“Il sesto senso” e lo Shyamalan twist

Dopo 25 anni da quel famoso finale, i colpi di scena del suo regista sono diventati un tratto distintivo tale da prendere il suo nome: in parte è così anche nel nuovo film “Trap”, che esce oggi

M. Night Shyamalan e Bruce Willis sul set di Il sesto senso nel 1999 (Ron Phillips/Buena Vista Pictures/courtesy Everett Collection)
M. Night Shyamalan e Bruce Willis sul set di Il sesto senso nel 1999 (Ron Phillips/Buena Vista Pictures/courtesy Everett Collection)
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Il regista americano nato in India M. Night Shyamalan aveva girato due film di nessun successo quando nel 1999 si dedicò per la prima volta a una storia di tensione, un quasi-horror intitolato Il sesto senso. La caratteristica più ricordata e raccontata di questo film, che ebbe un enorme successo, è il grande colpo di scena finale: una rivelazione che cambia la storia per come si è svolta fino a quel momento e che è così ben celata da risultare davvero imprevedibile. La grande fortuna che ebbe quel film, il cui protagonista era Bruce Willis, rivelò quanto Shyamalan fosse abile nel gestire misteri e tensione e diede una grossa spinta alla sua carriera.

In tutti i film successivi, più o meno riusciti, ha quasi sempre inserito una grande rivelazione finale e questo ha fatto sì che da un certo punto in poi si cominciasse a parlare di “Shyamalan twist”, per indicare un ribaltamento al tempo stesso clamoroso e imprevedibile. Nel suo ultimo film, Trap, dal 7 agosto nei cinema italiani, per la prima volta la grande rivelazione è all’inizio e non alla fine. O comunque non proprio.

In Trap il “twist” è infatti una premessa e quindi viene già raccontata nel trailer e in un certo senso nel titolo. La storia è quella di un padre che accompagna la figlia dodicenne al concerto di una grande popstar. Una volta dentro l’arena, notando una grande presenza di polizia e squadre antisommossa, si informa e scopre da un inserviente che il concerto è una copertura: lì dentro, nell’arena piena di gente, c’è il serial killer noto come Il Macellaio, e la polizia conta di catturarlo quella sera. Il colpo di scena che viene rivelato subito è che il protagonista non deve difendere se stesso e la figlia dal killer, perché il killer è lui e dovrà in qualche modo uscire da quella trappola che gli è stata tesa.

Per quanto in questo caso non voglia stupire realmente il pubblico ma dichiarargli subito i presupposti della storia, anche Trap contiene comunque un piccolo colpo di scena nel finale.

È molto raro che uno strumento narrativo prenda il nome di un autore che lo ha usato meglio degli altri. Già nel 2000, quando il termine non esisteva ancora ed era in uscita Unbreakable, film che arrivava dopo il successo di Il sesto senso e anch’esso dotato di un finale a sorpresa, Shyamalan era considerato “quello dei colpi di scena finali”. In un’intervista dell’epoca disse di non sapere se davvero avrebbe voluto avvalersi di questo espediente a lungo, e che anzi visto che gli viene abbastanza facile concepirne, era probabile che avrebbe lottato tutta la vita con la tentazione di fare ogni volta un altro film con finale a sorpresa. Quasi venticinque anni dopo si può dire che ha usato questa tecnica per la quasi totalità dei suoi film, sicuramente nei più riusciti.

Nonostante non se ne sia praticamente mai distanziato (il penultimo film, Bussano alla porta, introduce un evento misterioso e ne rivela la natura solo alla fine), Shyamalan non ama il termine “Shyamalan twist”. Dal suo punto di vista i suoi film (di cui è quasi sempre regista e sceneggiatore) non sono fatti per il finale, il colpo di scena non è così importante e comunque quando li pensa non parte da lì. Cioè non pensa le storie costruendole in modo che ci possa essere un grande colpo di scena finale ma, sostiene sempre lui, sono storie in cui il punto di vista slitta da un personaggio all’altro, e nel mostrare i fatti attraverso gli occhi di più persone fanno scoprire cose nuove.

È quello che succede in Il sesto senso e da lì in poi nei finali di molti suoi film: non c’è qualcuno che svela un mistero, ma è il pubblico che di colpo vede la storia da un altro punto di vista, scoprendo dettagli fino a quel momento nascosti ma coerenti.

A testimonianza del rapporto complicato che M. Night Shyamalan ha con la caratteristica più raccontata e apprezzata dei suoi film, c’è il fatto che pur non dando molta importanza ai finali ci tiene molto al fatto che non vengano svelati, anche dopo anni. Di solito si tende ad accettare gli spoiler dopo anni dall’uscita di un film, ma Shyamalan ha più volte dichiarato che secondo lui non esiste un termine di scadenza per i twist, cioè un periodo dopo il quale è legittimo parlarne liberamente. Per questo quando gli viene chiesto invita sempre a non rivelare il finale di Il sesto senso, nemmeno oggi che sono passati 25 anni (e per questo anche in questo articolo non parliamo nel dettaglio di quella svolta, per quanto molto nota, né di quelle degli altri suoi film).

Lo “Shyamalan twist” (al pari della “faccia Spielberg”) è uno dei pochi espedienti di cinema che portano il nome di un autore che siano nati o stati canonizzati negli ultimi due decenni, nello stesso modo in cui in passato si erano coniati termini come “felliniano” per associare alcuni espedienti cinematografici o narrativi a Fellini o altri registi. È molto complicato che accada non solo perché bisogna essere registi di grande fama, ma anche perché serve una libertà che permetta di fare con costanza film personali, una cosa rara nel cinema hollywoodiano. Shyamalan però ha fatto in modo di non essere soggetto alle regole a cui sono soggetti gli altri. Il tratto più evidente del suo lavoro è che è quasi sempre lo sceneggiatore unico di storie originali. Qualche volta ha adattato romanzi o graphic novel o ha preso parte a progetti di cui non era l’ideatore come After Earth: solo in un caso ha lavorato a un adattamento di una proprietà intellettuale con ambizioni da blockbuster, per L’ultimo dominatore dell’aria, e andò male. Gli unici sequel che ha girato sono di un suo film, Unbreakable, e si intitolano Split e Glass. Coerentemente, all’epoca della sua uscita, che Split fosse il sequel di Unbreakable lo si scopriva a sorpresa nel finale con uno Shyamalan-twist di cui il regista era molto geloso.

Essere autonomo, scrivere i propri film da solo, non dover girare grandi blockbuster e lo stesso lavorare con grandi star a storie originali, negli Stati Uniti è una condizione a cui possono accedere in pochissimi registi e solitamente di grande successo come Christopher Nolan o Quentin Tarantino. Altri che lavorano così ma hanno minore successo, come Paul Thomas Anderson o Sofia Coppola, faticano molto e lo fanno con grandi compromessi. A Shyamalan è possibile farlo perché, nonostante una carriera piena di alti e bassi, a partire dal 2015 ha cambiato la maniera in cui finanzia i propri film, decidendo di fare a meno degli studi e di usare i propri soldi.

È una cosa che nessuno fa e anzi tutti sconsigliano (Shyamalan incluso): è una specie di regola non scritta del cinema americano, perché comporta molti rischi e grandi costi. Un film americano costa decine di milioni di dollari e può portare ad altrettante perdite. Un solo film andato male può prosciugare le finanze di un regista. Tuttavia il modo molto economico che ha Shyamalan di lavorare (riesce a fare film spendendo tra i 5 e i 20 milioni, che è pochissimo viste le star che ci recitano), unito al suo nome e al fatto che in virtù di quello viene distribuito dalle grandi major come Universal o Warner Bros (quindi può arrivare in tante sale con un buon incasso potenziale minimo), fa sì che difficilmente perda molto denaro. Anche qualora un suo film non andasse bene raggiungerebbe comunque delle cifre che gli consentirebbero di pareggiare i conti o di perdere poco.

Ha iniziato investendo i propri soldi in due film di sicuro incasso: i sequel di Unbreakable. Split e Glass sono costati rispettivamente 9 e 20 milioni di dollari e hanno incassato circa 250 milioni l’uno. Non tutti i guadagni vanno direttamente a lui, dipende dal contratto di distribuzione, ma di certo gli hanno portato una sicurezza economica con cui reggere qualche brutto insuccesso, che tuttavia dal 2015 a oggi non è ancora arrivato. Pochissimi altri registi americani hanno investito i propri soldi in un film (Charlie Chaplin per Il grande dittatore, Francis Ford Coppola per Apocalypse Now e poi per Megalopolis, Alfred Hitchcock per girare Psyco) ed era sempre perché non avevano alternative. Ma Shyamalan non si trova nella condizione in cui nessuno gli dà fiducia. Sebbene non sia costretto a produrre da sé, preferisce farlo e rifiuta finanziamenti esterni per non dover discutere di niente con nessuno, non dover convincere le grandi case di produzione delle sue idee (come per esempio fare un film dalla parte di un serial killer in cui si rivela una svolta importante già nel trailer) e poter fare i film in famiglia. In Trap la cantante del concerto a cui vanno i protagonisti è sua figlia Saleka, che effettivamente fa la musicista.