L’opposizione in Venezuela ha chiesto ai militari di fermare la repressione
E di non sostenere più il presidente Nicolás Maduro: ma è un'opzione che al momento sembra poco probabile
Lunedì l’opposizione venezuelana si è rivolta alle forze armate del paese chiedendo di fermare la repressione e smettere di sostenere il presidente Nicolás Maduro, che governa dal 2013 e che nel tempo è diventato sempre più autoritario. Maduro si era attribuito la vittoria delle elezioni del 28 luglio, dove quasi certamente c’erano stati brogli, e aveva rifiutato di diffondere le ricevute del voto elettronico. Le forze armate sono una delle ragioni, forse la più importante, della sopravvivenza del regime di Maduro, che è diventato assai impopolare. Per questo, secondo diverse analisi, solo loro potrebbero far rispettare l’esito delle elezioni.
In base ai dati dell’opposizione – ritenuti credibili da media, organizzazioni internazionali e da vari paesi, tra cui Stati Uniti e Unione Europea – il vero vincitore è stato Edmundo González Urrutia, il candidato dell’opposizione, con una percentuale intorno al 66 per cento. Nonostante alcune dichiarazioni ambigue prima del voto, in pubblico i dirigenti delle forze armate hanno ribadito la fedeltà a Maduro, che però non si fida troppo di alcuni di loro. Nella storia del Venezuela l’esercito ha avuto un ruolo cruciale in ogni cambio di governo o di regime: con ogni probabilità sarà così anche stavolta.
Lunedì González e María Corina Machado, la leader dell’opposizione, hanno scritto una lettera aperta ai comandanti e ai membri della polizia e delle forze armate, invitandoli a non essere «complici» del «colpo di stato» di Maduro e a mettersi invece «dalla parte del popolo e delle vostre famiglie». Con la lettera denunciano le violazioni dei diritti umani avvenute dopo le elezioni, con la dura repressione delle manifestazioni per lo più pacifiche. Più di 2mila persone sono state arrestate in meno di due settimane: è già quasi la metà di quelle arrestate tra l’aprile e l’agosto del 2017, quando c’era stato il più grande ciclo di proteste antigovernative fino a quel momento.
Il governo ha reagito subito all’appello di González e Machado, facendoli incriminare. Il procuratore generale Tarek Saab, stretto alleato di Maduro, li ha accusati di aver incitato alla ribellione la polizia e le forze armate. Pochi giorni fa il presidente si è fatto filmare dai media di stato attorniato dai generali e da soldati in assetto antisommossa che, durante una cerimonia altamente coreografica, hanno gridato: «Sempre leali!». È un modo per ostentare il sostegno delle forze armate e dare all’esterno un’immagine di forza, in un momento in cui il regime è in realtà in una fase di relativa debolezza.
«Ogni cambiamento di regime in Venezuela fin dal 1830 ha visto le forze armate coinvolte come protagoniste o comprimarie», ha detto al Guardian Carlos Lizarralde, autore del libro Venezuela’s Collapse. L’esercito ebbe un ruolo chiave nel 1958, per rovesciare il dittatore Marcos Pérez Jiménez, e nel 2002 durante la brevissima deposizione del presidente Hugo Chávez (che era a sua volta un ex militare).
Leader come Maduro dipendono dalle forze armate per conservare il potere, specie quando sono ormai fortemente impopolari, come nel suo caso, ma al tempo stesso diffidano di loro e cercano di limitarne l’influenza. Un espediente ricorrente, adottato anche in Venezuela, è frammentare le forze armate e l’intelligence in più parti, per evitare che abbiano una leadership univoca e quindi controllarle meglio. In parallelo il regime ha lautamente ricompensato i comandanti, spartendo con loro la gestione delle aziende pubbliche, le licenze dell’industria petrolifera e i proventi del traffico internazionale di droga.
Per esempio in Venezuela esistono tre diverse agenzie d’intelligence, che spiano gli esponenti dell’opposizione ma si spiano anche tra di loro. Le forze armate hanno circa 150mila effettivi, equipaggiati con materiale russo e divisi tra esercito, marina, aviazione e guardia nazionale. Ci sono poi la polizia e la guardia nazionale, che rispondono direttamente agli ordini di Maduro. Infine esistono squadre paramilitari di civili, note come colectivos (“collettivi”), pagate dal regime per aggredire i manifestanti dell’opposizione e probabilmente guidate da personale fornito da Cuba, uno dei pochi alleati internazionali di Maduro.
Il governo ha finora incaricato soprattutto queste squadre, insieme a polizia e guardia nazionale, di reprimere le proteste. Maduro potrebbe infatti incontrare resistenze se provasse a dispiegare direttamente l’esercito (o la marina o l’aviazione) contro i manifestanti. Vladimir Padrino López, che è ministro della Difesa dal 2014, è considerato una figura chiave, sia per la continuità del regime sia per un suo eventuale rovesciamento o una transizione del potere (eventualità che sembra piuttosto difficile al momento).
Padrino López viene tenuto d’occhio dai servizi segreti venezuelani, secondo Manuel Cristopher Figuera, ex capo dell’intelligence di Maduro. «È l’unico nella posizione di agire, avendo l’autorità suprema sul monopolio di stato delle armi, e potrebbe essere l’unico a negoziare in modo indipendente una via d’uscita: se non lo uccidono prima», ha spiegato Figuera al Miami Herald. Lo stesso Padrino López, prima del voto, aveva parlato dell’inizio di una nuova era per il paese, dicendo che le forze armate avrebbero fatto rispettare l’esito delle elezioni.
Le dichiarazioni del ministro della Difesa erano ambigue, a seconda di quale “esito” far rispettare, quello reale o la versione ufficiale della vittoria di Maduro. Ma erano anche piuttosto inusuali rispetto alla retorica, molto aggressiva, che caratterizza i dirigenti del regime. Sempre Padrino López aveva infatti detto che il governo avrebbe pubblicato le ricevute di voto di ogni seggio, cosa che Maduro si è ben guardato di fare. Dopo le elezioni, però, Padrino López ha riunito i comandanti più alti in grado per un discorso in cui ha ribadito la fedeltà «più assoluta e incondizionata» al presidente, facendo una tirata contro l’imperialismo statunitense che sarebbe dietro le manifestazioni.
Già nel 2019, durante le proteste seguite alla contestata rielezione di Maduro per un secondo mandato, Padrino López ebbe la possibilità di schierarsi con l’opposizione, ma non lo fece. Una delle ragioni è che i generali e i funzionari compromessi con il regime temono per la loro incolumità, o di finire in carcere, qualora quello stesso regime cadesse. Anche per questo, durante tutta la campagna elettorale, il candidato dell’opposizione González ha promesso che, qualora diventasse presidente, non ci saranno ritorsioni nei confronti di chi ha lavorato o ha fatto parte del governo di Maduro.
Nel frattempo Maduro sta cercando, come al solito, di distogliere l’attenzione dei cittadini con iniziative particolari sui social. L’ultima è una campagna contro l’utilizzo della app di messaggistica WhatsApp, a cui il presidente si riferisce come se fosse una persona fisica, perché usata dai «codardi all’estero» (cioè i 7,7 milioni di cittadini venezuelani fuggiti dal paese) per «minacciare il Venezuela». In un video si vede Maduro disinstallare dal suo cellulare la app, bollata come un esempio di «imperialismo tecnologico». È un tentativo di controllare l’opinione pubblica e impedire che sia esposta a qualcosa di diverso dalla propaganda, eliminando uno degli ultimi canali da cui passano ancora le notizie dei media indipendenti.
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