col PD, ha lasciato l’incarico. In Liguria invece il voto anticipato è stato indetto dopo le dimissioni del presidente Giovanni Toti, di centrodestra e pure lui al secondo mandato, in seguito al suo coinvolgimento in un’inchiesta della procura di Genova in cui è imputato per un presunto caso di corruzione.

In Umbria la ricandidatura di Tesei è data abbastanza per scontata e per varie ragioni. Anzitutto, non riconfermare un presidente uscente è sempre un po’ un’ammissione di un fallimento: come a dimostrare, cioè, che non abbia lavorato bene. Negli ultimi mesi ci sono state varie tensioni e conflitti tra la Lega e Fratelli d’Italia in consiglio regionale, ma a livello nazionale nella coalizione è ancora abbastanza vivo il ricordo di quanto accaduto in Sardegna lo scorso febbraio.

Meloni volle a ogni costo imporre il suo candidato, Paolo Truzzu, impedendo così al presidente uscente Christian Solinas, leader del Partito sardo d’Azione gemellato con la Lega di Salvini, di ricandidarsi. Alla fine Truzzu si rivelò un candidato piuttosto debole – era già considerato uno dei sindaci meno popolari d’Italia fra i grandi comuni – la destra perse e fu eletta presidente di regione Alessandra Todde, del Movimento 5 Stelle, sostenuta anche dal centrosinistra. Per Fratelli d’Italia dunque un’operazione analoga in Umbria sarebbe molto rischiosa: se anche lì, dopo una mancata ricandidatura di Tesei, dovesse poi vincere il centrosinistra, il partito di Meloni avrebbe sempre meno capitale politico per avanzare richieste simili.

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Tanto più che una nuova vittoria della destra in Umbria è tutt’altro che scontata. Nel 2019 l’elezione di Tesei avvenne in un contesto politico particolare: la Lega era al suo picco storico di consensi e il voto d’opinione a favore di Salvini trainava i candidati del suo partito un po’ dovunque, anche nelle elezioni locali. Il centrosinistra, al contrario, arrivava a quelle elezioni al termine di un periodo molto tribolato segnato da inchieste giudiziarie che avevano coinvolto la giunta regionale e avevano spinto la presidente Catiuscia Marini, del Partito Democratico, a dimettersi. PD e M5S, che da poco più di un mese stavano insieme al governo nazionale guidato da Giuseppe Conte, allestirono in tutta fretta una coalizione unitaria, piuttosto improvvisata e poco credibile, a sostegno della candidatura dell’imprenditore Vincenzo Bianconi, che ebbe poca fortuna.

Stavolta lo scenario è molto diverso: la Lega è in costante crisi di consensi, l’armonia della coalizione a livello regionale si è andata logorando, e il centrosinistra si presenta più compatto e competitivo, come hanno dimostrato anche le recenti amministrative a Perugia. In città la nuova sindaca Vittoria Ferdinandi, sostenuta da una larga coalizione progressista guidata dal PD, ha vinto al ballottaggio restituendo al centrosinistra il comune dopo dieci anni di governo del centrodestra col sindaco di Forza Italia Andrea Romizi.

Una operazione analoga è stata fatta per le regionali: i leader di PD, M5S e Alleanza Verdi e Sinistra hanno infatti indicato congiuntamente come candidata Stefania Proietti, sindaca di Assisi dal 2016, che ha ricevuto l’apprezzamento anche di Azione e Italia Viva (Proietti si è presa un po’ di tempo prima di accettare la proposta). Anche per via di una candidatura così forte, anche se per ora potenziale, le prospettive per Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia sono complicate. Da un lato, imbarcarsi in una baruffa per sostituire Tesei con un altro candidato renderebbe la possibilità di vincere ancora più lontana; dall’altro, anche presentarsi con una presidente uscente a cui manca il sostegno compatto della coalizione non sembra una grande mossa.

La presidente dell’Umbria, Donatella Tesei, interviene al Meeting di Rimini, il 21 agosto 2021 (Massimo Paolone/LaPresse)

Se quella di Tesei è dunque una scelta obbligata, in Emilia-Romagna Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia hanno subito deciso di convergere su un nome cosiddetto civico. È quello di Elena Ugolini, esperta di politiche educative e formative, ex sottosegretaria all’Istruzione nel governo tecnico di Mario Monti tra il 2011 e il 2013, da sempre vicina al mondo conservatore cattolico e in particolare al movimento di Comunione e Liberazione, forse il più famoso fra i gruppi reazionari cattolici in Italia. Ugolini è nota in Emilia soprattutto per essere la rettrice delle Scuole Malpighi, un istituto bolognese che gestisce sette scuole paritarie e che ha un certo peso nella vita politica e culturale locale.

La scelta di Ugolini mostra il tentativo di intercettare soprattutto il voto moderato in un’elezione che la vede comunque partire sfavorita rispetto al candidato di centrosinistra, il sindaco di Ravenna Michele De Pascale, molto vicino al presidente uscente Bonaccini. E questa candidatura da parte della destra segna una distanza con quanto avvenne nel 2020, quando la coalizione egemonizzata dalla Lega indicò come candidata la senatrice leghista Lucia Borgonzoni, impostando una campagna elettorale molto aspra e finalizzata a esasperare lo scontro politico con toni sempre accesi e iniziative controverse. Borgonzoni perse di otto punti contro Bonaccini.

Stavolta, invece, la decisione di rivolgersi a una personalità cosiddetta civica è maturata soprattutto per volontà di Fratelli d’Italia, che essendo di gran lunga il partito più votato della coalizione sembrava destinato a dover esprimere il candidato presidente nella regione più importante chiamata al voto. Ma sia il senatore Marco Lisei, sia soprattutto Galeazzo Bignami, viceministro ai Trasporti, hanno preferito non candidarsi. La strategia è piuttosto chiara, ed è stato lo stesso Bignami, uno dei massimi dirigenti nazionali di Fratelli d’Italia e punto di riferimento del partito in Emilia-Romagna, a concordarla con Meloni: rinunciare a esprimere un candidato in una elezione che vede il centrosinistra molto favorito, per poi avere maggiore legittimazione nel rivendicare di esprimere il candidato presidente in Veneto. Dove si voterà nel 2025 e dove Fratelli d’Italia da tempo ha mostrato di voler proporre un proprio candidato presidente, opponendosi in ogni modo ai numerosi tentativi da parte della Lega di garantire un nuovo quarto mandato a Luca Zaia.

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In questa stessa ottica, grosso modo, si spiega anche l’incertezza intorno alla scelta per la Liguria. Anche qui le possibilità di una nuova vittoria della destra, dopo i due mandati di Toti, si sono decisamente ridotte per via della vicenda giudiziaria che ha coinvolto il presidente e alcuni suoi stretti collaboratori.

Il centrosinistra sembra intenzionato a proporre un candidato presidente dal notevole peso politico: il deputato spezzino del PD Andrea Orlando, più volte ministro, capo di una delle correnti più strutturate del partito. La sua designazione non è ancora certa, ma è di gran lunga lo scenario che sembra più probabile, al momento. La candidatura di Orlando indicherebbe una notevole discontinuità rispetto alla scelta fatta dal centrosinistra nel 2020: in quell’occasione nel tentativo di individuare una figura terza che potesse essere sostenuta sia dal PD sia dal M5S – la Liguria è la regione dove abita il fondatore del Movimento, Beppe Grillo – venne scelto Ferruccio Sansa, giornalista del Fatto Quotidiano, il quale faticò parecchio a tenere insieme le varie componenti della coalizione.

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La destra stavolta sembra aver rinunciato a contrapporre un candidato molto esposto politicamente. Qualche settimana fa si era parlato della possibilità di candidare il leghista Edoardo Rixi, viceministro dei Trasporti e uomo di massima fiducia di Salvini, dirigente storico della Lega a Genova e in Liguria e grande esperto di questioni infrastrutturali che sono tradizionalmente al centro del dibattito politico locale. Rixi però si è detto subito non disponibile a candidarsi: ufficialmente, perché il suo lavoro al ministero è quanto mai gravoso e sarebbe difficile sostituirlo. In realtà alla base di questa decisione ci sono stati proprio i dubbi dello stesso Rixi sull’opportunità di condurre una campagna elettorale che sia pesantemente condizionata dagli sviluppi dell’inchiesta che ha portato Toti a dimettersi, e che potrebbe avere esiti non prevedibili al momento.

Il leghista Edoardo Rixi insieme al presidente della Liguria Giovanni Toti, alla Camera, il 16 aprile 2019 (Roberto Monaldo/LaPresse)

Per settimane nei dibattiti sui giornali e nei conciliaboli in parlamento si è dato un certo credito all’ipotesi che il candidato avrebbe potuto essere il leghista Alessandro Piana, assessore all’Agricoltura e vicepresidente della giunta regionale. Dal maggio scorso Piana svolge il ruolo di facente funzioni del presidente, sostituendo cioè di fatto Toti, che era stato messo agli arresti domiciliari e che ne è stato liberato solo dopo essersi dimesso. Ma anche su Piana le rivendicazioni della Lega sono state abbastanza tiepide, mentre si facevano un po’ più consistenti quelle di Forza Italia per Carlo Bagnasco, ex sindaco di Rapallo, figlio del deputato Roberto già a sua volta sindaco della città in passato e coordinatore regionale del partito.

Anche in Liguria però i nomi che sono circolati con maggiore insistenza non fanno riferimento ai partiti. Anzitutto il manager Beppe Costa, dirigente della società Costa Edutainment che gestisce tra l’altro l’importante acquario di Genova, nonché presidente della Fondazione Palazzo Ducale, il principale museo della città e della regione. È stato lui stesso, però, a dichiararsi indisponibile. Poi sono circolati molto i nomi di Alessandro Bonsignore e Federico Delfino: presidente dell’Ordine dei medici liguri il primo, rettore dell’Università di Genova il secondo, entrambi senza affiliazioni a partiti.

Ma più di tutti il profilo che sembra guadagnare crediti in questi giorni è quello dell’avvocato Pietro Piciocchi, vicesindaco di Genova e assessore al Bilancio e ai Lavori pubblici, uno dei più influenti esponenti della giunta guidata da Marco Bucci ma anche molto vicino a Toti. Piciocchi non è iscritto a nessun partito, pur definendosi un moderato di centrodestra che fa appunto riferimento al presidente dimissionario e a un sindaco che sembra ancora piuttosto popolare.