I bivacchi montani non sono mai stati così popolari

Le strutture di riparo di emergenza in alta montagna hanno cent'anni e sono molto cambiate: ora attirano un pubblico più ampio, con tante foto spettacolari e qualche problema

di Valerio Clari

Il bivacco Regosa, nel parco dell'Adamello, in Lombardia (Foto Matteo Peroni)
Il bivacco Regosa, nel parco dell'Adamello, in Lombardia (Foto Matteo Peroni)
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Era il dicembre del 1923 quando durante una riunione del Club alpino accademico italiano (CAAI), associazione che raccoglieva alcuni dei migliori alpinisti dell’epoca, il presidente Lorenzo Borelli propose l’idea di costruire dei bivacchi fissi d’alta quota. L’idea era di collocare in punti strategici piccole strutture che fornissero un riparo notturno nelle ascensioni più complesse, quelle per cui era necessario, o più sicuro, spezzare una spedizione in due giorni. Sarebbero state spartane, funzionali e ovviamente incustodite. E sarebbero state collocate là dove era impossibile costruire strutture più capienti e classiche, come rifugi, baite o malghe.

Oltre cento anni dopo i bivacchi stanno vivendo un periodo di grande popolarità: negli ultimi anni sono aumentati di numero, hanno assunto forme diverse e soprattutto attirano sempre più escursionisti, specialmente nei mesi estivi. Troppi, secondo i frequentatori più assidui della montagna, e non sempre sufficientemente preparati e rispettosi, secondo chi si occupa della  manutenzione.

Oggi i bivacchi sono fondamentalmente di due tipi: quelli essenziali, strutture emergenziali collocate in zone particolarmente impervie e remote, pensate per fornire un riparo temporaneo ad alpinisti ed escursionisti esperti; quelli più moderni, dotati spesso di più comfort e più spazi letto, a volte architettonicamente innovativi, che sono diventati spesso l’obiettivo finale dell’escursione.

In Italia ce ne sono alcune centinaia: oltre 250 sono di proprietà del CAI, il Club alpino italiano, e sono schedati in un grande database consultabile online; altri sono montati e gestiti dai Comuni; altri ancora sono frutto di iniziative di privati, spesso pensati e costruiti per ricordare un appassionato di montagna che non c’è più.

I primi, quelli pensati da Borelli nel 1923, prendevano ispirazione dai ricoveri in lamiera utilizzati dagli alpini durante la Prima guerra mondiale. I primi due furono collocati in Valle d’Aosta: al Col des Echelettes, su un piccolo terrazzo roccioso affacciato su un ghiacciaio, e in Val Ferret, a circa 2.300 metri di altitudine, nel massiccio del Monte Bianco. I due bivacchi originari ora sono stati trasferiti in due musei, il Museo alpino Duca degli Abruzzi di Courmayeur, in Valle d’Aosta, e il Museo della Montagna di Torino.

Si occupò di realizzarli e assemblarli in quota la ditta dei Fratelli Ravelli, di Torino, specializzata in lamiere e che avrebbe dato il nome al modello,“Modello Ravelli”, appunto. La struttura era un guscio di perlinato in legno, isolante, ricoperto da lamiere di zinco, resistenti alle intemperie: la forma era quella di una mezza botte, il pavimento era di assi di legno coperte da cartone catramato, le dimensioni meno di 2,5 metri per 2, con un’altezza di un metro e mezzo, abbastanza per far sdraiare quattro persone, su due livelli. Si aprivano verso l’esterno una porta e una finestrella, dentro ci si trovavano una cucinetta ad alcol, cinque coperte, un bidone per l’acqua, una pentola, una scopa, l’accetta, la pala, il mastello, una lanterna e qualche altro arnese per la pulizia e per la cucina.

Il “Ravelli” contribuì alla diffusione dei bivacchi su tutto l’arco alpino, poi a partire dal secondo Dopoguerra lo standard divenne quello del modello Apollonio, un po’ più alto, più grande, più profondo, con sei-sette posti letto su tre livelli, assi ribaltabili per lasciare spazio a un utilizzo anche diurno. Le attrezzature erano più o meno le stesse, la cucinetta era diventata a gas. L’“Apollonio” restò la norma fino agli anni Novanta.

Da allora, ma anche prima di allora, molti architetti si sono confrontati con la progettazione di una struttura che deve essere poco impattante a livello ambientale, pratica pur in spazi ridotti, funzionale in condizioni meteorologiche estreme, potenzialmente fantasiosa e avveniristica nell’uso dei materiali e nel design esterno: questo ha dato vita a modelli di bivacchi anche molto diversi e anche con un numero maggiore di attrezzature.

Se cento anni fa solo gli alpinisti più esperti avevano conoscenze e attrezzature per raggiungere i bivacchi e pernottarvi, oggi le strutture sono maggiormente accessibili. Negli ultimi anni, dopo la pandemia, chi si occupa della manutenzione dei bivacchi segnala che sempre più persone cercano di raggiungerli e utilizzarli. Restano comunque in luoghi per lo più isolati e di alta montagna, per cui per progettare un’escursione di questo genere, con sosta a un bivacco, è sempre necessario prendere delle precauzioni e sapere che cosa si troverà nella struttura.

L’interno del bivacco Fanton, con dodici posti letto (Foto Matteo Peroni)

Sfruttando i pannelli solari i bivacchi più moderni hanno corrente, riscaldamento e piastre elettriche, mentre le cucine che utilizzano bombole a gas sono state per lo più dismesse. Il bivacco Gervasutti, in Valle d’Aosta, per alcuni anni ebbe anche una sorta di computer di bordo, attraverso il quale era possibile valutare itinerari e condizioni meteo. Attrezzature simili restano un’eccezione: anche dove sono presenti pannelli solari nella maggior parte dei casi alimentano unicamente impianti di illuminazione, dotati di timer per evitare che restino accesi inavvertitamente. Le prese per ricaricare il telefono sono molto più rare: non è il caso di farci affidamento.

I bivacchi emergenziali sono molto più spartani: prevedono quasi sempre un buon isolamento termico rispetto all’esterno, posti letto, una panca centrale che può essere utilizzata come piano d’appoggio, l’equipaggiamento di base per il primo soccorso.

Il CAI ha recentemente presentato un nuovo modello, standardizzato e destinato, nelle intenzioni, a sostituire le strutture più vecchie e obsolete (ma anche a essere venduto all’estero). Ha una base rialzata, con piedi regolabili in modo che il montaggio sia possibile anche in pendenza senza movimenti di terreno, una struttura tubolare di alluminio, rivestimenti interni di legno isolanti, con uno strato di materiale termoriflettente che conserva il calore: i posti letto all’interno sono sei, più due supplementari in caso di necessità. Rispetto ai modelli storici un’ampia vetrata permette la vista sul panorama circostante, mentre è stata mantenuta la porta d’ingresso divisa a metà, in modo che sia apribile anche in condizioni di neve alta. Riccardo Giacomelli, presidente della Struttura operativa rifugi e opere alpine del CAI, spiega che il modello è ispirato a quelli storici ma è stato pensato per «essere montato e smontato senza lasciare alcuna traccia in montagna».

Il modello del nuovo bivacco CAI in costruzione (foto CAI)

Matteo Peroni è un appassionato di montagna e youtuber: sui suoi canali social racconta escursioni e, appunto, pernottamenti nei bivacchi. Spesso fornisce informazioni limitate sull’ubicazione degli stessi, o persino sul nome, per non incorrere nelle critiche degli appassionati che lo accusano di renderli troppo popolari e quindi alla lunga sovraffollati.

Racconta che in effetti da giugno a settembre, soprattutto nei fine settimana, è probabile trovarsi in situazioni in cui i posti nel bivacco sono meno delle persone presenti: «Quando si è lì per fare una gita, ci si stringe. Ma va ricordato che se a qualcuno il ricovero servisse per una situazione emergenziale, bisognerebbe lasciargli il posto». Il sovraffollamento dei bivacchi è una novità degli ultimi anni dovuta, secondo Peroni, anche al fatto che «i social li hanno resi più popolari. E poi spesso sono strutture architettonicamente interessanti, in un contesto naturale selvaggio e di grande bellezza: tutte cose che li rendono “Instagram friendly” e quindi attirano anche chi è solo alla ricerca di una bella foto da mettere sul proprio profilo».

La frequentazione da parte di un pubblico nuovo e meno esperto ha portato ad alcuni casi limite in cui è stato necessario l’intervento di squadre di soccorso, perché gli escursionisti non erano sufficientemente attrezzati. Ma più di frequente pone più che altro questioni di manutenzione e uso consapevole: le regole di utilizzo prevedono che chi usa un bivacco porti poi con sé a valle tutti i rifiuti prodotti, ma non sempre questo accade. Bottiglie vuote di vetro e altri rifiuti, più o meno voluminosi, spesso vengono abbandonati all’interno.

– Leggi anche: In Italia ci sono 160mila chilometri di sentieri di cui prendersi cura

I lavori di manutenzione sono svolti da volontari, dai soci del CAI della sezione che ospita il bivacco, oppure dai responsabili dei rifugi che sono vicini e “collegati” ai bivacchi. Alcuni infatti sono posizionati lungo itinerari che partono da rifugi, o vicini a questi: i gestori si occupano anche di ridipingere, sistemare, riparare i danni causati dal maltempo. Si occupano anche dei libri delle firme, presenti in tutti i bivacchi e simili ai libri di vetta: se ne possono trovare di molto datati, ma quando le pagine si esauriscono vengono sostituiti e quelli completi vengono portati alla sezione CAI di competenza.

Assemblaggio del bivacco Città di Clusone in sede definitiva. Più in alto a destra il bivacco storico, successivamente rimosso (Wikimedia Commons C.A.I. Clusone Sez. Rino Olmo)

Quando invece il bivacco va collocato per la prima volta o sostituito, si può procedere in due modi. Le strutture più essenziali in lamiera vengono realizzate a valle, trasportate in quota con un elicottero e poi fissate; quelle più complesse vengono invece montate in quota, dopo aver trasportato i pezzi, ora con elicotteri, ora a piedi.

Negli ultimi anni sono state anche completate delle ristrutturazioni di bivacchi risalenti alla Prima guerra mondiale, ormai in disuso, come il bivacco Buffa di Perrero o il recupero della casermetta del Monte Tudaio, entrambi nelle Dolomiti. Il bivacco Fanton realizzato dallo studio di architettura Demogo è stato invece l’unico edificio italiano inserito fra i 40 candidati a uno dei più importanti premi di architettura dell’Unione Europea, il Mies van der Rohe (hanno vinto poi un’aula studio in Germania e una biblioteca di Barcellona).