Libri sul camminare per camminare
«Ora, non sfugge né e me né a voi che questa faccenda del camminare sta dilagando come non mai. In qualità di narratore e appassionato di cammini mi ha sempre intrigato il rapporto fra zaini e libri. Che i primi possano con profitto contenere i secondi lo intendono anche i somari; la faccenda diventa interessante se si considera fino a che punto le vendite di zaini possano incentivare la vendita di libri. Il primo consiglio che mi sento di dare...»
In qualità di narratore e appassionato di cammini – a sufficienza, almeno, per coprire in una stagione la distanza fra il Tirolo e la Sicilia – mi ha sempre intrigato il rapporto fra zaini e libri. Che i primi possano con profitto contenere i secondi lo intendono anche i somari; la faccenda diventa interessante se si considera fino a che punto le vendite di zaini possano incentivare la vendita di libri. Ma procediamo con ordine.
La mania del camminare . Ora, non sfugge né e me né a voi che questa faccenda del camminare sta dilagando come non mai. Ognuno avrà esperienza di colleghi, sodali o cugini più o meno remoti che, di punto in bianco, hanno deciso di andare a trovare l’apostolo Giacomo nel suo sepolcro presso la cattedrale di Santiago. (L’anno scorso, giusto per spiegare bene le proporzioni del fenomeno, ci sono arrivati 446.000 peregrinos e peregrinas, con le donne in leggero vantaggio numerico sugli uomini e gli italiani – 28.649– al secondo posto fra gli stranieri dopo gli statunitensi)
La mania di Santiago è in crescita costante da un quarto di secolo, così a un certo punto anche al sottoscritto è venuta la curiosità di capire che cavolo ci facessero tanti novizi del cammino, gente che non si era mai spinta oltre l’itinerario ad anello parcheggio-polenta in rifugio-parcheggio, lungo un percorso che richiede settimane anche agli escursionisti più esperti. Fra le colline della Navarra e i castagneti del Leonese ho conosciuto centinaia di apprendisti camminatori, con i loro zaini nuovi e scarponcini nuovi e tenute da trekking, nuove anch’esse; li ho trovati generalmente in quello stato che il De Amicis sintetizzò con la mielosa espressione «stanchi ma felici». Anche i più provati sembravano increduli di sentirsi parte di una comunità, una repubblica in marcia, una pacifica orda che ammette e incoraggia rapporti informali, chiacchiere fra sconosciuti, condivisione. (Impressioni più dettagliate sull’esperienza del Cammino e i suoi frequentatori sono raccolte in questo volumetto dello scrivente) .
Molti di loro, una volta tornati a casa, hanno scoperto con una certa meraviglia che si poteva camminare anche in Italia; da una prospettiva opposta, i frequentatori di Alpi e Appennini hanno visto crescere con curiosità una rete di percorsi anche alle quote più basse. Gli uni e gli altri hanno contribuito in maniera decisiva all’attuale boom dei cammini italiani. Nel 2019, lo storico sorpasso: per la prima volta i percorsi strutturati del Bel paese fecero registrare un numero di presenze certificate superiore – 30.000 contro 27.000 – al numero dei compatrioti diretti a Santiago. Poi le stagioni buie del Covid, con la riscoperta inizialmente forzosa di sentieri dietro casa e percorsi nazionali, e un clamoroso effetto domino: lo stupore nel ritrovarsi per la via in mezzo a tanti altri, il passaparola circa cammini neonati o da riscoprir, il volano social che ha premiato determinati percorsi facendoli assurgere al rango di cult. Alcuni sono noti da secoli come il Cammino di Oropa, altri vecchi di decenni ma a lungo negletti, come la Via degli Dei tra Bologna e Firenze, o il Sentiero del Viandante lungo la riva lecchese del Lario, che nelle ultime stagioni hanno fatto registrare il tutto esaurito. Al dunque, nel giro di un lustro i numeri sono più che triplicati.
– Leggi anche: Cento modi di camminare, dimostrati
La casa editrice Terre di mezzo, riferimento per le guide di settore, nel suo ultimo dossier annuale ha conteggiato oltre 100.000 presenze documentate nel 2023 sui cammini italiani, il quintuplo rispetto al 2017, quando i percorsi strutturati per il rilascio delle credenziali erano appena 6 contro i 92 di oggi. Basta confrontare questi numeri con il crescente successo di piattaforme consacrate al reperimento di compagni di escursione (di questa probabilmente avete visto la pubblicità in metropolitana o in qualche stazione ferroviaria, ma date un’occhiata anche qui): la gente smania per fare nuove conoscenze, e sembra che i sentieri siano la cornice ideale.
Insomma, dietro all’impennata di popolarità dei cammini – storici, religiosi, di rilievo naturalistico o civile – non c’è solo il desiderio di stare all’aria aperta, ma in primo luogo un’esigenza di stringere, o tornare a stringere, rapporti umani autentici. Tu chiamale, se vuoi, emozioni.
Bibliofili con lo zaino . Nel corso degli anni 2010 i sismografi delle case editrici si mettono timidamente in movimento: le statistiche dimostrano che chi cammina regolarmente ha un’istruzione medio-alta e un’età media prossima alla quarantina. Individuata una nuova nicchia di lettori forti? Nel dubbio, adelante con juìcio, si vari qualche titolo a tema per sondare il terreno! Il Premio ITAS di Trento, con le sue 50 edizioni il decano fra i premi letterari dedicati al “libro di montagna”, rappresenta un buon termometro dell’allargamento dell’offerta editoriale legata all’outdoor: faccio parte della giuria dal 2013, e i titoli che partecipano – romanzi, saggi, guide – sono passati dall’ordine di grandezza delle decine ai 120 stabili delle ultime edizioni.
Uno spartiacque significativo è stato rappresentato dal successo dell’amico Paolo Cognetti con Le otto montagne, capace di aggiudicarsi nel 2017 prima un premio “per specialisti” come l’ITAS poi il generalista e decisivo Strega. A quel punto, nell’editoria italiana, una bolla nella quale non mancano illustri esempi di escursionisti appassionati, si sono aperte le proverbiali cataratte: avanti tutta con le biografie di alpinisti e avventurieri d’epoca vittoriana, le analisi sull’opera seminale di Mario Rigoni Stern, i noir e le avventure adolescenziali d’ambientazione dolomitica! Fra gli esiti più inattesi e riusciti: un colossale libro illustrato sul K2 pensato per fare la gioia di ogni (ex) fanciullo che sogna gli Ottomila, una documentatissima biografia di Guido Rossa messa in chiave dalla sua passione per la montagna, e ancora romanzeschi disvelamenti fra madre e figlio in cammino lungo sentieri alpestri.
Gli scherzi da gentleman del vecchio Paddy . Il primo consiglio che mi sento di dare a un buon cugino – fra camminatori bibliofili ci si chiama così – è quello di procurarsi Tempo di regali di Patrick Leigh Fermor, primo volume di una trilogia di viaggio dalla storia editoriale pressoché incredibile. È il 1933 quando il neo-diplomato Fermor, figlio irrequieto delle classi privilegiate, ottiene in premio dal padre la possibilità di fare un viaggio a propria scelta. Sono anni di crociere grandiose e progressi incessanti in campo automobilistico. In giro per l’Europa si pensa a inaugurare circuiti e autostrade per la gioia dei rampolli suoi pari, ma il ragazzo fa una scelta in controtendenza: traverserà il Vecchio mondo, dalla costa d’Olanda sino a Costantinopoli, a piedi o con mezzi di fortuna.
Il giovane Paddy si consegna con naturalezza al flusso delle occasioni: è capace di marciare per giorni fra le montagne come di accettare senza sensi di colpa un passaggio, dorme con la stessa imperturbabilità in un ricovero da pastori e nei castelli che gli aprono le porte in virtù del biglietto da visita. Un po’ chierico vagante e un po’ backpacker ante litteram, Fermor traversa la Germania nei mesi in cui s’impongono le Camicie brune, di cui deplora con distacco tutto british lo stile grottesco, varca fiumi gonfi di storia e studia capolavori dell’arte antica, partecipa a feste danzanti, si fa nuovi amici, s’innamora.
L’avventura indimenticabile di un diciottenne dell’anteguerra diventa libro molti anni dopo, quando Fermor ha passato i sessant’anni: A Time of Gifts esce nel 1977 per l’editore Murray, e subito diventa un cult fra i viaggiatori. L’ironia elegante dello stile e la ricchezza delle descrizioni d’epoca entusiasmano largamente un pubblico che, proprio negli anni settanta, sulle Isole Britanniche scopre la passione per i cammini long distance. Nel richiudere il volume col giovane protagonista al confine tra Cecoslovacchia e Ungheria, in tanti si domandano se il secondo volume dalla storia, con il promesso arrivo a Costantinopoli, uscirà a breve.
Fermor fa in tempo a doppiare i settant’anni prima di consegnare all’editore il sequel, Walking the Woods and the Water. Con un certo sconcerto di questi, anticipazione di quello dei fedeli lettori, la nuova storia si esaurisce per intero fra l’Ungheria e le Porte di ferro, le strette del Danubio al confine tra gli allora regni di Yugoslavia e Romania. Costantinopoli ancora non si vede neanche col binocolo; evidentemente il vecchio Paddy ha in mente un terzo volume.
Gli anni diventano ottanta, ottantacinque, arriva il lauro del Guardian come «leggenda della letteratura» e «scrittore di viaggio più popolare del Regno Unito», scoccano i novanta e ancora del finale della storia non si sa nulla di certo. Trapela unicamente che Fermor ci sta lavorando su una Olivetti d’epoca con l’ausilio di un redattore, perché la vista peggiora e la scrittura a mano si è fatta incomprensibile. L’autore si spegne a 96 anni nel 2011, sprofondando nella delusione chi aspettava da decenni l’atto finale dell’avventura. Solo all’apertura del testamento si scopre che il terzo volume è destinato a uscire postumo, con note e integrazioni degli “esecutori letterari” individuati a suo tempo. Finalmente esce The Broken Road. Sorpesa finale: Costantinopoli resta una visione, mentre è descritto in maniera tanto minuziosa un détour al Monte Athos. I tre volumi sono usciti in italiano per Adelphi sotto i titoli di Tempo di regali, Fra i boschi e l’acqua, e La strada interrotta.
(Assist per commentatori decisi a stupire i compagni di escursione: la storia editoriale della trilogia sembra farsi parabola, ampia una vita, dell’antico sapere secondo il quale non conta tanto la meta, quanto il viaggio in sé. Altri d’indole più sentimentale potranno far notare, con profitto non minore, come le giornate che ci si concede in cammino siano sempre “tempo di regali” ).
I Canti di Dino . Un titolo leggendario, per i camminatori come per i filologi, sono i Canti orfici di Dino Campana, laico patrono degli scrittori esordienti. Nato a Marradi, ultimo lembo di Toscana appenninica a ridosso della Romagna, il futuro poeta cresce all’ombra di una madre dichiarata affetta da «mania deambulatoria». Intorno al borgo, boschi e carrarecce non mancano, così il giovane Dino prende a seguire fin da piccolo la genitrice e si fa presto, come si suol dire, «la gamba buona». Da adolescente s’innamora delle belle lettere, di quell’amore disperato da ragazzo di paese. Ormai cammina per conto proprio; scopre le contrade fuori mano ai piedi delle Foreste Casentinesi, dove ancora si evade l’obbligo scolastico per fare legna o portare le greggi al pascolo, ma al contempo s’incontrano carbonai semi-analfabeti che snocciolano a memoria terzine dell’Inferno.
Il giovane Campana finisce per iscriversi tardivamente all’ateneo di Bologna. A ventotto anni scrive testi visionari che alternano poesia e frammenti in prosa alla maniera di Verlaine e Baudelaire, un genere che nel 1913 entusiasma le teste calde delle riviste universitarie, ma è già famigerato tra gli editori come un azzardo commerciale. Il ragazzo indubbiamente, ha talento: le sue strutture miste parlano una lingua che si nutre di immagini della modernità e sono ritmate come montaggi cinematografici, allo stesso tempo si nutrono alle fonti della lirica italiana, Dante e la poesia del Trecento.
(Trigger warning: se vi disturbano le storie tristissime degli scrittori esordienti alle prese con l’arbitrio e lo spregio delle redazioni culturali, o conoscete già questa in specifico, relativa a un manoscritto perduto, passate con agio al paragrafo successivo, il promettente “Pegni d’amore e d’amicizia”).
Nella Belle Epoque, prima di proporsi a un editore o sobbarcarsi in proprio le spese per la stampa, un esordiente di provincia sente il bisogno di confrontarsi con la società letteraria dell’epoca. Detto, fatto. Quando gli sembra di avere da parte materiale bastevole per farne un libro, l’instancabile Dino scende a piedi a Firenze con l’unica copia del suo manoscritto, lo consegna brevi manu a Giovanni Papini e Ardengo Soffici, il dinamico duo alla guida della rivista Lacerba. Gli autorevoli leggono, invitano Campana al caffè delle Giubbe Rosse dove dicono un gran bene di lui e gli promettono la pubblicazione a breve. Il testo però non esce. Il guaio è che, a forza di rimpallarsi il manoscritto, i due l’hanno smarrito.
Cosa dire a quel Campana, rientrato a Marradi senza un soldo dopo i brevi fasti fiorentini, che scrive e riscrive reclamando le preziose carte? Con un tocco di riprovevole modernità, Papini e Soffici decidono di ghostarlo. Alla quinta lettera senza risposta, il già sensibile Campana crolla sotto il peso della frustrazione. Passa alla minaccia di farsi giustizia col coltello e scende daccapo a Firenze. Quando se lo trova di fronte, Papini nicchia, s’arrampica sugli specchi, scarica la responsabilità su Soffici. L’altro si giustifica sostenendo di non aver mai ricevuto il testo, e qualcosa dentro Dino scricchiola, vibra, si spezza. Inutile minacciare. I due uomini che dovevano traghettarlo verso la fama non hanno la minima idea di dove sia finito il manoscritto. Comunque vada, lui non lo rivedrà più. E nessuno può aiutarlo a ricostruire l’intrico di parole scelte una a una, le assonanze, il ritmo.
Campana torna disperato a Marradi, in preda a un mostruoso sforzo mnemonico che finirà per compromettere i suoi nervi: deve ricordare a ogni costo il testo perduto per metterlo daccapo nero su bianco. Ci mette una stagione intera, ma nel ’14 i Canti orfici sono pronti per la stampa; spossato, trova adatto coronare il cimento con una maiuscola dedica a Guglielmo, imperatore dei Germani, una scelta che, alla vigilia della Grande Guerra, si rivelerà poco lungimirante. Questa volta Campana affida i suoi scritti a un editore locale, ne sorveglia occhiuto il viaggio in tipografia, infine vede il volume andare in commercio. I risultati di vendita sono mortificanti, ma l’esordiente guadagna l’incoraggiamento di critici illustri, continua a scrivere, intreccia una tormentosa relazione con la scrittrice Sibilla Aleramo.
Mena vita girovaga, ma la salute non è dalla sua. A soli trent’anni è colto da un primo attacco di paresi. Scampa così la chiamata alle armi, ma frattanto si aggravano i suoi problemi psichici; nel 1918 un fermo di polizia sfocia in una diagnosi che lo definisce “ebefrenico”, e porta al suo ricovero coatto in ospedale psichiatrico. Nella struttura, posta nei dintorni di Scandicci, il povero Dino trascorrerà i quattordici anni che gli restano da vivere.
(Spoiler warning: qui viene il bello per i filologi).
Quando si è distratti si è distratti, e chi è senza peccato scagli quel che deve. La storia della letteratura italiana, però, condanna Ardengo Soffici come responsabile unico dello smarrimento del manoscritto della discordia, rinvenuto dagli eredi fra le sue carte solo nel 1971. Il testo è stato publicato un paio d’anni più tardi in versione anastatica sotto il titolo originale di Il più lungo giorno, con memorabile godimento tra i filologi, liberi d’indagare affinità e divergenze tra prima e seconda stesura. La possibilità che uno studente di Lettere incroci l’opera di Campana lungo il proprio percorso, da allora è cresciuta vertiginosamente, di pari passo con l’agglutinarsi di una ricca bibliografia e con le prime traduzioni all’estero della sua opera.
Per i non specialisti, resta la possibilità di portarsi a Marradi in treno e ripercorrere i sentieri di Dino. Andare a Firenze a piedi non è più consigliabile, almeno non per la via di fondovalle; salendo al crinale, in compenso, si può camminare in sicurezza per giorni e giorni, puntando il giogo boscoso delle Foreste sacre. Immaginate di essere lassù, alla fonte dell’Arno, oppure più in là ancora, nei tagli di luce della faggeta di Camaldoli, a raccontare sul far della sera la leggenda del poeta sfortunato che batté quegli stessi boschi, e omaggiarne la memoria recitando qualche passo dei suoi Canti:
«Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare – Sorgenti, sorgenti che sanno – Sorgenti che sanno che spiriti stanno – Che spiriti stanno a ascoltare…»
Pegni d’amore e d’amicizia . «Alla fine, l’amore che ricevi è uguale all’amore che sai creare» cantavano i poeti, e tutti noi sappiamo che fare doni alle persone care solo per il compleanno è da avari di sentimenti. Basta un briciolo d’accortezza per regalare a un camminatore bibliofilo il titolo che lo farà felice. Per gli amanti dei percorsi storici, per esempio, resta imprescindibile Le antiche vie di Robert Macfarlane, stimato docente a Cambridge e alpinista appassionato, noto al grande pubblico britannico come divulgatore televisivo. Dello stesso autore e affini per argomento Luoghi selvaggi e Montagne della mente.
Chi in inverno si dimostra sensibile al richiamo dello sci-alpinismo troverà irresistibili la traversata del Caucaso raccontata in Nero-bianco-nero del ticinese Mario Casella, e quella alpina ai tempi del Covid sulla quale si fonda Bianco di Sylvain Tesson. I più propensi all’arrampicata andranno in brodo di giuggiole per Adam the Climber, la recente biografia di Adam Ondra firmata a quattro mani dall’arrampicatore ceco con l’amico e mentore Pietro Dal Pra, oppure potrete stupirli con Eravamo immortali, l’antieroica autobiografia firmata a sorpresa qualche anno fa dal leggendario Manolo; in mezzo a tanti mémoir autoreferenziali, un vero romanzo di formazione su un ragazzo degli anni settanta sospeso tra alienazione da provincia profonda, utopie di riscatto e fascinazioni extraparlamentari.
A chi apprezza il racconto delle imprese dei pionieri, piaceranno il documentatissimo La battaglia del Cervino di Pietro Crivellaro, indiscussa autorità nel campo della storia dell’alpinismo; ai più sensibili al cambiamento climatico Il grande libro del ghiaccio di Enrico Camanni; a chi sogna di mollare la città per consacrarsi alla pastorizia Storie di pascolo vagante di Marzia Verona. Fra i romanzi ottimi I Moosbrugger dell’austriaca Monika Helfer, e Anni d’oro del grigionese Arno Camenisch, entrambi tradotti in italiano dal meritevole editore roveretano Keller.
Per affrontare in maniera seria e non dogmatica il rapporto tra l’alpinismo e le donne, infine, consigliamo di evitare titoli in salsa rosa sulle signore delle vette e i loro amori (a quanto pare, gettonatissimi dall’algoritmo che tutto può), per partire a studiare la questione con il dialogo fra Linda Cottino e Silvia Metzeltin pubblicato dal CAI col titolo L’alpinismo è tutto un mondo.
Americana . Se da noi va più forte che mai l’escursionismo inteso come attività ricreativa, ai quattro angoli del globo ci si mette in cammino per cause di forza maggiore, nella speranza di mettere insieme il pranzo con la cena o di lasciare un paese che non offre opportunità. In questo senso consigliamo di cuore Se piovessero stelle su questo deserto. L’autore Javier Zamora ripercorre la sua odissea di bambino migrante, diretto dal natio Salvador agli Stati Uniti dove si sono già trasferiti i genitori. Degni di un Dickens latino-americano i passaggi del piccolo fra le diverse bande di coyotes che si rimpallano l’incarico di farlo arrivare a destinazione; indimenticabile l’ultimo passo, la traversata da incubo della frontiera fortificata fra il Messico e il Texas, primo lembo della sospirata “Gringolandia”.
Negli Stati Uniti la tradizione letteraria della wilderness è ben radicata, e nel corso del XIX secolo si è spostata via via verso ovest: se il classico Walden di Thoreau viene composto a metà ottocento in Massachusetts, serve aspettare venticinque anni per gli scritti dallo Yosemite e dalla Sierra Nevada di John Muir, «il padre dei parchi nazionali», proposti in silloge nel volume Le montagne mi chiamano.
Nel XX secolo, il progresso trionfante manda in pensione l’epica della frontiera e produce per reazione un afflato nuovo, quello della ricerca dell’autenticità in ambienti naturali non antropizzati. Ambiziosissima, in questo senso, l’apertura dell’Appalachian Trail, il più lungo sentiero pedonale del mondo, che si snoda per 3.300 accidentatissimi chilometri fra la Georgia e il Maine, e dopo la Seconda guerra mondiale diventa il sacro graal degli escursionisti americani. Bill Bryson ne mette in burla il mito con il “non-fiction” del 1997 Una passeggiata nei boschi, cronaca ilare del proprio velleitario tentativo di percorrere per intero il Trail, il tutto da principiante e fiancheggiato da un amico ancora più sprovveduto. La titanica impresa è ben presto rinegoziata, ma alcune sequenze restano pietre miliari della comicità da cammino.
Chi l’Appalachian Trail l’aveva già percorso sul serio, senza appoggio e in una volta sola, è Grandma Gatewood, sin dagli anni cinquanta figura di riferimento per gli escursionisti d’oltreoceano. Non solo fu la prima donna a completare il percorso – un’impresa che ancor oggi richiede agli escursionisti allenati almeno cinque mesi – ma lo fece in condizioni straordinarie: ormai anziana, dopo una vita durissima in fattoria, madre di undici figli e ostaggio di un marito violento sino alla crudeltà.
«La vigorosa old lady» partì a sessantasette anni, quand’era ormai nonna di una tribù di nipoti, annunciando laconica: «Vado a camminare», e da quel momento giurò a chiunque di essere vedova. Il suo bagaglio constava unicamente in una sacca di tela denim cucita di persona, ai piedi aveva scarpe sportive più simili alle Converse All Star che ad adeguati scarponi; aspirava alla quiete, divenne suo malgrado una celebrità nel primo decennio in cui l’America cominciò a specchiarsi negli schermi della televisione. La sua avventura, vero e proprio inno alla liberazione personale sullo sfondo del maccartismo e delle lotte per i diritti civili, è narrata in maniera vivida da Ben Montgomery in La signora degli Appalachi.
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