Dobbiamo davvero preoccuparci dell’economia statunitense?
I crolli in borsa degli ultimi giorni sono stati una reazione eccessiva ad alcuni dati deludenti sul mercato del lavoro degli Stati Uniti, ma i timori di una recessione non sono del tutto infondati
Tra le ragioni che negli scorsi giorni hanno causato i grossi cali sui mercati finanziari ci sono i timori di una possibile recessione dell’economia statunitense, che potrebbe avere ripercussioni negative su quella globale. I cali sono cominciati venerdì in seguito alla diffusione di dati deludenti sul mercato del lavoro negli Stati Uniti, un parametro che solitamente è considerato un buon indicatore dell’arrivo di un momento di crisi. Molti economisti ritengono che la reazione dei mercati sia stata esagerata – e infatti da martedì stanno recuperando parte dei cali – anche se qualche ragione per preoccuparsi effettivamente c’è.
Partiamo dai numeri. A luglio negli Stati Uniti sono stati creati 114 mila nuovi posti di lavoro, uno dei dati più bassi degli ultimi anni: sono molti meno del mese precedente, quando furono 179 mila, e molti meno ancora di luglio del 2023, quando furono creati 184 mila posti di lavoro. I dati sui nuovi posti di lavoro sono indicativi di come sta andando l’economia: più cresce e più le aziende hanno bisogno di assumere, e viceversa.
Allo stesso tempo è aumentato il tasso di disoccupazione, cioè la quota di persone che non lavora ma sta cercando un impiego. Era cresciuto moltissimo durante la pandemia, per poi calare dal 2022 in poi e riassestarsi su livelli soddisfacenti. Ultimamente però è tornato a crescere lentamente: a luglio è aumentato di 0,2 punti percentuali, arrivando al 4,3 per cento, un livello che non veniva raggiunto da ottobre del 2021. Un alto tasso di disoccupazione indica che l’economia va male, dato che molte persone che cercano un lavoro non riescono a trovarlo.
Al contrario il Prodotto Interno Lordo (PIL) statunitense, la misura del reddito nazionale, è andato molto bene negli ultimi anni e sta continuando a dare buoni risultati. Dall’ultimo trimestre del 2022 sta crescendo a ritmi sempre maggiori: allora il PIL era cresciuto dello 0,7 per cento rispetto allo stesso trimestre dell’anno prima, mentre nel secondo trimestre di quest’anno la crescita è stata del 3,1 per cento.
È sorprendente che il PIL statunitense sia andato così bene nonostante la politica monetaria estremamente penalizzante della Federal Reserve, la banca centrale statunitense. Dall’inizio del 2022 la Fed ha iniziato ad aumentare velocemente i tassi di interesse con l’obiettivo deliberato di far rallentare l’economia, che dalla fine della pandemia stava crescendo moltissimo e aveva innescato un violento aumento dei prezzi. Negli ultimi anni non solo la Fed, ma tutte le principali banche centrali hanno fatto la stessa cosa: alzare i tassi di interesse per contenere l’inflazione.
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È la strategia migliore e più rodata a disposizione delle banche centrali per fermare l’aumento dei prezzi, ma è anche molto criticata dalla politica, che vorrebbe che l’economia non smettesse mai di crescere. Capire quanto è possibile alzare i tassi senza far crollare l’economia è anche molto difficile, se non impossibile: le banche centrali devono cercare di rallentare l’economia senza portarla in recessione, quindi a una riduzione del PIL.
Negli ultimi anni l’inflazione statunitense si è effettivamente ridotta, ma il PIL ha continuato a crescere moltissimo, contro ogni previsione e nonostante tutti continuassero ad aspettarsi una recessione da un momento all’altro: l’economia statunitense si è dunque trovata nello scenario noto come soft landing, l’“atterraggio morbido” che si ha quando l’inflazione diminuisce proprio nella misura giusta, facendo rallentare i prezzi ma senza causare una recessione né un grande aumento della disoccupazione. Lo scenario opposto è il cosiddetto hard landing, ossia uno schianto dell’economia (letteralmente un “atterraggio duro”) che si verifica quando il tentativo delle banche centrali di fermare l’aumento dei prezzi sfocia in una grave recessione.
L’economia statunitense ha saputo reggere bene l’aumento dei tassi di interesse grazie agli enormi risparmi accumulati durante la pandemia dalle famiglie e dalle aziende, che le hanno aiutate ad attutire l’aumento del costo dei debiti senza ridurre troppo consumi e investimenti. Grazie a questi risparmi il tenore di vita delle persone è riuscito a non cambiare troppo, le aziende hanno continuato a vendere e ad assumere, e l’economia non ha mai smesso di andare bene. L’esperienza storica, quella per cui un notevole aumento dei tassi di interesse porta a una recessione, sembrava essere stata smentita, almeno finora.
I dati di venerdì sul mercato del lavoro – per quanto non tragici – hanno fatto pensare che le cose stiano cambiando, e che l’economia statunitense si stia muovendo da uno scenario di soft landing a uno di hard landing. Non è la prima volta che i dati sul lavoro vanno peggio delle aspettative, ma è la prima volta da tempo che le borse crollano in modo significativo per il timore di una recessione.
Il problema è che oggi le famiglie e le aziende non hanno più a disposizione i risparmi su cui potevano contare dopo la pandemia. L’economia statunitense ha quindi meno strumenti per attutire lo scossone che l’aumento dei tassi di interesse ha provocato, e questo si inizia a vedere proprio dai dati sul lavoro: le aziende hanno iniziato a limitare le assunzioni, e le persone fanno più fatica a trovare un impiego.
I numeri del mercato del lavoro sono quelli che nella storia hanno sempre anticipato con una certa affidabilità le crisi economiche, soprattutto negli Stati Uniti. Recentemente è stata formalizzata una regola nota come Sahm rule, dal nome dell’economista statunitense che l’ha ideata nel 2019, Claudia Sahm. Da allora è diventata assai usata nei modelli di previsione economica, soprattutto in quelli che usano i grandi investitori: secondo la Sahm rule l’economia statunitense si trova all’inizio di una recessione ogni volta che la media mobile a tre mesi del tasso di disoccupazione è più alta di 0,5 punti percentuali rispetto al valore più basso della media mobile a tre mesi dell’anno precedente. Al di là dei tecnicismi, la cosa importante da sapere è che al momento il tasso di disoccupazione avrebbe superato questa soglia, e quindi secondo la Sahm rule l’economia statunitense starebbe entrando in recessione.
Secondo vari economisti però i mercati finanziari potrebbero aver preso troppo alla lettera questa regola, e aver reagito eccessivamente ai dati di venerdì. Gli investitori potrebbero anche star sottovalutando alcune ragioni di ottimismo: sono ancora molto positivi i dati sui redditi e sulla spesa dei consumatori, e il PIL cresce a un ritmo sempre maggiore. Inoltre i dati sul lavoro che hanno tanto deluso i mercati non sono in realtà catastrofici, e lo scorso luglio negli Stati Uniti come abbiamo detto sono comunque stati creati 114 mila posti di lavoro. C’è anche una ragione tecnica che spiega perché i cali sono stati eccessivi: sebbene le borse non chiudano mai, nei periodi estivi si riducono notevolmente le transazioni, e quindi i movimenti sia al rialzo che al ribasso sono sempre più accentuati rispetto alla norma.
Il peggioramento dei dati sul lavoro fa comunque presupporre che ormai l’economia sia rallentata abbastanza per permettere una discesa dei tassi di interesse, che da settimane viene considerata certa dagli osservatori. Anche il presidente della Fed, Jerome Powell, di recente ha fatto capire che a settembre avrebbe abbassato i tassi per rendere meno penalizzante la politica monetaria e aiutare l’economia, dato che con tassi più bassi diventa più conveniente, per esempio, fare un prestito per comprare una casa o per espandere un’azienda.
Alcuni economisti ritengono che ormai sia tardi per ridurre i tassi di interesse, e che la Fed abbia aspettato troppo per abbassarli, mettendo l’economia sulla strada per la recessione. Buona parte delle altre banche centrali ha già iniziato a ridurre i tassi: lo scorso giugno Banca Centrale Europea annunciò la sua prima riduzione in cinque anni.