Lo spot contro il boicottaggio della Coca-Cola che ha peggiorato la situazione
Ha inavvertitamente confermato i legami con Israele che puntava a negare dopo che erano diminuite le vendite in Bangladesh
La campagna pubblicitaria con cui quest’estate la Coca-Cola voleva contrastare il boicottaggio ai suoi prodotti in diversi paesi asiatici, e in particolare in Bangladesh, ha peggiorato la situazione. La Coca-Cola, come molti brand statunitensi, ha riscontrato un calo nelle vendite in vari paesi a maggioranza musulmana, dove questi marchi sono percepiti come legati a Israele, dopo l’inizio dell’invasione della Striscia di Gaza in cui sono stati uccisi finora quasi 40mila palestinesi. In Bangladesh, per esempio, le vendite della Coca-Cola erano diminuite del 23 per cento dall’inizio della guerra.
L’azienda aveva allora scritturato Sharaf Ahmed Jibon, un attore molto popolare nel paese, per uno spot televisivo che doveva servire a riscattare l’immagine della bevanda gasata famosa in tutto il mondo. Prima di venire sospeso, a giugno lo spot è stato trasmesso durante i mondiali di cricket T20, lo sport più seguito in Bangladesh e in tante altre nazioni del Commonwealth, cioè quelle che facevano parte dell’ex impero coloniale britannico, tra cui l’India e il Pakistan.
Nella pubblicità Jibon interpreta un negoziante che rassicura i suoi clienti, che dicono di non voler più consumare Coca-Cola perché è un prodotto degli Stati Uniti, il cui governo sostiene con convinzione quello del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. «Ascoltate, ragazzi, la Coca-Cola non è di “quel posto”», dice l’attore, dove “quel posto” è Israele. Anzi: «Anche la Palestina ha una fabbrica di Coca».
Quest’ultima frase ha suscitato grandi proteste da parte del pubblico a cui era destinato lo spot. La “fabbrica” in questione infatti si trova in Cisgiordania, ma all’interno di Atarot, uno degli insediamenti israeliani considerati illegali dalla comunità internazionale. Il tentativo di distanziarsi da Israele, così, ha involontariamente reso più evidente una situazione inaccettabile per molti consumatori di religione islamica, che simpatizzano per la popolazione palestinese e ritengono gli occupanti israeliani colpevoli di crimini contro l’umanità.
In questi giorni la Coca-Cola si è infine scusata per l’errore. «Riconosciamo che il video mancava il punto, e ci scusiamo. Il video è stato rimosso da tutte le piattaforme», ha detto al Washington Post Scott Leith, vicepresidente per la comunicazione strategica globale del gruppo. Un altro degli attori dello spot, Shimul Sharma, a giugno si era scusato pubblicamente e anche Jibon aveva ribadito che non avrebbe mai «sostenuto Israele in nessun modo».
Nel tentativo di fermare il calo delle vendite, la Coca-Cola aveva intensificato gli investimenti pubblicitari in Bangladesh, comprando spazi promozionali sui giornali di carta e sui loro siti. A febbraio inoltre l’azienda aveva venduto il ramo che imbottiglia la bibita in Bangladesh alla Coca-Cola İçecek, la sua filiale turca (in cui la quota di maggioranza è dell’azienda turca Anadolu Efes). Secondo alcuni analisti anche questa era un’operazione d’immagine: affidare cioè a un’impresa di un paese prevalentemente musulmano il mercato di un altro paese a maggioranza musulmana.
In Turchia, tra l’altro, il boicottaggio che di solito viene effettuato in modo informale dai consumatori aveva fatto un salto di livello, per così dire, istituzionale. Lo scorso autunno il presidente del parlamento turco, Numan Kurtulmuş (che fa parte del partito del presidente Recep Tayyip Erdoğan), infatti aveva vietato di vendere Coca-Cola nei ristoranti e nei bar del complesso del parlamento.
Mentre sono diminuite le vendite della Coca-Cola, in diversi paesi sono aumentate quelle di altre bevande gasate locali, prima meno apprezzate. Per esempio in Bangladesh la Mojo è stata percepita come un’alternativa alla Coca-Cola. Qualcosa di simile è accaduto per la Matrix Cola giordana e per la Kinza saudita.
Il boicottaggio nei paesi a maggioranza musulmana è stato un problema anche per altri marchi occidentali, come ha scritto la settimana scorsa il Financial Times. Ne hanno risentito soprattutto catene di ristoranti o bar statunitensi come McDonald’s, Starbucks e KFC. L’azienda cosmetica L’Oréal ha stimato che i boicottaggi abbiano causato una crescita più bassa del 2 per cento nel primo semestre del 2024 rispetto alle aspettative; mentre Starbucks ha prospettato il licenziamento di 2mila persone in paesi del Medio Oriente a causa dei minori ricavi.
In generale le aziende sono piuttosto restie a menzionare gli effetti del boicottaggio nelle loro comunicazioni ufficiali, per il timore di dare un riconoscimento esplicito al fatto che le stia effettivamente danneggiando. Anche PepsiCo, il principale competitor globale della Coca-Cola, ha avuto un incidente comunicativo: a maggio una campagna pubblicitaria in Egitto che aveva riesumato lo slogan “Resta assetato” è stata molto contestata perché ritenuta irrispettosa mentre, nella vicina Gaza, mancavano – e mancano tuttora – acqua e generi alimentari.
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